Stiamo assistendo, a 60 anni dal Trattato di Roma, alla crisi di quel grande progetto che fu il processo di integrazione europea e, di riflesso, alla crisi delle nostre democrazie nazionali. Un fattore rilevante di questa crisi è indubbiamente l’irrazionale architettura istituzionale dell’Unione Europea. Sono stati creati un mercato comune e una moneta unica, ma non anche un governo comune dell’economia.
Le sole regole di convivenza che gli Stati membri sono stati capaci di inventare per proteggere le loro produzioni sono stati perciò il divieto per i governi di intervenire nelle vicende economiche con aiuti alle loro imprese in difficoltà, anche a costo di lasciarle fallire e di accrescere la disoccupazione, e l’obbligo del pareggio di bilancio e della riduzione dei debiti esteri, anche a costo di ridurre le spese sociali. Di qui il passo indietro degli Stati nel governo dell’economia, cui ha corrisposto un enorme passo avanti dei poteri dei mercati dei quali gli organi centrali dell’Unione hanno finito per farsi tramiti.
Ne è risultato un mostro istituzionale: l’abdicazione degli Stati al loro ruolo tradizionale di governo dell’economia e di garanzia dei diritti sociali; il trasferimento delle loro funzioni di governo agli organi dell’Unione i quali, in assenza di una sfera pubblica informata all’interesse comune europeo, hanno finito per subordinarsi alle direttive dei mercati; la crescita delle disuguaglianze e la rottura a livello di massa dello spirito pubblico comunitario e del senso di appartenenza dei diversi popoli europei a un’unica comunità politica; la trasformazione del sogno europeo, per una parte crescente delle popolazioni, in un incubo sul quale fanno leva tutti i partiti e i movimenti populisti che cavalcano la rabbia e la delusione all’insegna dell’antieuropeismo.
L’Europa, in breve, sta negando se stessa. Non è più l’Europa civile e sociale dei diritti e della solidarietà che in passato rappresentava un modello per i progressisti di tutto il mondo, ma un’Europa divisa, disuguale, depressa, debilitata politicamente e moralmente, avvertita come ostile da parti crescenti delle popolazioni, nuovamente in preda agli egoismi nazionali, alle pretese egemoniche, ai populismi xenofobi, alle rivalità, alle recriminazioni e alle diffidenze reciproche.
È questo il problema di fondo dell’Europa. Le politiche europee di austerità, comportando la crescita delle disuguaglianze e la riduzione dello stato sociale, stanno provocando il crollo delle solidarietà, la disgregazione e la regressione morale, intellettuale e culturale di gran parte delle società europee che si manifesta nella sfiducia, nella paura, nell’odio, nella generale aggressività e nell’assunzione dell’interesse personale e del denaro come unici metri e valori. La Brexit è solo un sintomo di questa involuzione civile dell’Europa. Ciò cui stiamo assistendo, se non ci sarà un mutamento di rotta nelle politiche comunitarie, è il lento suicidio politico dell’Unione Europea.
È possibile questo mutamento di rotta delle politiche europee? Questa possibilità dipende anzitutto dal rifiuto dell’opposto postulato ideologico secondo il quale, come ripetono tutti i governanti e i loro sostenitori, non ci sarebbero alternative possibili alle politiche finora praticate. Dipende, precisamente, dalla consapevolezza che in politica non c’è nulla di inevitabile e che sempre esistono alternative alle politiche volta a volta praticate, e più che mai alle politiche attuali, rivelatesi oltre tutto fallimentari anche sul piano economico essendo state tra le cause della crisi della quale continuano, paradossalmente, a riproporsi come terapia.
Il mutamento di rotta dipende, in particolare, dal riconoscimento dell’infondatezza della tesi secondo cui l’assenza di politiche alternative sarebbe dovuta alla mancanza delle risorse per finanziare adeguatamente le garanzie dei diritti sociali e del lavoro, le quali sarebbero un lusso che solo i paesi ricchi e non in tempi di crisi possono permettersi. Anche questo luogo comune va ribaltato: sono proprio le spese sociali rese possibili dalla distribuzione della ricchezza che determinano lo sviluppo economico.
Non dimentichiamo che nel 1945, all’indomani della Liberazione e della fine della guerra più distruttiva della storia, l’Europa e più di tutti l’Italia e la Germania erano un cumulo di macerie: sul piano economico, oltre che sul piano istituzionale e su quello politico e morale. Fu su quelle rovine, con risorse incomparabilmente inferiori a quelle attuali, che fu rifondata la democrazia nelle forme della democrazia costituzionale attraverso la costituzionalizzazione dei diritti sociali e dei relativi vincoli di spesa a carico della sfera pubblica, nonché dell’obbligo di una politica fiscale informata al principio di un’effettiva progressività delle imposte. Oggi si è perduta la memoria di quei vincoli costituzionali. E invece dobbiamo ricordare che è stato anche grazie all’attuazione di quel progetto normativo che si è prodotto, oltre alla fondazione delle nostre democrazie, il più rapido e straordinario sviluppo economico della storia.
Contrariamente al credo liberista, quell’impetuoso sviluppo fu reso possibile, nel primo trentennio del dopoguerra, proprio dalla costruzione della democrazia politica e dello stato sociale; in Italia, in particolare, dalla scolarizzazione di massa, dalla valorizzazione del lavoro tramite l’espansione dei diritti dei lavoratori, dall’introduzione del servizio sanitario nazionale universale e gratuito, dalle garanzie universali della previdenza e dell’assistenza, in breve dall’attuazione dei diritti costituzionalmente stabiliti. Dovrebbe infatti essere evidente che le garanzie di tali diritti, avendo accresciuto le capacità individuali, sono state il principale investimento produttivo e il più rilevante fattore della crescita economica, non a caso trasformatasi in recessione simultaneamente alle controriforme di questi ultimi anni in materia di lavoro e alla contemporanea riduzione delle spese sociali.
Dobbiamo allora riconoscere che ciò che nei primi trenta anni del dopoguerra ha determinato quello straordinario sviluppo civile ed economico fu la volontà politica, generata e sorretta da forti lotte sociali, di dare attuazione al progetto costituzionale disegnato dalle costituzioni degli Stati membri, e poi dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e dai primi articoli dei Trattati europei. Questo progetto – il progetto dell’uguaglianza, della pari dignità delle persone e della garanzia dei diritti fondamentali – rappresenta perciò l’alternativa tuttora politicamente possibile e giuridicamente dovuta alle miopi politiche odierne.
Ciò che oggi si richiede, in alternativa radicale ai processi decostituenti che hanno investito tanto l’Unione Europea quanto le nostre democrazie nazionali, è dunque un processo costituente della prima quale necessario presupposto di un processo ricostituente delle seconde. In questa prospettiva, una sicura rifondazione dello spirito pubblico europeo proverrebbe oggi dall’istituzione di un’Assemblea Costituente Europea o anche dall’attribuzione al Parlamento europeo, da parte del Consiglio europeo dei ministri, di poteri costituenti, ovviamente su iniziativa e con la partecipazione dei soli paesi dell’Unione che condividano un apposito Trattato costituente.
È pur vero che attualmente sono in crescita in tutta Europa i partiti e i movimento anti-europeisti. Per sua natura, tuttavia, un’assemblea “costituente”, comportando il trapasso delle relazioni tra gli Stati dall’attuale logica internazionalistica a quella costituzionale, non potrebbe che muoversi in direzione opposta ai processi di disgregazione oggi promossi dai vari partiti sovranisti e populisti.
Solo una vera Costituzione votata da un Parlamento legittimato dal voto di tutti i popoli europei può d’altro canto rilegittimare l’Europa, oggi in crisi di legittimità democratica, ridisegnandone con chiarezza i lineamenti federali e sociali: l’attribuzione di funzioni legislative a un Parlamento eletto su liste europee; l’istituzione di un governo federale ad esso vincolato da un rapporto di fiducia o comunque eletto anch’esso su basi europee; la conseguente creazione di un vero governo politico dell’economia attraverso l’introduzione di un fisco comune e l’attribuzione alla Banca centrale europea dei poteri che spettano a tutte le banche centrali; l’uguale garanzia dei diritti fondamentali per tutti i cittadini europei – in tema di salute, istruzione e reddito di cittadinanza – in grado di assicurarne l’uguaglianza e perciò la coesione sociale e il senso di appartenenza a una medesima comunità; la formazione di partiti e di sindacati europei; la garanzia di un diritto d’asilo europeo e, insieme, la concessione della cittadinanza europea quanto meno ai figli di immigrati che nascono in Europa; la progressiva unificazione giuridica dei codici e della legislazione di base, non avendo alcun senso che nell’Unione convivano decine di codici civili e penali sostanzialmente uguali, e soprattutto del diritto del lavoro, rifondato nelle sue garanzie, prime tra tutte la stabilità dei rapporti lavorativi e l’equa retribuzione minima, onde por fine ai trasferimenti delle imprese nei paesi nei quali è maggiore la possibilità di sfruttare il lavoro.
È facile capire come questa costruzione di una sfera pubblica europea, basata sul carattere universale e gratuito di tutti i diritti, di libertà e sociali, stabiliti nella stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, rappresento il progetto politico la cui attuazione varrebbe non solo a restituire credibilità al processo di integrazione, ma anche a minare alle radici le ragioni dei tanti populismi antipolitici e anti-europei.
Pensiamo solo, per esempio, alla riconquista di popolarità e credibilità che proverrebbe all’Unione anche da una sola misura sociale, come l’erogazione da parte degli organi comunitari di un reddito minimo di cittadinanza europea, oltre tutto in attuazione dell’art. 34, 3° comma della Carta di Nizza secondo cui “l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti”. Ne risulterebbe immediatamente cambiata la percezione dell’Europa, che finalmente mostrerebbe alle sue popolazioni, e in particolare ai ceti più poveri, non più solo il volto austero ed ostile dei mercati e dei sacrifici, ma anche il volto benefico dei diritti e delle garanzie.
Certamente tutto questo ha oggi il sapore di un’utopia. Ma non confondiamo, se non vogliamo occultare le responsabilità della politica, tra conservazione e realismo, squalificando come impossibile o irrealistico o utopistico ciò che è solo improbabile perché contrasta con gli interessi e con la volontà dei poteri economici e finanziari o, più semplicemente, con ciò che di fatto accade. Sappiamo al contrario che in quanto è accaduto e in quanto accadrà non c’è nulla di necessario o di naturale, ma solo il risultato delle misure dissennate con le quali la crisi è stata dapprima cagionata e poi aggravata, e che perciò un’altra Europa è possibile, se solo la politica sarà capace di rifondarsi all’altezza dei suoi problemi e dei suoi interessi comuni.
Una cosa è comunque certa: oggi o si va avanti nel processo costituente europeo avviato 60 anni fa e si pone all’ordine del giorno una rifondazione costituzionale dell’Unione, oppure si va indietro, ma indietro in modo brutale e radicale; o cresce l’integrazione costituzionale e l’unificazione politica dell’Europa sulla base dell’uguaglianza nei diritti e di un comune interesse pubblico dell’Unione, oppure si prefigura un crollo delle nostre economie e delle nostre democrazie, a vantaggio dei populismi che in tutta Europa stanno crescendo minacciosamente.