E’ notizia di questi giorni, attraverso un’ intervista del ministro del lavoro comparsa sule pagine di la Repubblica, l’intenzione da parte del Governo Renzi di introdurre un reddito minimo di 320€ al mese per una platea di un milione di famiglie con l’obiettivo poi di arrivare gradualmente a coprire quei 4 milioni di italiani che si trovano, a detta delle statistiche ufficiali,in condizioni di povertà assoluta.
Tale riforma accompagnerà, nelle intenzioni del ministro, i vari decreti attuativi del Jobs Act e verrà presentata come una sorta di ammortizzatore sociale: la carotina a fronte delle bastonate condotte sul piano della deregolamentazione economica, normativa e giuridica!
Sembra quasi inutile sottolinearlo, ma la misura proposta da Poletti è orientata ad affrontare il problema della povertà assoluta, mentre del variegato mondo precario, come già dimostrato nei mesi precedenti, al governo Renzi non interessa neanche dare le briciole.
L’obiettivo del provvedimento, quindi, sono solo quei casi di marginalità sociale di livello più grave, secondo uno schema ancora terribilmente novecentesco di analisi e percezione del dramma povertà. Ci troviamo di fronte,dunque, ad una misura di ultima istanza. Ne prendiamo atto e proviamo a fare alcune riflessioni nel merito.
Sulle pagine del quotidiano de la Repubblica, Poletti dichiara che “Nel nostro Paese non c’è mai stato un istituto unico nazionale a carattere universale per sostenere le persone in condizione di povertà.Vogliamo dare a tutti la possibilità di vivere dignitosamente.
Partiamo dal fatto che di universale in questo provvedimento c’è poco o niente: i destinatari sono un certo numero di bisognosi, secondo l’ordine di valutazione stabilito dal ministro o chi per lui.
In secondo luogo, di dignitoso c’è ancora meno: su questo occorre ragionare su due punti essenziali.
In primo luogo, tale misura si inquadra in un’ idea di ammortizzazione sociale, o meglio di Welfare in salsa PD, ispirata a una visione coattiva,condizionale e lavorista, che già nella regione Puglia, governata da Michele Emiliano, ha visto una sua prima sperimentazione.Attraverso criteri stringenti basati su un fuorviante legame tra fruizione dei beneficio e obbligo di partecipare a programmi di “reinserimento lavorativo”, questa misura si colloca nel più classico e misero quadro del Workfare o dell’Activation europea: ti do qualche spicciolo se ti segui il corso di formazione che dico io, se accetti il primo lavoro di merda, precario, mal pagato e a bassa qualifica che ti offre lo sportello per l’impiego, o se vai a lavorare gratis per qualche azienda o ente nel corso dei mesi in cui percepisci il sussidio. Più che una misura di welfare si configura come un vero e proprio sussidio di ricatto che potremmo etichettare come un Workfare dei Miserabili!
Per quanto ci riguarda, il concetto di dignità esprime ben altro: il diritto dell’individuo a vivere ed essere protetto da un mercato brutale e fallimentare. Non esiste scambio, condizione o contratto che tenga per il diritto alla vita.
In secondo luogo, in un quadro di riduzione della spesa (ricordiamo che ci troviamo in uno scenario dove vige il totem del Fiscal Compact e del Pareggio di Bilancio) l’entità del sussidio non sono neanche caritatevoli, ma offensivi!Se il reddito di Poletti ha come obiettivo quello di far uscire gli individui più emarginati di questo paese dalla condizione di povertà assoluta, un principio logico, oltre che una logica di policy, richiede che l’entità del sussidio sia al meno pari alla soglia di povertà assoluta. In caso contrario, lo ripetiamo ancora una volta, si tratta di qualche bricioletta e di tanta miseria! Secondo voi 320 euro rispondono a queste caratteristiche?
C’è poco altro da dire.. questo provvedimento realizza un mix incredibile della cultura workfarista europea e nella logica catto-caritatevole italiana.
Obiettivi come la redistribuzione della ricchezza e il rilancio di un nuovo modello di welfare, inclusivo e aggiornato alle nuove forme del lavoro,appaiono ancora come vere e proprie chimere.
La proposta del governo è infinitamente lontana da quella, ad esempio,proposta dei movimenti di lotta campani. Il percorso costruito in questi mesi con la scrittura e la proposta di una legge di iniziativa popolare sul reddito minimo regionale non è di certo la rivoluzione, si muove incastrato tra le stringenti normative nazionali in materia di politica sociale, le ristrette capacità fiscali delle Regioni e i diktat europei sui criteri di condizionalità delle misure di sostegno al reddito.
Con tutte le sue criticità che abbiamo consapevolmente accettato, la proposta messa a punto da tecnici e studiosi nel mese di settembre e la campagna politica per sostenerla, di cui siamo decisi ed attivi protagonisti, prevede per gli abitanti della nostra Regione, disoccupati, precari o sotto pagati,l’erogazione di un “reddito minimo” che conduca tutti gli abitanti oltre i 583 euro mensili, la soglia di povertà relativa in Campania.
Se il ministro vuole ragionare su una misura di ultima istanza contro l’insicurezza e l’esclusione sociale e sul riconoscimento della dignità personale, sarebbe il caso che cominci a guardare quello che si è prodotto dal basso in questo paese.
Nelle nostre prospettive, tuttavia, questo è solo l’inizio di un percorso di concreto per invertire il corso economico, sociale – per alcuni versanti anche culturale – dell’austerity e dei diktat che i poteri forti hanno imposto autoritariamente ai settori più deboli della società!
Il reddito minimo garantito deve essere uno strumento di eguaglianza delle persone e di miglioramento generale della società tutta. L’affermazione di un modello sociale che permetta di sfuggire ai ricatti della precarietà e all’investimento su nuove forme di relazioni e di vita che partano da presupposti di dignità e solidarietà.