Un merito ce l’ha il Movimento Cinque Stelle: quello di aver affermato nel dibattito pubblico il tema del reddito di cittadinanza. Nello stesso momento, è fondamentale sottolineare come abbia distorto il senso originario della proposta trasformando la richiesta iniziale di un reddito minimo ed incondizionato in un mero sussidio di disoccupazione.
Ma perché il reddito ad oggi è così importante? Lo spiega Roberto Ciccarelli, giornalista e filosofo, che ha appena scritto per DeriveApprodi il libro “Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale” (219 pp., 18 euro).
Un libro importante, frutto di un’elaborazione cui l’autore ha dedicato più di tre anni, nel quale sono sistematizzate le riflessioni sulle nozioni di lavoro e di valore a partire dalle forme concrete che assumono nei contesti produttivi della contemporaneità (sharing economy – gig economy, free lance – robot). Ne esce fuori un testo complesso, stratificato, con un forte taglio politico-filosofico (spinoziano), utile per capire perché il reddito – inteso come reddito di base, universale e senza condizioni – oggi vada sganciato dal lavoro perché è una delle possibili forme di remunerazione delle attività che già svolgiamo nella società e nell’economia, anche in quella digitale, non una forma di riparazione o di assistenza contro la povertà.
Queste attività sono il frutto della nostra forza lavoro, anche quando non sono riconducibili a un “lavoro” inteso come “occupazione”, “contratto a tempo indeterminato”, mentre la fabbrica non è più l’unico luogo dove si produce il plusvalore. Oggi esiste il problema di misurarlo quando si produce in contesti molto diversi. Il reddito di base fa emergere il valore di questa produzione “invisibile”, eppure assolutamente reale, di cui siamo noi i protagonisti, al di là dalle nostre appartenenze, specificità professionali e nazionali. Nella massima frammentazione in cui viviamo, ciò che ci accomuna è la nostra forza lavoro. Dal riconoscimento del suo valore “invisibile” oggi passa la nuova politica. Questa è la tesi del libro.
L’esempio di Facebook è importante per capire il senso di questa enorme trasformazione di cui siamo protagonisti. Su questa piattaforma noi utenti siamo catturati dai sofisticati dispositivi che mobilitano l’attenzione e dall’ingiunzione continua alla produzione del sé digitale – erogano lavoro-gioco, cioè valore-informazione, consente, da un lato, di evidenziare le trasformazioni della produzione di valore che si realizzano attraverso l’appropriazione di “inconsapevole” lavoro gratuito, dall’altro, di de-opacizzare le forme contemporanee di estrazione di valore-rendita.
Più tempo passiamo a mettere like o a esprimere opinioni più Facebook ci profila, acquisisce dati, li rielabora ad uso dell’offerta pubblicitaria, che è il cuore del suo business. Come dimostra il caso di Cambridge Anayitica, il nostro lavoro è usato per costruire frame interpretativi sempre più decisivi nella produzione del consenso attraverso sofisticate strategie di marketing elettorale nelle post-democrazie neoliberali della demagogia elettronica. Così, crea profitto. Un enorme guadagno su quel valore che abbiamo prodotto attraverso il nostro intrattenimento digitale.
Lo stesso avviene per i motori di ricerca, Google in primis. Ciccarelli lo descrive dettagliatamente nel suo libro. I nuovi monopoli digitali che, sfruttando la retorica idiota dell’utopia web, accumulano ricchezze su ricchezze creando nuove disuguaglianze, sfruttando ogni più piccolo aspetto delle nostre vite, producendo in modo opaco nuove strutture di potere verticistiche, più che di discussione e partecipazione paritaria. Questo gigantesco apparato in cui siamo immersi non esisterebbe senza di noi. Senza la nostra forza lavoro, la nostra intelligenza, i nostri “amici” e le relazioni che costruiamo con loro.
Ciccarelli ridefinisce questa realtà materiale del funzionamento dell’economia digitale ricorrendo alla definizione di “forza lavoro” data da Karl Marx. L’autore de Il Capitale, di cui quest’anno ricorre il duecentesimo anniversario della nascita, l’ha intesa sia come capacità di lavoro, sia come facoltà produttrice di tutti i valori d’uso di una vita. Chi oggi ha capito meglio questa definizione sono i nuovi capitalisti della Silicon Valley che, attraverso le piattaforme del Web 2.0, hanno inventato un sistema che permette di sfruttare, senza intermediari, la potenza di questa forza lavoro senza tuttavia riconoscere un centesimo – o poco più – a chi lavora per loro, pur non avendone consapevolezza.
In questo libro, i robot non sono considerati un nemico. La soluzione non passa per bloccare il progresso o per il respingimento della rivoluzione digitale. Il luddismo è quanto di più lontano dalla tesi di Ciccarelli. Così come non pensa esista un’automazione indipendente dalla forza lavoro. Caratteristica principale del capitalismo delle piattaforme digitali, di tutto il capitalismo contemporaneo – spiega l’autore – è quella che con Marx si può definire la “macchina combinata” tra l’uomo e l’algoritmo. Questa cooperazione è tutta a discapito dell’uomo. Nella prospettiva di liberazione politica, contenuta nel libro, si tratta di rovesciare questo rapporto e iniziare a discutere l’uso e la proprietà delle piattaforme come degli algoritmi.
Il reddito di base è una prima risposta a questa esigenza politica. In sé non basta, perché altrimenti rischierebbe di essere una “mancia” data dai capitalisti ai loro schiavi. Occorre una politica coraggiosa che associ a una misura universalistica di reddito nuova disciplina fiscale, contro le diseguaglianze, una riforma del Welfare.
Il reddito di base, aggiunge Ciccarelli, è anche un modo per contrastare precarietà, working poor e dumping salariale. Una via per riaffermare la dignità dell’individuo. Il reddito permetterebbe di respingere ogni forma di subordinazione e afferma l’autonomia dell’essere umano. Abbiamo bisogno anche di salario, diritti sociali, tutele universalistiche e un’etica dell’autodifesa digitale.
“Alla rivendicazione puntuale di questi aspetti – scrive – va associata una prospettiva più ampia, non basta un rapporto di lavoro ben regolato per interrompere lo sfruttamento continuo di ogni aspetto della nostra vita. Vanno trovati strumenti per dare la libertà a ciascuno di rifiutare i ricatti”. E quello strumento è il reddito incondizionato. Non è una proposta né utopistica né da scansafatiche ma l’unico modo per arginare disuguaglianze, lavoro povero e precarietà. Una proposta al passo con la trasformazione delle nostre società.
Quella del reddito è una storia appassionante. In Italia la battaglia è partita da lontano, negli anni Novanta. E proviene dai centri sociali, dai movimenti che per primi hanno parlato di precariato e frammentazione del mondo del lavoro; di partite Iva, in termini di nuovi poveri e non di padroncini o meri imprenditori. Ma, poi, strada facendo, la sinistra – intesa in senso largo – ha abbandonato i temi del lavoro (e del reddito). Si è dimenticata di difendere gli ultimi della società e i ceti meno abbienti, o quando l’ha provato a fare, ha utilizzato forme vetuste, antiquate e novecentesche. Il fallimento dei sindacati è sotto gli occhi di tutti, come il prodigarsi a difendere sempre e solo il lavoratore salariato e subordinato a scapito dei precari o dei working poors.
I vuoti in politica non esistono. La battaglia sul reddito di cittadinanza – patrimonio culturale e politico della sinistra – è passata ad essere pilastro del M5S che l’ha inserito tra i propri punti programmatici. Beppe Grillo, recentemente, ha scritto sul suo blog un post dal titolo “reddito di nascita”: un reddito sganciato dalla produttività capitalistica. Ma la proposta grillina è diversa da quella originaria pensata negli anni ’90. Ha assunto quella battaglia, ma svuotandola di senso trasformando la richiesta di un reddito minimo, incondizionato, in una proposta di workfare.
Si configura, infatti, come una forma di pura assistenza per i disoccupati, condizionata all’inizio di un percorso di ricerca di un impiego. Dopo tre rifiuti, si perderebbe il diritto al sussidio. Inoltre il leader Di Maio, ultimamente, ha abbassato le pretese trasformando l’iniziativa in una sorta di espansione della Rei (Reddito di inclusione) di Renzi. Nella proposta del M5S, confermata da Pasquale Tridico, il Ministro del Lavoro in pectore del M5S, ci sarebbe l’obbligo di dimostrare che si passano almeno due ore al giorno alla ricerca di lavoro e la costrizione ad accettare alcune mansioni definite “congrue”.
Concetto discutibile. Ad esempio, un laureato in biologia è congruo che faccia il cameriere? Chi decide cosa è “congruo” o cosa no? Un illuminante film di Ken Loach, uscito nel 2016 e dal titolo I, Daniel Blake, spiega bene cosa significhi la burocratizzazione dei centri dell’impiego. A volte, un vero e proprio inferno per il cittadino.
Nell’approccio (lavorista) del M5S il reddito è vincolato a fortissime condizioni e rischia di trasformare l’esigenza di introdurre un reddito in Italia, ormai l’unico paese in Europa che non prevede tale misura, in un’occasione mancata. Anzi, rischia di peggiorare la situazione.
Il M5S ha aperto la breccia. Ora è giunto il momento di parlarne più seriamente, rilanciando una proposta più equa. A tal proposito DiEM25 ha elaborato una proposta inedita: attingere ai profitti delle grandi corporation invece che alla tassazione generale. Il punto di partenza convincente: le grandi innovazioni tecnologiche si appoggiano quasi sempre su investimenti pubblici in ricerca di base, mentre le compagnie più innovative sfruttano una produzione collettiva di ricchezza – pensiamo ai big data. I profitti che ne derivano vengono ripartiti esclusivamente fra un numero limitato di azionisti.
Il dividendo di base universale di DiEM25, invece, propone di allargare i benefici a tutta la collettività. Come? Riservando una piccola percentuale delle azioni di tutte le compagnie quotate in borsa ad un fondo comune di proprietà pubblica. Che riceverebbe, quindi, i dividendi azionari così come ogni altro azionista ogni anno, per riversarli poi alla cittadinanza in forma di reddito di base. La strada è percorribile, c’è bisogno della volontà politica.