Il comitato economico sociale dell’Unione europea richiede l’adozione di una direttiva sul reddito minimo garantito. In merito a ciò il Consiglio Direttivo del BIN Italia ha inteso fare una nota informativa che segue
1.
Con la deliberazione a maggioranza del 20.2.2019 (con il voto contrario del gruppo imprenditoriale) il comitato economico sociale dell’Unione europea (CESE: organo consultivo della Commissione europea che comprende le rappresentanze delle parti sociali) ha finalmente richiesto con una certa energia – con un cosiddetto “parere d’iniziativa” – l’adozione di una direttiva sul reddito minimo garantito. Secondo il parere, schemi di reddito minimo garantito sono ormai presenti in pratica in tutti i paesi (effettivamente in tutti dopo che anche la Grecia e l’Italia li hanno adottati) ma in moltissimi paesi gli schemi non sono “degni”, non riescono davvero a contrastare il rischio di esclusione sociale e a ridurre i tassi di povertà che invece in molte zone sono in aumento. La promessa della Strategia 20-20 che voleva eliminare almeno il 20% dei poveri non sarà, sembra, mantenuta e il cosiddetto metodo aperto di coordinamento non riesce a orientare davvero gli Stati e ad imporre politiche più efficienti e rigorose; da ciò la necessità di una regolazione vincolante dell’Unione che stabilisca con la forza del diritto europeo dei criteri inderogabili per tutti gli stati.
A questa netta conclusione non erano arrivate neppure le tre Risoluzioni sul tema del Parlamento europeo certamente molto avanzate sul piano dei contenuti del 2009, del 2010 e del 2017 che non avevano mai osato infrangere il tabù per cui i “signori” della solidarietà dovevano rimanere gli Stati membri. Secondo il parere la base giuridica della ventilata “svolta” può essere individuato nell’art. 153 TFUE; anche se in questa norma assegna la competenza agli organi dell’Unione in materia di “reinserimento dei lavoratori nel mercato del lavoro” secondo il Comitato la nozione di “ lavoratore” sarebbe quella adottata per l’accesso ai sistemi di sicurezza sociale, quindi con riferimento a un lavoratore meramente “potenziale”, in modo da salvaguardare la vocazione universalistica ed inclusiva del reddito minimo garantito.
Per capire il valore “politico” del parere occorre leggerlo nel contesto del confronto che si è aperto in Europa sulla dimensione sociale dopo la Dichiarazione (con valore anche di Raccomandazione) del giugno del 2017 sull’european social pillar. Quest’ultimo documento, che pure offre una ricognizione molto avanzata di 20 principi e diritti che devono essere salvaguardati nel vecchio continente, con un’attenzione particolare al tema delle garanzie welfaristiche (a cominciare dal reddito minimo di cui si predica con insistenza l’adeguatezza) è molto ambiguo sul problema delle competenze, se siano degli Stati, dell’Unione o condivise. Per il reddito minimo il Comitato vuole invece uscire dall’ambiguità: deve entrare in campo l’Unione con norme vincolanti sulla base di criteri condivisi nelle modalità di erogazione ed anche con un contributo per le risorse da impiegare attraverso la creazione di un Fondo ad hoc per il contrasto dell’esclusione sociale. La Commissione non può trincerarsi dietro il principio di sussidiarietà perché la situazione è troppo grave e perché il tema è l’architrave della costruzione di una autentica Europa sociale:
“Il CESE, che condivide senza riserve i principi enunciati nel pilastro sociale, ritiene che l’adozione di un quadro europeo vincolante per l’introduzione di un reddito minimo dignitoso su scala europea darà concretezza alle dichiarazioni solenni che, a partire dalla Carta dei diritti sociali fondamentali, invocano tutte l’imprescindibile lotta contro l’esclusione sociale, e al tempo stesso veicolerà il messaggio che nel XXI secolo la costruzione europea non può essere realizzata senza preoccuparsi della vita dei cittadini europei” ( punto 3.1.10).
2.
Importanti anche le indicazioni in ordine ai contenuti della futura direttiva-quadro: “l’introduzione di unc reddito minimo deve aver luogo nel quadro di un approccio globale alle diverse necessità umane, che non si limiti a considerare il livello di mera sussistenza o semplicemente il tasso di povertà calcolato a partire dal reddito mediano, che in realtà in alcuni paesi non corrisponde ai bisogni essenziali. Occorre pertanto integrare tutte le necessità in termini di tenore di vita, alloggio, istruzione, salute e cultura, al fine di offrire alle persone escluse dal mercato del lavoro e intrappolate nella povertà le migliori condizioni di integrazione o reinserimento. Le condizioni di accesso formano attualmente oggetto di dibattito, ma è necessario che vengano chiarite”.
Si allude qui esplicitamente agli studi di Amartya Sen ed alla sua teoria delle “capabilities“, le quali – ricorda il Comitato – si compongono di tre elementi: “Salute/aspettativa di vita – Recenti studi hanno dimostrato che le persone che vivono in condizioni di povertà risparmiano sulle cure sanitarie, in particolare quelle dentistiche. Hanno uno stile di vita e un’alimentazione meno sani, ragion per cui soffrono maggiormente di problemi legati all’obesità. Tra i ricchi e i poveri esistono inoltre differenze notevoli anche in termini di aspettativa di vita. E un altro elemento di cui occorre tenere conto è costituito dalla gravosità del lavoro. Conoscenze/livello di istruzione – Le statistiche indicano chiaramente che il livello di disoccupazione varia in base ai livelli di istruzione. Secondo i dati Eurostat del 2015, l’11 % degli europei di età compresa tra i 18 e i 24 anni ha abbandonato precocemente la scuola. Tenore di vita – Nel potere d’acquisto vanno integrati tutti gli elementi della qualità della vita, non solo quelli relativi alla sopravvivenza alimentare. La mobilità e l’accesso alla cultura sono elementi importanti di integrazione/inclusione nel rapporto con gli altri e nella socialità, vale a dire i mezzi che permettono di non rinchiudere le persone povere in un isolamento che diventa un circolo vizioso di de socializzazione”.
Quindi si va ben oltre la richiesta di un reddito “adeguato” secondo i noti criteri sovranazionali (60% del reddito mediano con forme di tariffazione agevolata e copertura delle spese impreviste), per alludere ad una dimensione di accompagnamento della “fioritura umana” ben più ampia ed inclusiva. E’ vero che nel parere si ripropone, sia pure molto genericamente, la connessione con le politiche attive (senza avviare quella doverosa riflessione critica su una loro plausibile riconfigurazione alla luce delle potenti trasformazioni tecnologiche in atto) ma ci sembra che questa apertura anche solo di tipo culturale (in una dimensione non strettamente “lavoristica” in senso tradizionale) sia molto apprezzabile.
3.
Da ultimo ci si può allietare leggendo la contromozione di parte datoriale respinta nella votazione con la quale si sollevano argomenti che sono stati utilizzati, purtroppo troppo spesso, anche dalla schieramento di sinistra sindacale e politico, per bloccare il reddito “italiano” per circa 21 anni: non solo la solita apologia (sovranista) della diversità dei sistemi di sicurezza sociale nazionali (per cui si è resistito così a lungo alle indicazioni sovranazionali) ma anche le amenità per cui la povertà si combatte creando posti di lavoro con investimenti, infrastrutture etc. etc. Insomma non date soldi alle persone in carne ed ossa per renderli più liberi ma alle imprese che sanno loro che farci. Ma a Bruxelles non ci hanno creduto: si tratta adesso di imporre agli stati una direttiva sullo ius existentiae per tutti i cittadini europei.
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Nota a cura del Consiglio Direttivo del BIN Italia