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Il Parlamento europeo in favore di un “pilastro europeo dei diritti sociali” a partire dal reddito minimo garantito

di a cura del comitato scientifico del BIn – Italia

Il Parlamento europeo il 19 gennaio 2017 ha approvato una importante, non banale e per certi versi coraggiosa, Risoluzione([1]) su un «pilastro europeo  dei diritti sociali»; si tratta di un Documento che conferma la più recente radicalizzazione delle posizioni dell’Organo a mandato universale europeo che nelle ultime Risoluzioni (citate tutte nelle premesse)  ha insistito sugli effetti disgreganti  ed iniqui, non coerenti con i valori e gli obiettivi dei Trattati, delle politiche di austerity imposte nel quadro della governance economica europea, segnatamente per i paesi che aderiscono all’euro. Già nel Dicembre del 2016 il P.E. ha adottato una formidabile Risoluzione per la salvaguardia dello Stato di diritto nell’Unione (in relazione ai casi della Polonia e dell’Ungheria) che dovrebbe condurre ad un  monitoraggio tempestivo di tutti gli Stati ed affidato a gruppi di esperti, anche di rango internazionale, con l’invio, anno per anno, di specifiche Raccomandazioni (una governance dei diritti per una concreta unificazione delle garanzie a livello continentale, così come oggi si fa, con effetti invece spesso disgreganti, per le compatibilità macroeconomiche).

La Risoluzione è molto lunga e complessa e quindi rinviamo ad una lettura completa di questa che è superfluo in questa sede sintetizzare in tutti i suoi aspetti;  si dà   infatti espressione non edulcorata ed aperta delle «crescenti frustrazioni e preoccupazioni di molte persone riguardo alle prospettive di vita incerte, alla disoccupazione, alle disuguaglianza crescenti ed alla mancanza di opportunità, in particolare per i giovani» (considerando  A). Si cerca, così, di aprire varchi per un’Europa sociale un po’ in tutte le direzioni nella volontà di dare finalmente concretezza ed effettività alle disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, maglio conosciuta come “Carta di Nizza” (considerando B) che rappresenta pur sempre un Higher law che riassume le tutele essenziali derivanti dal (migliore) patrimonio costituzionale dei Paesi membri, pur nella consapevolezza pragmatica dell’attuale situazione dell’Unione, delle sue difficoltà e delle sue divisioni ed anche dinanzi alla paralisi delle politiche europee almeno sino alle elezioni in Germania del settembre 2017.

Il Testo, però, ha una sua particolare “politicità” in quanto si inserisce  in un contesto specifico ed in una procedura non conclusa. Dopo l’ultimo Discorso sullo Stato dell’Unione del Presidente della Commissione J.-C. Juncker, che ha promesso la costruzione di un social pillar dell’Unione, la stessa Commissione europea ha lanciato l’8 marzo del 2016 una consultazione ad ampio raggio sul tema che si è conclusa il 31 dicembre del 2016; nella call della consultazione si mantiene un’ambiguità di fondo sul fatto se il futuro social pillar debba consistere in un mero statement dell’attuale catalogo dei diritti sociali che già hanno una regolazione sovranazionale o anche solo in un rafforzamento dei meccanismi di protezione nazionale con la valorizzazione dei meccanismi di coordinamento europeo, essendo più sullo sfondo  l’ipotesi di creare nuovi pezzi del “pilastro” con regole (e tantomeno risorse) dell’Unione. Ora senza attendere che la Commissione faccia il report sui risultati della consultazione e che la Commissione elabori delle proposte specifiche a partire da questa (previste per Aprile), entra in campo il P.E. che, con questa piuttosto dura protesta contro lo stato di miseria (anche strettamente parlando) dell’esistente e con la richiesta molto ferma di interventi  forti  ed energici sui temi sociali, sembra volere metter i piedi nel piatto chiedendo che le future iniziative della C.E. (che ricordiamo è l’attore istituzionale delle politiche europee ed anche  di quelle legislative) non siano vuote ed evanescenti come nel passato. Certamente l’elezione nel frattempo di Tajani a Presidente del P.E. può preoccupare, ma è anche vero che su tale elezione può aver giocato l’incapacità delle forze più innovative e pro-labour nel convergere su un candidato credibile realizzando le opportune alleanze con i Verdi e gli stessi liberali.

In ogni caso vorremmo sottolineare 4 punti della Risoluzione.

  1. Diritti universali per il lavoro.

In primo luogo viene rilanciata l’idea che per le forme di occupazioni precarie o “atipiche” (sembra di capire di lavoro subordinato) che sono in crescita numerica va realizzato e garantito un «nucleo di diritti azionabili, indipendentemente dal tipo di contratto o rapporto di lavoro tra cui parità di trattamento, tutela della salute e sicurezza, protezione delle maternità, disposizioni  in materia di orario e periodi di riposo, accesso alla formazione, diritti di informazione e consultazione, libertà sindacali etc.» (punto n. 4 delle proposte concrete): sembra di rileggere l’indimenticato “Rapporto Supiot” del 1999.  Il P.E. è però molto coraggioso su questo punto perché invita all’adozione di una “direttiva quadro” e quindi si apre ad una regolazione ulteriore dell’Unione in una materia così spinosa. Si valorizza in questa direzione la recente Raccomandazione OIL n. 202.

  1. Platform economy, attività lavorative e salario minimo

Per quanto riguarda la platform economy il P.E. chiede che si voglia distinguere più chiaramente se coloro che  operano sulle piattaforme digitali siano riconducibili o meno agli schemi del rapporto di lavoro subordinato; in ogni caso chiede si introducano norme di trasparenza a carico delle piattaforme che riguardino le condizioni di lavoro, le condizioni di responsabilità delle stesse, gli obblighi dei prestatori e via dicendo (in modo che anche il pubblico si regoli di conseguenza). Molto forte è l’affermazione per cui anche «gli autentici lavoratori autonomi che operano attraverso le piattaforme online…devono essere protetti mediante la partecipazione a regimi di assicurazione sanitaria e di sicurezza sociale» : anche se su questo punto sembrano gli Stati invitati ad intervenire; che sono in via generale comunque richiesti di fornire a tutte le forme di lavoro autonomo meccanismi adeguati per salvaguardare una certa sicurezza di reddito nelle situazioni di difficoltà (punto n. 22). Netta è l’opzione del P.E. per l’adozione di soglie retributive sotto forme di salari minimi nazionali, oggi impedita in Italia, dall’incomprensibile ed antistorico ostruzionismo della CGIL ( punto n. 6).

  1. Per il reddito minimo garantito.

Ma un ruolo di indubitabile centralità nella Risoluzione lo gioca il Reddito Minimo Garantito (RMG, chiamato in un passaggio anche reddito di base) come strumento di lotta contro  la povertà e l’esclusione sociale ma più generale come strumento di piena e libera partecipazione dell’individuo alla realtà sociale e produttiva cui appartiene. Numerosi sono i passaggi nei quali si insiste in questa misura ma vogliamo riportare il più incisivo (punto n. 15) nel quale il P.E. dubita dell’idoneità di tanti sistemi nazionali  nell’offrire forme credibili di RMG e chiede di intervenire con urgenza:

«mette in evidenza l’importanza di regimi adeguati di reddito minimo per preservare la dignità umana e lottare contro la povertà e l’esclusione sociale, così come il loro ruolo, quale forma di investimento sociale che consente alle persone di partecipare alla società e intraprendere percorsi di formazione e/o la ricerca di un lavoro; invita la Commissione e gli Stati membri a valutare i regimi di reddito minimo nell’Unione europea, anche esaminando se tali regimi consentano alle famiglie di soddisfare le loro esigenze; invita la Commissione e gli Stati membri a valutare su tale base le modalità e gli strumenti per fornire redditi minimi adeguati in tutti gli Stati membri e a esaminare i possibili interventi successivi a sostegno della convergenza sociale nell’Unione, tenendo conto delle condizioni economiche e sociali di ciascun paese e delle pratiche e tradizioni nazionali».

Insomma non c’è possibile convergenza tra “Stati carogna” (Rogue States) come l’Italia per i quali è ammissibile una vita “indegna” e che ha, in pratica, raddoppiato in pochi anni il numero dei suoi poveri assoluti e relativi con quei Paesi che consentono a tutti un’opportunità di scelta e di partecipazione attiva alla realtà “sociale, culturale e democratica” nella quale vivono, per richiamare un passaggio famoso della sentenza del 2 febbraio 2010 del Tribunale costituzionale tedesco sul RMG.

  1. Tutela della dignità umana, senza condizioni.

Infine vorremmo sottolineare un punto che ci sembra importante: nei vari passaggi sul reddito minimo e sul contrasto dell’esclusione sociale il P.E. non fa mai riferimento ai condizionamenti alle prestazioni che oggi si vanno estendendo nei sistemi nazionali: si chiede reddito per chi ne ha concretamente  bisogno per  la garanzia di un “minimo vitale” (nella correlazione con il diritto primario ad un’esistenza libera e dignitosa di cui all’art. 34 della Carta di Nizza) non come strumento di reinserimento coercitivo al lavoro, di addomesticamento disciplinare a un’attività scelta in via amministrativa per “curare l’individuo colpevole” del suo stato di necessità. Questa dimensione ci sembra esplicitamente rifiutata: si richiamano certamente le politiche attive ma sembrano in realtà quelle di un glorioso passato, nel quale erano egemoni come modello  i paesi scandinavi, in cui gli organi pubblici si sentivano in dovere di offrire uffici e servizi  gratuiti di orientamento e strumenti di formazione permanente e continua ma nella libertà del soggetto che doveva programmaticamente essere messo in condizione di perseguire il proprio percorso di autovalorizzazione individuale ed anche produttivo in senso lato. Ci sembra che non sia sfuggito al P.E. il dibattito e le sperimentazioni in corso in Europa di forme di reddito di base, non condizionate ad un’assurda ed arbitraria forzatura a ricercare ossessivamente un lavoro (che in realtà – almeno nelle forme tradizionali – è sempre più scarso e ondivago, divenendo sempre più lavoro servile e gratuito).

Certamente, come si diceva, il vero salto in avanti sarebbe rendere molte di queste proposte norme  europee e che l’Unione potesse con proprie risorse (è stato reso noto proprio in questi giorni un interessante Report sulle risorse proprie dell’Unione oltre l’attuale 1% che non consente alcun significativo intervento nella realtà sociale, che comunque non presuppongono una riforma preliminare dei Trattati); solo così potrà nascere una vera solidarietà paneuropea superando l’attuale schema per cui l’Unione si limita a stigmatizzare ed ad imporre obblighi e regole agli Stati ma (salvo i fondi di coesione veramente troppo esili), ma non interviene mai direttamente con un sostegno economico.

Tuttavia se anche le proposte diventassero tante direttive e tanti regolamenti l’Europa dell’austerità e dei sacrifici verrebbe ad essere di molto ridimensionata posto che alcune spese sociali (ad es. in reddito minimo) costituirebbero un obbligo sovranazionale la cui violazione non dovrebbe essere più richiesta.  In ogni caso la prospettiva individuata da  questo coraggioso Testo non avrà nessun successo, neppure parziale, se l’opinione pubblica democratica non la sosterrà e non l’appoggerà e rimarrà ferma (almeno in alcuni settori) nel cantare un’”altra Europa”, così “altra” dal finire per essere molto simile a quella  orrenda, ed oggi sfigurata dal nazionalismo e dalla xenofobia, degli Stati nazionali.

[1]  [1] http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//NONSGML+TA+P8-TA-2017-0010+0+DOC+PDF+V0//IT

 

a cura del comitato scientifico del Basic Income Network – Italia: Giuseppe Allegri, Giuseppe Bronzini, Andrea Fumagalli, Sandro Gobetti, Cristina Morini, Luca Santini, Rachele Serino.

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