E’ pensabile parlare di reddito di base senza ripensare la giustizia sociale nel suo complesso? Il reddito di base pensato da un posizionamento di genere è solo monetizzazione dell’esperienza nella società della prestazione in cui viviamo o è anche un modo per rilanciare una politica del desiderio per tutte e tutti? Per rispondere a queste domande mi avvarrò dell’approfondimento di alcune riflessioni rintracciabili nel testo-manifesto scritto con Federica Giardini nel 2015: La riproduzione come paradigma. Per un’economia politica femminista, rintracciabile on line. In questo testo abbiamo individuato come dirimente il bisogno di ripensare la teoria del valore e la giustizia sociale oggi, a partire da un posizionamento femminista. Qui proporrò alcuni elementi di riflessione concernenti il secondo aspetto accennato, alla luce di alcune ricerche che vado conducendo sull’argomento da alcuni anni. Tuttavia prima di intervenire direttamente sul dibattito relativo alla giustizia sociale nel contesto femminista vorrei dare alcune indicazioni preliminari. La prima è che, secondo me, non possiamo scindere i dispositivi su cui si organizza il capitalismo contemporaneo dal portato antropologico e simbolico che ne consegue. Intendo dire che la forma del capitalismo contemporaneo -per convenzione possiamo chiamarla “neoliberismo”- forgia prepotentemente le forme di vita, persino nella loro costituzione psichica, come già sostenuto da Dardot e Laval, andando a generare modelli di individualismo competitivo basati sulla performatività e sulla prestazione. In altre parole agisce anche e soprattutto all’interno della costituzione del soggetto, lo produce e lo sfrutta al contempo, non è solo una teoria economica a cui contrapporne un’altra. L’economia politica, che noi oggi pensiamo essere prevalentemente basata sul paradigma della riproduzione sociale, producendo plusvalore direttamente dalle differenze di genere, razza, classe e orientamento sessuale, nelle loro derive identitarie, non è un’astrazione teorica, ma una pratica incarnata che include le differenze per eliminarle nel loro essere costitutivamente eccedenti. Nel presente, in altre parole, il sistema economico determina tutti gli altri sistemi e non genera più alcuna cultura del limite. La seconda indicazione concerne ciò che intendiamo per giustizia sociale. Nel femminismo della differenza italiano, ma anche nelle teorie della giustizia di ordine socio-giuridico, il bisogno ed il desiderio di giustizia può non coincidere affatto né con la legge, né con il diritto. Antigone docet. Così come la stessa giustizia sociale può essere letta e ripensata al di là della dialettica riformismo/rivoluzione. Per me, per noi, ripensare la giustizia sociale oggi e quel che chiamo reddito di desiderio significa delineare una nuova misura del mondo e un’affermazione della vita, in tutte le sue nuances: materiali, simboliche, psichiche, emotive.
Prima di sviluppare e sciogliere tutti questi nodi e prima di proporre la mia tesi su come immaginare la giustizia sociale nell’economia politica contemporanea e nell’antropologia neoliberale che ne deriva è indispensabile, tuttavia, ricostruire molto sinteticamente il dibattito sul tema che ha attraversato e attraversa il femminismo americano e italiano, almeno dagli anni ’90 in poi.
Nel 1990 usciva negli Stati Uniti il famoso testo di Iris Marion Young, Justice and the politics of difference. L’autrice, nota esponente della teoria critica, sosteneva la tesi secondo cui le teorie sulla giustizia formale e sostanziale, all’interno del capitalismo, non potevano fare riferimento solo al paradigma distributivo e all’eguaglianza, salvo cancellare il portato di dominio e oppressione esercitato dal potere e dal capitale sulle differenze di genere, razza, classe, orientamento sessuale. Secondo lei è impensabile “essere giusti” negando le differenze e la dimensione sociale, sociologica direi, nelle quali sono immesse. Per potersi sentire “riconosciuti” e per poter accedere al desiderio non è sufficiente avere dei diritti sociali su base distributiva, ma occorre tirarsi fuori da ogni dinamica di potere che domina e opprime le differenze stesse. A distanza di qualche anno, nel 1997, un’altra esponente della teoria critica, Nancy Fraser, interveniva contestando questa impostazione in Justice Interruptus. Critical Reflections on the “Post-socialist” condition. Secondo lei la condizione post-socialista favoriva l’idea secondo cui le lotte per il riconoscimento delle differenze dislocavano la funzione originaria della giustizia sociale basata sul paradigma distributivo andando a favorire un approccio “culturalista”. Quest’ultimo, nel dibattito generale e nel femminismo in particolare, avallava la cancellazione dell’economico dalle teorie e dalle pratiche politiche votate alla giustizia sociale. Cosicchè Fraser proponeva di riconnettere il tema del riconoscimento delle differenze al rilancio di una nuova idea di uguaglianza in grado di riconoscere e redistribuire al contempo. Ancora più di recente, nel 2013, la Fraser è tornata sull’argomento in Fortunes of Feminism. From State-Managed Capitalism to Neoliberal Crisis, tradotto da poco anche in italiano. In quest’ultimo testo, oltre a ribadire quanto già affermato precedentemente, teorizza la nozione di “bidimensionalismo di genere” intendendo con ciò la sovrapposizione tra classe (posizionamento economico) e status (posizionamento legato al sesso, alla razza e all’orientamento sessuale) e la nozione di “giustizia di genere”, ovvero la rimozione di tutti gli ostacoli economici, sociali e culturali, per favorire una “parità di partecipazione” e una forma di indipendenza della “voice”. Una giustizia basata sulla redistribuzione economica, sul riconoscimento delle differenze e su una forma di rappresentanza più equilibrata. Questo dibattito, tutto americano, pur trovandomi d’accordo sulla necessità di reintrodurre la critica all’economia politica in ambito femminista, mi torna assai poco su tutto il resto.
Intanto ritengo che l’androcentrismo delle società capitalistiche di cui parla Fraser sia molto cambiato negli ultimi tempi. Personalmente ho sostenuto più volte la tesi secondo cui oggi più che di patriarcato, dovremmo parlare di paternalismo, ovvero di quell’insieme di procedure legate alla governance che tendono ad includere, anziché escludere le differenze, per produrre plusvalore in un quadro più generale di sfruttamento del paradigma della riproduzione sociale. Penso, ad esempio, a tutti quegli indicatori statistici ed economici introdotti nella “gestione delle risorse umane”, e promossi dalla scuola economica di management McKinsey, nonché in Italia dal Sole 24 Ore, ideati per calcolare l’aumento della produzione del PIL o del fatturato delle multinazionali. Ricordo che appena lanciato il “gay index”, inventato dal sociologo Richard Florida, più di 600 multinazionali lo hanno utilizzando convinte che l’assunzione di omosessuali avrebbe aumentato il loro fatturato. Oppure si pensi anche al successo del Diversity Management, alla nozione di “bilinguismo di genere” da sfruttare come “risorsa” nella gestione del capitale e vari altri dispositivi. Queste procedure di “inclusione differenziale” non ci parlano solo di un “culturalismo” professato da Young e criticato da Fraser, ormai del tutto messo a valore dal capitale, bensì di una forma di simbolico e di antropologia neoliberale tendenzialmente votata all’antropofagia e all’eliminazione progressiva di tutte le misure poste in essere dagli altri sistemi (giuridici, sociali ecc.) per arginare il capitalismo o per governarlo. Dunque, direi, che la cosiddetta “giustizia di genere” professata da Fraser, è già all’interno di questo meccanismo. Infine, il grande equivoco di questo dibattito di matrice statunitense consiste, a mio avviso, nel confondere la voice della differenza con le teorie sul riconoscimento. E quindi, direte? Su quali basi pensare il reddito di base? Nel 1987 un gruppo di femministe italiane della differenza pubblicava un testo importantissimo, Non credere di avere dei diritti, nel quale a proposito della giustizia e del diritto si sostenevano alcune tesi: il diritto è pensabile solo come traducibilità e fonte dell’esistenza sociale; la giustizia può darsi tranquillamente al di là della legge e del diritto attraverso la formula del giudizio politico sulle ingiustizie; fare giustizia significa praticare, ognuna nel luogo in cui si trova, un’idea di mondo giusto basato prevalentemente sull’esperienza, sulle relazioni e sul desiderio.
E’ altresì evidente che nel capitalismo contemporaneo fondato sulla centralità dello sfruttamento del paradigma riproduttivo e sull’antropologia neoliberale non basta più solo riferirsi alle relazioni. Occorre rimettere al centro l’esperienza materiale delle vite messe a valore, pensare lo stesso femminismo come un pensiero per tutte e tutti, ripensare l’economia politica nonchè stabilire un giudizio politico in grado di riattivare le lotte per la giustizia su base restitutiva. La restituzione, però, non può più avvenire collocandosi come soggetti bisognosi di diritti, secondo il paradigma del riconoscimento e della redistribuzione, o come vittime, ma come resa dei processi di accumulazione capitalistica, come restituzione di ciò che avremmo potuto avere e che invece ci è stato tolto o addirittura messo a valore dal capitale. L’idea di una “giustizia restitutiva”, dunque, dovrebbe collocarsi su un nuovo innesto tra simbolico e materialità dell’esperienza. Cioè sul tenere insieme bisogni e desideri. Di qui quando penso ad uno strumento come il reddito di base non posso dunque fare a meno di collocarlo anche al di là della sua materialità monetizzabile. Se letto attraverso la genealogia del dibattito femminista sulla giustizia sociale il reddito diventa soprattutto uno strumento in grado di rilanciare anche e soprattutto il nostro desiderio, ovvero quell’inquantificabile che ci da la possibilità di esprimere al meglio le nostre passioni, i nostri talenti, le nostre aspirazioni. Una sorta di strumento in grado di ricomporre la scissione dei soggetti messi al lavoro e di contenere, limitare, lo strapotere del mercato sulle nostre vite e sulla nostra psiche. In sintesi tornare a essere soggetti del desiderio, anziché solo oggetti, non più contro il patriarcato, ma contro il paternalismo neoliberale.