Dalle unioni civili al reddito minimo garantito per una nuova stagione di diritti civili e sociali.
I tempi dei diritti sono sempre difficili. Lo conferma la lunga e travagliata vicenda delle unioni civili, la cui conclusione è annunciata dal Presidente del Consiglio per il 2016. Le ragioni delle difficoltà sono molte. I diritti incidono sull’ordine costituito. Redistribuiscono poteri, e per ciò si cerca di neutralizzare questa loro intima capacità di cambiamento contrapponendo loro doveri sempre più aggressivi, imponendo limiti costrittivi, subordinandoli a convenienze politiche talora meschine e così pianificando scambi tra sacrificio di diritti sociali e mance di diritti civili. Si è inclini a dimenticare che i diritti sono indivisibili e che le vere stagioni dei diritti sono quelle in cui diritti individuali e diritti sociali procedono insieme. È il modello, non dimentichiamolo, della nostra Costituzione. È quello che è accaduto negli anni ’70, quando il congiungersi del “disgelo costituzionale” e della capacità della politica di cogliere senza timidezze le dinamiche sociali cambiò davvero l’Italia, senza reazioni di rigetto determinate dal fatto che le richieste di diritti hanno sempre la loro origine nello sguardo lungimirante e nella cultura delle minoranze escluse.
Di tutte quelle difficoltà sembra intrisa la maniera in cui si sta affrontando, al Senato, la questione delle unioni civili. Presentata come l’avvio di una nuova stagione di diritti civili, rischia di impigliarsi in compromessi al ribasso, che lasceranno una scia di polemiche e di risentimenti.
Dopo che la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione hanno riconosciuto che le unioni tra persone dello stesso sesso sono una delle “formazioni sociali” di cui parla l’articolo 2 della Costituzione, nella discussione parlamentare è spuntata una lettura restrittiva, e illegittima, di quella norma, definendo le unioni come “formazioni sociali specifiche”. Dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia proprio per la mancanza di una adeguata disciplina delle unioni civili, che non può essere limitata ai soli aspetti patrimoniali, ecco riemergere le pretese di centrare la nuova disciplina proprio sugli aspetti patrimoniali. Si abusa di riferimenti alla “stepchild adoption”, all’adozione dei figli del partner, che dovrebbe essere esclusa o sostituita dall’acrobatica invenzione di un affido “rafforzato”. Viene così resuscitata la discriminazione contro i figli “nati fuori del matrimonio”, eliminata nel 1975 e che ora ritorna evocando impropriamente lo spettro dell’”utero in affitto” e invocando ipocritamente un interesse dei minori che diverrebbero, invece, vittime di un sopruso.
Una legge che dovrebbe produrre eguaglianza rischia di trasformarsi in una disciplina che formalizza, e dunque rende ancor più evidente, una permanente discriminazione delle unioni tra persone dello stesso sesso. Comunque un passo avanti, si dice. Ma con chiusure che porteranno a nuove censure, interne e internazionale, mostrando una volta di più una sorta di allergia italiana a procedere correttamente sulla via del riconoscimento dei diritti delle persone.
La tentazione del compromesso al ribasso, in queste materie, non è nuova. Il Pci cercò di disinnescare le polemiche intorno alla legge sul divorzio proponendo il cosiddetto “divorzio polacco”, limitato ai soli matrimoni civili. Misero espediente, che venne rapidamente liquidato da una politica nel suo insieme capace di scelte nette e da una società reattiva che, nel 1974, votò no nel referendum abrogativo di quella legge. Politica che mostrò altrettanta lungimiranza quando nel 1978, in una materia difficile come l’aborto, venne approvata una buona legge, anch’essa confermata dal voto popolare. I richiami alla deprecata Prima Repubblica non sono graditi, ma proprio per i diritti vengono ancora insegnamenti che dovrebbero essere meditati.
Oggi la politica sembra mancare di coraggio, trasformando in faticosa e costosa concessione quello che non è neppure il riconoscimento di un nuovo diritto, ma la rimozione di un ostacolo che impedisce ad alcune persone di esercitare un diritto di cui tutti gli altri già godono. E questa esclusione è fondata sul loro “orientamento sessuale”, dunque su una causa di discriminazione ritenuta illegittima dall’articolo 21 della Carta europea dei diritti fondamentali, che ha lo stesso valore giuridico d’ogni altro trattato europeo. Un problema di eguaglianza dunque, tanto più evidente dopo che l’articolo 9 della stessa Carta ha eliminato il requisito della diversità di sesso sia per il matrimonio che per ogni altra forma di costituzione di una famiglia.
L’assenza di questa consapevolezza mostra un limite culturale che continua ad affliggere la discussione parlamentare. La Corte europea dei diritti dell’uomo, infatti, non si è limitata a condannare l’Italia per il ritardo nel dare una adeguata disciplina alle coppie di persone dello stesso sesso. Ha ricordato pure che il nostro paese è ormai parte di un sistema giuridico allargato, di cui deve rispettare principi e regole, sì che la stessa libera scelta del Parlamento, la discrezionalità del legislatore risultano limitate. Si sottolinea che ormai la maggioranza dei paesi del Consiglio d’Europa (24 su 47) riconosce nella loro pienezza quelle unioni. E questo non è un semplice dato statistico, ma una indicazione che rende più stringente il “dovere positivo” dell’Italia di intervenire senza inammissibili restrizioni, perché siamo di fronte a diritti dal cui effettivo riconoscimento dipendono l’identità, la dignità sociale, la vita stessa delle persone.
Il paradigma eterosessuale crea ormai incostituzionalità e di questo si deve tener conto quando si contesta l’ammissibilità dell’accesso delle coppie tra persone dello stesso sesso al matrimonio egualitario, di cui oggi non si vuol nemmeno discutere. Ma un ostacolo in questa direzione non può essere trovato nella sentenza del 2010 della Corte costituzionale, di cui oggi è necessaria una rilettura proprio nel contesto europeo che mette al centro l’eguaglianza e sottolinea come le dinamiche sociali, peraltro richiamate dalla stessa Corte, vanno nella direzione di un riconoscimento crescente del matrimonio egualitario, impedendo di riferirsi ad una tradizione “cristallizzata” intorno al matrimonio eterosessuale, ormai contraddetta dalle dinamiche sociali e dalle innovazioni legislative che escludono la possibilità di invocare una natura immutabile del matrimonio. Non è sostenibile, allora, che una legge ordinaria non possa introdurre nell’ordinamento italiano l’accesso paritario al matrimonio, proiettando nel futuro una discriminazione ormai indifendibile anche sul piano strettamente giuridico.
Davanti al Senato è una grande questione di eguaglianza, principio fondamentale che oggi troppo spesso non viene onorato. L’annunciata nuova stagione dei diritti sarà valutata anche da questo primo passo, che tuttavia, anche se andrà nelle giusta direzione, non potrà far dimenticare il permanente sacrificio di diritti sociali. Anzi, proprio l’enfasi posta sul tema dei diritti civili impone una riflessione sulla politica dei diritti dell’attuale governo, tutta fondata su misure settoriali, bonus di varia natura, che mostrano l’accettazione della logica del “fai da te”, dell’individualizzazione degli interventi. La società scompare e con essa una vera politica dei diritti. Molti economisti hanno mostrato che i dieci miliardi destinati agli 80 euro avrebbero potuto essere meglio utilizzati per una politica di investimenti, strutturalmente produttivi di occupazione, e per un primo passo verso il riconoscimento di un reddito di dignità. Chiara Saraceno non si stanca di ricordarci che gli interventi a pioggia non ci danno né una politica della famiglia, né una efficace politica contro la povertà.
Se davvero vogliamo tornare a parlare di diritti, ricordiamoci che sono indivisibili. E, visto che il presidente del Consiglio riscopre un’Europa non riducibile all’economia, vorrà ricordarsi che proprio di questo parla la sua Carta dei diritti fondamentali?
Di tutte quelle difficoltà sembra intrisa la maniera in cui si sta affrontando, al Senato, la questione delle unioni civili. Presentata come l’avvio di una nuova stagione di diritti civili, rischia di impigliarsi in compromessi al ribasso, che lasceranno una scia di polemiche e di risentimenti.
Dopo che la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione hanno riconosciuto che le unioni tra persone dello stesso sesso sono una delle “formazioni sociali” di cui parla l’articolo 2 della Costituzione, nella discussione parlamentare è spuntata una lettura restrittiva, e illegittima, di quella norma, definendo le unioni come “formazioni sociali specifiche”. Dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia proprio per la mancanza di una adeguata disciplina delle unioni civili, che non può essere limitata ai soli aspetti patrimoniali, ecco riemergere le pretese di centrare la nuova disciplina proprio sugli aspetti patrimoniali. Si abusa di riferimenti alla “stepchild adoption”, all’adozione dei figli del partner, che dovrebbe essere esclusa o sostituita dall’acrobatica invenzione di un affido “rafforzato”. Viene così resuscitata la discriminazione contro i figli “nati fuori del matrimonio”, eliminata nel 1975 e che ora ritorna evocando impropriamente lo spettro dell’”utero in affitto” e invocando ipocritamente un interesse dei minori che diverrebbero, invece, vittime di un sopruso.
Una legge che dovrebbe produrre eguaglianza rischia di trasformarsi in una disciplina che formalizza, e dunque rende ancor più evidente, una permanente discriminazione delle unioni tra persone dello stesso sesso. Comunque un passo avanti, si dice. Ma con chiusure che porteranno a nuove censure, interne e internazionale, mostrando una volta di più una sorta di allergia italiana a procedere correttamente sulla via del riconoscimento dei diritti delle persone.
La tentazione del compromesso al ribasso, in queste materie, non è nuova. Il Pci cercò di disinnescare le polemiche intorno alla legge sul divorzio proponendo il cosiddetto “divorzio polacco”, limitato ai soli matrimoni civili. Misero espediente, che venne rapidamente liquidato da una politica nel suo insieme capace di scelte nette e da una società reattiva che, nel 1974, votò no nel referendum abrogativo di quella legge. Politica che mostrò altrettanta lungimiranza quando nel 1978, in una materia difficile come l’aborto, venne approvata una buona legge, anch’essa confermata dal voto popolare. I richiami alla deprecata Prima Repubblica non sono graditi, ma proprio per i diritti vengono ancora insegnamenti che dovrebbero essere meditati.
Oggi la politica sembra mancare di coraggio, trasformando in faticosa e costosa concessione quello che non è neppure il riconoscimento di un nuovo diritto, ma la rimozione di un ostacolo che impedisce ad alcune persone di esercitare un diritto di cui tutti gli altri già godono. E questa esclusione è fondata sul loro “orientamento sessuale”, dunque su una causa di discriminazione ritenuta illegittima dall’articolo 21 della Carta europea dei diritti fondamentali, che ha lo stesso valore giuridico d’ogni altro trattato europeo. Un problema di eguaglianza dunque, tanto più evidente dopo che l’articolo 9 della stessa Carta ha eliminato il requisito della diversità di sesso sia per il matrimonio che per ogni altra forma di costituzione di una famiglia.
L’assenza di questa consapevolezza mostra un limite culturale che continua ad affliggere la discussione parlamentare. La Corte europea dei diritti dell’uomo, infatti, non si è limitata a condannare l’Italia per il ritardo nel dare una adeguata disciplina alle coppie di persone dello stesso sesso. Ha ricordato pure che il nostro paese è ormai parte di un sistema giuridico allargato, di cui deve rispettare principi e regole, sì che la stessa libera scelta del Parlamento, la discrezionalità del legislatore risultano limitate. Si sottolinea che ormai la maggioranza dei paesi del Consiglio d’Europa (24 su 47) riconosce nella loro pienezza quelle unioni. E questo non è un semplice dato statistico, ma una indicazione che rende più stringente il “dovere positivo” dell’Italia di intervenire senza inammissibili restrizioni, perché siamo di fronte a diritti dal cui effettivo riconoscimento dipendono l’identità, la dignità sociale, la vita stessa delle persone.
Il paradigma eterosessuale crea ormai incostituzionalità e di questo si deve tener conto quando si contesta l’ammissibilità dell’accesso delle coppie tra persone dello stesso sesso al matrimonio egualitario, di cui oggi non si vuol nemmeno discutere. Ma un ostacolo in questa direzione non può essere trovato nella sentenza del 2010 della Corte costituzionale, di cui oggi è necessaria una rilettura proprio nel contesto europeo che mette al centro l’eguaglianza e sottolinea come le dinamiche sociali, peraltro richiamate dalla stessa Corte, vanno nella direzione di un riconoscimento crescente del matrimonio egualitario, impedendo di riferirsi ad una tradizione “cristallizzata” intorno al matrimonio eterosessuale, ormai contraddetta dalle dinamiche sociali e dalle innovazioni legislative che escludono la possibilità di invocare una natura immutabile del matrimonio. Non è sostenibile, allora, che una legge ordinaria non possa introdurre nell’ordinamento italiano l’accesso paritario al matrimonio, proiettando nel futuro una discriminazione ormai indifendibile anche sul piano strettamente giuridico.
Davanti al Senato è una grande questione di eguaglianza, principio fondamentale che oggi troppo spesso non viene onorato. L’annunciata nuova stagione dei diritti sarà valutata anche da questo primo passo, che tuttavia, anche se andrà nelle giusta direzione, non potrà far dimenticare il permanente sacrificio di diritti sociali. Anzi, proprio l’enfasi posta sul tema dei diritti civili impone una riflessione sulla politica dei diritti dell’attuale governo, tutta fondata su misure settoriali, bonus di varia natura, che mostrano l’accettazione della logica del “fai da te”, dell’individualizzazione degli interventi. La società scompare e con essa una vera politica dei diritti. Molti economisti hanno mostrato che i dieci miliardi destinati agli 80 euro avrebbero potuto essere meglio utilizzati per una politica di investimenti, strutturalmente produttivi di occupazione, e per un primo passo verso il riconoscimento di un reddito di dignità. Chiara Saraceno non si stanca di ricordarci che gli interventi a pioggia non ci danno né una politica della famiglia, né una efficace politica contro la povertà.
Se davvero vogliamo tornare a parlare di diritti, ricordiamoci che sono indivisibili. E, visto che il presidente del Consiglio riscopre un’Europa non riducibile all’economia, vorrà ricordarsi che proprio di questo parla la sua Carta dei diritti fondamentali?
Articolo di La Repubblica 4.1.16