Qualsiasi tecnologia sufficientemente avanzata basta per generare una rappresentazione del futuro simile alla magia. Ogni like su Fa cebook, ogni acquisto su Amazon, ogni ricerca su Google sembrano vendere un sogno per cui droni, servizi online e auto-che-si-guidano-da- sole, possono creare macchine che soddisfano i desideri degli umani. Viene fatto credere che nel capitalismo delle piattaforme non ci sia spazio per il lavoro e che il futuro sia il frutto dell’automazione governata da algoritmi intelligenti. Gli algoritmi possiedono una potenza originale che dipende dall’uso che ne fanno i proprietari e i loro utenti. Preso in sé l’algoritmo è muto, vive nell’interazione tra umano e macchina.
La lunga storia dell’automazione
L’idea dell’automazione ha una lunga storia. Risale al controllo delle acque del terzo secolo avanti cristo, ha trovato nella rivoluzione industriale una prima applicazione con l’invenzione del mulino e il motore a vapore, il telaio, il termostato, fino ai trasmettitori pneumatici per il controllo del processo industriale1. L’automazione aumenta la produttività e permette il controllo dei processi produttivi. La creazione del motore a vapore generò una crisi del controllo prodotta dall’incompatibilità tra il flusso della produzione e la capacità di contenerlo. L’automazione permise di consolidare il controllo sui tempi di produzione, trasformando a sua volta la natura stessa del lavoro operaio che da assemblatore dei pezzi diventò un controllore del processo. Le innovazioni furono trasferite dalla produzione alla distribuzione e il consumo. L’idea che l’automazione potesse sostituire integralmente la forza lavoro è nata solo dopo la Seconda guerra mondiale con la nascita dei moderni computer. È stata applicata al lavoro manuale e intellettuale, al trattamento dei dati e all’organizzazione dell’impresa ed è diventata l’obiettivo dei progetti sull’Intelligenza artificiale che hanno cercato di imitare le forme più astratte di pensiero umano nella risoluzione dei problemi matematici, teoremi di geometria e il gioco degli scacchi. Si è pensato che gli ostacoli incontrati da queste sperimentazioni potessero essere aggirati dalla simbiosi tra l’uomo e il computer capace di aumentare l’intelligenza umana2. Le macchine sono state considerate uno strumento capace di accompagnare il cervello umano, ma non ancora di sostituirlo, in tutte le aree dell’attività professionale3. L’emersione delle tecnologie computazionali e del Web 2.0 ha oscurato questo approccio alla divisione del lavoro tra forza lavoro e macchine, affermando la tesi secondo la quale la forza lavoro è un’infrastruttura computazionale. Le macchine non erano più intese come il supporto dell’intelligenza umana, era la forza lavoro a diventare un robot. La potenza di calcolo e di automazione garantita dagli algoritmi ha reso più verosimile la profezia secondo la quale i computer sono capaci di realizzare ogni mansione cognitiva che una persona può realizzare4. Nelle piattaforme digitali che organizzano il mercato delle micro-prestazioni online la presenza dell’uomo è diventata invisibile, così come lo è diventato il loro lavoro concreto. Si ritiene che il lavoro ormai lo facciano i robot, ma in realtà sono gli umani a svolgere mansioni umili e ripetitive. Il caso dei Turchi Meccanici di Amazon è considerato paradigmatico della scomparsa dell’uomo in un sistema algoritmico con il pilota automatico5. In realtà tale scomparsa è un’alienazione della forza lavoro talmente radicale da far impallidire il sistema inventato dall’ingegnere Frederick W. Taylor. Oggi le sue idee sono applicate nella manifattura, nella logistica e nelle piattaforme digitali. La scatola nera del sistema è l’informatizzazione delle procedure e delle mansioni governate dagli algoritmi che sono l’oggetto di una produzione e producono impieghi a basso o a bassissimo reddito nei settori della sorveglianza, certificazione, allineamento e registrazione.
La società dell’algoritmo
Il problema del taylorismo di prima generazione è stato quello di stabilire il merito del lavoratore-macchina e la qualità del suo lavoro. Sul controllo del processo di produzione e sulla misurazione del salario necessario per retribuire l’operato degli umani alla catena di montaggio si è giocato anche una buona parte delle lotte operaie del secolo scorso. Nel taylorismo di nuova generazione gli algoritmi realizzano una raccolta dati sul rendimento degli umani, in una nuova visione dell’organizzazione industriale delle mansioni. Attraverso un’applicazione la funzione del comando e della sua centralizzazione viene salvaguardata – e, anzi, moltiplicata – ma in compenso si ritiene di raggiungere un rendimento superiore rispetto all’organizzazione gestita dai manager che risente delle idiosincrasie personali come delle rivendicazioni dei dipendenti. L’algoritmo lavora sulla disponibilità volontaria dei soggetti, non sull’obbligo e sulla coazione che hanno generato il grande internamento nelle fabbriche. Da quando la fabbrica si è allargata alla vita, i soggetti si consegnano liberamente agli algoritmi poiché in essi intravedono la possibilità di un’oggettività e imparzialità che manca nei rapporti di lavoro subordinati o autonomi. A questa prospettiva è affidato il compito di determinare l’equità di una paga e la gestione delle contraddizioni che si generano in un rapporto di lavoro. Su questa base si arriva a prevedere la scomparsa dello stesso lavoro quando in tutta evidenza il lavoro esiste, mentre la forza lavoro è pagata sempre meno.
Ritorna la grande paura dell’automazione degli anni Cinquanta del XX secolo. Tra gli studiosi della tecnologia e scrittori di fantascienza allora si diffuse la convinzione per cui le fabbriche non avrebbero più avuto bisogno di lavoratori. Una suggestione che dura ancora nelle rabdomantiche narrazioni sull’automazione. Si affronta il problema della forza lavoro come un elemento interno alla trasformazione del modo di produzione. La forza lavoro è un’appendice della trasformazione dei mestieri o della loro cancellazione, del tasso di sostituzione tra attività umane e prestazioni automatiche. Si dà per scontato che esista in natura, sia un bene deperibile, e che la sua proprietà sia immediatamente a disposizione di chi l’acquista. Viene rimosso il fatto che la forza lavoro è una facoltà a disposizione dell’uso di chi la riconosce come propria e che il lavoro che produce deve essere riconosciuto e pagato6.
L’assorbimento della forza lavoro nell’algoritmo cancella il divenire non ancora conosciuto. I suoi calcoli lo sostituiscono in un simulacro dove gli uomini e le donne simulano un’esistenza, non affermano lo sforzo di aumentare la potenza di agire o provare passioni gioiose7. Si ritiene che in un mercato dove trionfa l’individualizza zione del lavoro e dei servizi il soddisfacimento dei bisogni dipenda dalla potenza del calcolo, non dalla potenza della vita. Il calcolo è una previsione del futuro, apparentemente neutrale e trasparente, che viene applicato attraverso il benchmarking o il management per obiettivi che dovrebbero assicurare alla vita un equilibrio e l’oggettività8. Si ritiene che l’opera di supplenza operata dall’algoritmo garantisca la terzietà della valutazione e per questo sia un’alternativa agli impacci della rappresentanza politica. Senza contare che l’applicazione degli algoritmi alla vita del corpo, e della mente, costituisce uno strumento di tutela per la salute del cittadino.
L’automazione non implica la scomparsa dell’individuo, ma una reinvenzione della sua soggettività. Rispetto al problema della forza lavoro, questa soggettività è il risultato di un doppio trascendentale che non coincide con il lavoratore inteso come produttore e consumatore di merci. Questo doppio è un ipersoggetto separato dall’individuazione ed è vincolato a una vita senza singolarità. La vita è proiettata in una nuova realtà, innanzitutto discorsiva, dove l’individuo si riconosce in un alter-ego che non ha rapporti con la sua condizione materiale, economica o etica. La realizzazione di sé dipende dal riconoscimento in un’astrazione, l’unico modo che può unirlo agli altri. In pericolo non è l’individuo, ma la possibilità di esprimere la sua potenza, a cominciare da sé, comprendendo come usarla insieme agli altri. Nell’iper-soggettivazione l’unico discorso emancipatore resta quello della governamentalità algoritmica9. L’algoritmo non è una privazione del reale, ma il suo raddoppiamento in un mondo senza soggetti e dove i soggetti dipendono dalla sua applicazione. Il suo modo di governare gli uomini regola un campo delle azioni e dei pensieri possibili degli individui che non dipende più solo dallo Stato o dal Capitale, ma dagli stessi individui. Questi ultimi partecipano alla definizione delle tecnologie della valutazione, certificazione, condivisione e della tracciabilità a cui affidano la speranza di emanciparsi dai vincoli, dalla miseria, dall’alienazione, distinguendosi nei campi dove si forma un soggetto (l’istruzione), si riproduce (il mercato del lavoro) o viene rappresentato (la politica). L’obiettivo della società dei controlli, della sorveglianza10, è escludere l’esistenza del divenire e accettare solo i progetti concepiti a misura del doppio. Il doppio opera indipendentemente dalle condizioni materiali e, anzi, è il principio del loro governo. Il doppio non si riferisce al soggetto di diritto, ma a un soggetto dei dati da cui dipende l’individuazione della forza lavoro. L’autorità si instaura attraverso automatismi e non attraverso le condotte che seguono traiettorie imprevedibili. Gli individui diventano “dividui”, le masse diventano “banche dati”11. La creazione della soggettività è completa: la governamentalità algoritmica struttura il campo di azione possibile degli individui in maniera precosciente e determina il modo in cui il singolo concepisce la facoltà di usare la propria vita12. La governamentalità algoritmica non cancella la realtà, pretende di determinarla in anticipo attraverso un governo trasparente e democratico che coinvolge gli stessi individui. Il singolo non ambisce più a criticare la propria condizione subordinata alla volontà altrui, ma aspira a un governo che non è fatto dagli uomini, ma dalle macchine che eliminano il loro arbitrio e assicurano una neutralità. Si afferma così un discorso che avvelena le basi dell’emancipazione e cancella le nozioni di critica e di etica, i principali strumenti per creare una soggettività differente in un rapporto di potere.
Ancora al lavoro, sempre
Non è tuttavia possibile rimuovere l’esistenza di milioni di persone che lavorano. In un’economia altamente automatizzata si è affermata la tendenza a creare giganteschi cluster della logistica. Queste concentrazioni di ferrovie, tir, trasporti e magazzini costituiscono reti infrastrutturali e elettroniche che compongono le catene di fornitura [supply chain]13. L’impresa è stata inglobata nelle catene globali del valore governate attraverso l’uso intensivo di tecnologie informatiche e modelli matematici di software specializzati. Questi processi influiscono sia sul controllo dei prodotti delle aziende sia sull’innovazione che ha perso il lato romantico agganciato alla figura dell’imprenditore “creativo”, acquisendo invece il ruolo di funzione di una produzione che non è limitata alla creazione di un prodotto o alla sua vendita. L’automazione interessa il trasporto e la distribuzione dei prodotti – l’hardware e non solo il software – al punto che uno dei grandi poli della produzione capitalistica come gli Stati Uniti si sono trasformati da produttori di merci in creatori di logistica e movimentazione di merci14. Si è così scoperto che il nuovo modo di produzione ha bisogno di milioni di turchi meccanici. Negli Stati Uniti esistono almeno sessanta clusters logistici, tre dei quali occupano almeno 100 mila persone ciascuno: il porto di New York e del New Jersey, quello di Los Angeles e Long Beach e Chicago15. Siamo stati abituati all’idea che la concentrazione di masse di corpi al lavoro riguardasse un tempo antico: il lavoro operaio nelle grandi fabbriche. La realtà è diversa: come si può verificare nei poli della logistica in Emilia Romagna, Veneto o Lombardia. Le grandi compagnie non rinunciano a concentrare le masse negli stessi luoghi e a gestirle attraverso le reti flessibili degli appalti e dei subappalti. L’automazione non è data semplicemente dalle macchine che svolgono il lavoro degli uomini, ma da un’organizzazione informatizzata che ha bisogno di lavoro vivo in ogni punto di questa rete. Negli Stati Uniti Walmart è una compagnia che gestisce in primo luogo dati. La sua specializzazione è la logistica: spostare merci, venderle nei giganteschi mall. Operazioni realizzabili creando posizioni oligopolistiche sul mercato. Chi lavora è incorporato in un’infrastruttura gestita da programmatori che disegnano algoritmi. Nell’internet delle cose la forza lavoro è ridotta a un feedback cibernetico di dati da cui gli algoritmi estraggono valore, ottimizzano la sua produttività. Il lavoro è reso indistinguibile dagli oggetti prodotti: è un segno creato da uno scambio ad alta frequenza senza soggettività16.
La trasformazione tecnologica convive con grandi masse di lavoratori. La prima è rappresentata come imminente ed esclusiva; la seconda non viene citata, se non quando ci sono licenziamenti, recessioni o fallimenti che spingono i lavoratori ad emergere, in carne ed ossa, con scioperi, blocchi o picchetti. Nelle piattaforme logistiche migliaia di umani sorvegliano le macchine, spostano merci, coordinano le attività computerizzate delle gru, agganciano un algoritmo alle traiettorie di una nave cargo. Il lavoro, in senso astratto e come attività operosa, si trasforma in un’interfaccia della macchina e mantiene una realtà servile. Per l’ufficio federale del lavoro degli Stati Uniti nel prossimo decennio sono attesi milioni di posti di lavoro solo nell’industria dei servizi: cassieri, lavoratori di supermercati, lavoro di cura. Nonostante la perdita del 25% della potenza produttiva, in questo paese esistono dodici milioni di lavoratori solo nel settore manifatturiero.
I bucanieri del Web
Un altro campo dove opera la rimozione della forza lavoro a favore delle macchine è il lavoro digitale e in particolare il giornalismo. È ormai invalsa la convinzione per cui i produttori di notizie false in rete, le fake news, siano programmi che rispondono ai messaggi in automatico (bot) o sono usate per creare malware (botnet). La realtà è completamente diversa: sono i free- lance e gli operai delle fabbriche del click in tutto il mondo che, pur di guadagnare un reddito che altrove non c’è, inventano “bufale” utili a raccogliere pubblicità e introiti dalle pubblicità online. I bucanieri del Web sono diventati strumenti e attori consapevoli del discorso mainstream. Il caso più clamoroso è stato quello dei siti macedoni, georgiani, statunitensi o canadesi a sostegno della campagna elettorale che ha portato alla Casa Bianca Donald Trump nel 201717. Tacere sull’esistenza di queste persone, attribuendo la loro produzione alle macchine, non significa solo confermare la logica della governamentalità algoritmica, ma anche trascurare la realtà della nuova economia digitale: l’automazione è accompagnata dalla disintegrazione del salario, mentre la ricerca di un reddito prende strade impensabili, approfittando degli strumenti che offre la politica post-democratica.
La cancellazione della forza lavoro è un momento di una battaglia storica sulla definizione del concetto di “lavoratore” e sul senso del suo lavoro. Nell’economia digitale questa controversia può essere considerata come parte di una nuova lotta di classe. È il caso della sentenza di primo grado emessa a fine 2016 da un tribunale del lavoro inglese che obbliga Uber ad assumere 40 mila autisti britannici in quanto workers, cioè dipendenti privi del diritto a non essere licenziati. I giudici hanno accusato il gigante americano di ricorrere a “finzioni, linguaggio contorto e a una terminologia nuova di zecca” per occultare la natura subordinata del lavoro prestato dai suoi autisti. Per i giudici il lavoro non è un hobby e non si trova sugli alberi18.
Reddito per tutti. Ma come?
I robot potranno anche “rubare” posti di lavoro, ma il lavoro, in senso astratto e come attività operosa, non sparirà. Dietro i robot ci sono intelligenze umane; dietro i rating delle piattaforme online ci sono interazioni umane; la sharing economy sfrutta auto, case e saperi che gli uomini hanno acquisito indebitandosi, lavorando, facendo un mutuo. La distinzione da fare è tra posti di lavoro (e contratti di lavoro) e lavoro come facoltà e produzione. Non farla significa credere alle robinsonate di cui parlava Marx: il lavoro – come le macchine – non si trovano sugli alberi, sono i prodotti di processi e di una forza-lavoro profondamente cambiata.
Ciò che sparisce è il valore attribuito a un lavoro specifico, quello salariato. Oggi non esiste una misura – né una contrattazione – per determinare l’equità di una paga nel lavoro immateriale che non sia la contrattazione personale. Resta forte la suggestione di robot-camion che si guidano da soli sulle highways americane come l’autocisterna assassina di Duel. L’impatto dell’automazione nella logistica su gomma porterà alla disoccupazione 3,5 milioni di persone, ricorda Staglianò. Così come sta accadendo in quella marittima, sui treni o nei trasporti aerei.
Previsioni suggestive, ma da verificare. Ammettiamo che scompaia un nucleo importante di posti di lavoro specializzati. Ciò non toglie che saranno necessarie altre tipologie di lavori nell’indotto e nei servizi prodotti dall’automazione. Saranno pochi, pagati peggio e senza tutele, ma esisteranno. Si continuerà a produrre una moltitudine di posti di lavoro inutili: quelli che controllano, verificano e certificano le azioni delle persone, la correttezza o la legalità della loro morale e della loro produttività, l’esecuzione delle mansioni professionali o sociali. I lavori necessari (come l’infermiere) o quelli intellettuali (l’ingegnere, il traduttore, il programmatore di algoritmi, l’insegnante) saranno sottoposti a questa società del controllo chiamata “meritocrazia”. Saranno sempre di meno, e pagati sempre peggio. La penosa fine dell’università italiana, tra crolli di immatricolazioni e tagli ai docenti e ricercatori precari, ne è l’anticipazione.
Sembriamo destinati a vivere in un’epoca antecedente allo stato liberale, prima del 1848, in uno scenario da Minority Report. Nel film la psicopolizia ha il compito di prevenire i crimini anticipati da umanoidi che percepiscono il futuro, immersi in un liquido amniotico. È lo stesso futuro immaginato dalla nuova economia: la valutazione permanente effettuata da una popolazione di certificatori sulla base di stregonesche anticipazioni della prossima catastrofe. Queste proiezioni mescolano un dato strutturale economico con una diffusa cultura apocalittica che rende la fantascienza più reale della vita sociale. Il ruolo accresciuto della tecnologia nel lavoro è decisivo. Viviamo in una cultura che attribuisce un ruolo preponderante alle macchine e non al lavoro in sé, o all’intelligenza della ricerca necessaria per produrre prestazioni avanzatissime.
In realtà, il lavoro nella “quarta rivoluzione industriale” sarà servile e povero, non avrà la dignità di quello salariato, né l’identità del lavoro autonomo. Lo chiamano già oggi lavoro folla. Il Crowd-work: mansioni inutili, lavoretti non pagati, retribuiti una miseria. Svolti online, o nella vita reale, per un reddito inesistente o meramente integrativo19. “Soprattutto nelle professioni intellettuali venire pagati poco o niente non è più un tabù. Il sottotesto sembra essere preso di peso dai teorici dell’economia della celebrità: non siete pagati in denaro, ma fate girare il nome e prima o poi (se ci arrivate vivi) ne mungerete ritorni economici”20.
Non è andata così: la fama legata alla visibilità è pari solo alla fame prodotta da impieghi non retribuiti. La gente se ne è accorta, ma continua ad accettare: è sempre meglio di niente. Chi vede nel lavoro gratis un’opportunità – per fare curriculum e avere una “paghetta” anche a cinquant’anni – oggi è solo chi comanda. Due esempi italiani: Giuseppe Sala, candidato a sindaco a Milano per il Pd, è divenuto celebre per avere sostenuto i 18.500 “volontari” dell’Expo che hanno lavorato gratis grazie a un accordo con Cgil, Cisl e Uil21. E l’ex ministro dell’Interno Angelino Alfano (Nuovo Centro Destra) che ha difeso un bando per incarico da ufficio stampa “a titolo assolutamente gratuito”22: “Diamo l’opportunità di fare un’esperienza”23.
Il gratis è esondato dalle timeline e si è impadronito della vita civile. È diventato uno strumento essenziale per l’ideologia più vecchia che c’è: non pagare il lavoro. Prospettive compatibili con la verosimile tendenza del capitalismo contemporaneo per il quale il lavoro è un incidente, la regola è il reddito zero.
Per il reddito di base
“Loro dicono che è amicizia. Noi diciamo che è lavoro non pagato. Per ogni mi piace, chat, tag o poke la nostra soggettività di trasforma in un profitto. Loro lo chiamano condivisione. Noi lo chiamiamo furto. Siamo stati legati ai loro termini di servizio anche troppo a lungo: ora è il momento dei nostri termini” sostiene la documentarista e curatrice newyorkese Laurel Prak24. La sua campagna Wages for Facebook è stata ispirata al salario per le casalinghe sostenuto dalle femministe italiane negli anni Settanta.
Se Zuckerberg pagasse il lavoro che permette alla sua piattaforma di realizzare profitti colossali, guadagnerebbe 0,30 dollari. A quadrimestre. Il guru farebbe la stessa esperienza degli utenti che lavorano gratis per lui. Ho l’impressione che non accetterà mai l’esperimento. In questo scenario è ragionevole parlare di reddito di base. Il reddito viene accettato a condizione che non siano le imprese a pagarlo, ma lo Stato. L’idea di rivedere, anche in termini radicali, il sistema degli ammortizzatori sociali nel senso di un reddito di base per tutti è discussa. A condizione che non si riveda il sistema della tassazione in senso progressivo e quella sui capitali. Per fortuna esistono altre applicazioni del reddito di base. C’è chi lo intende come strumento della privatizzazione del Welfare; chi lo vincola alla partecipazione alla polis (Antony Atkinson); lo intende come allocazione universale ed europea di risorse dirette o indirette per evitare i ricatti del lavoro povero (Philippe Van Parijs) o come una misura compatibile con una riforma in senso universalistica del welfare, della previdenza, del fisco o dei servizi pubblici.
Che il reddito di base possa essere l’esito dell’automazione del lavoro non è scontato. Non esiste un politico al governo disposto ad accettare una simile prospettiva. Renzi, ad esempio, ha sostenuto che il “reddito di cittadinanza” [in realtà, parlava del “reddito minimo”, ndr.] è “incostituzionale”25 nella Repubblica “fondata sul Lavoro”, cioè sui voucher e i contratti stabilmente precari del Jobs Act. L’Italia resterà l’unico paese europeo a non avere nemmeno un reddito minimo. È prevedibile che i politici faranno a meno del reddito di base e celebreranno il peggio della trasformazione in atto: l’allungamento dei tempi della disoccupazione, carriere lavorative intermittenti che portano a “buchi” contributivi, privatizzazione dei servizi e del Welfare – per chi se lo può permettere. Nessuno reagirà all’altezza della sfida posta dall’automazione, dall’aumento della produttività in meno ore di lavoro, dall’abbondanza dell’informazione e delle connessioni che non sono beni che si trovano sugli alberi, ma il prodotto di un lavoro relazionale, linguistico, macchinico.
In tutto questo parlare di lavoro che cambia, una cosa è certa: la maledizione del lavoro salariato e la sua mancanza. Lavoreremo inutilmente tutta la vita, inseguendo un modello di lavoro in crisi, senza un reddito dignitoso, e nemmeno una pensione. Questa è la realtà, altro che innovazione.
Il futuro non è un brand
Il futuro è confuso con l’avvenire del marketing delle aziende nella sharing economy. La tecnologia è presentata come un fenomeno di costume, legato di solito alla psicologia degli individui. Quasi mai come un fenomeno politico che stravolge gli assetti politici e impone un nuovo rapporto tra i cittadini, lo Stato e il mercato. L’innovazione è quella delle macchine disincarnate, mai dell’organizzazione materiale dei poteri nella società. È fatta da benefattori, che benefattori non sono. È il commons washing del capitalismo, cioè l’illusione che il capitalismo digitale lavori per il “bene comune”.
Prima o poi qualcuno dovrà opporsi a questa nuova élite che comunica sazietà e l’idea, vecchia come Pangloss, che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Il reddito di base è una spia, non certo la soluzione. È un argomento concretissimo: prendiamo i soldi dove ci sono. E, visto che ce ne sono tantissimi, cerchiamo di prenderne altrettanti.
Il reddito di base è uno strumento utile per drenare risorse dalla bolla finanziaria in cui vive la nuova economia. Per applicarlo serve una cultura politica capace di ripensare la democrazia, lo Stato e, nel nostro caso, l’Unione Europea. Sempre che ce ne sia una alla fine della crisi. Al momento l’unica forma di reddito esistente è quello di una banca centrale, un sovrano senza Stato: la Bce. Gli 80 miliardi di euro al mese stampati da Draghi servono per acquistare titoli di stato e le azioni delle aziende quotate in borsa. I soldi distribuiti dall’elicottero [Helicopter money] servono a finanziare le imprese e gli stati, non le persone.
È il paradosso dell’economia della condivisione: tutto è “share” a condizione che si condivida ciò che è nostro, mai quello degli altri. E se esiste qualcosa di “comune” è sempre di pochi, e non di coloro che permettono a questa economia di funzionare. L’unico modo per imporre l’idea che il lavoro è una delle espressioni della vita, non del modo di produzione, è la politica. I soldi ci sono, ci vuole una visione. E la forza. Temo che aspetteremo a lungo. Non sarà inutile, l’attesa.
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Tratto da Quaderni per il Reddito n°7 Reddito garantito e innovazione tecnologica Marzo 2017