Reddito di cittadinanza e beni comuni: le basi per ripartire.
Bisogna essere capaci di guardare oltre le nebbie delle varie “agende” politiche in circolazione; oltre il continuo degradarsi dei partiti in raggruppamenti personali; oltre quello che giustamente Massimo Giannini ha chiamato il “dissennato referendum sull’Imu”; oltre i vorticosi tour televisivi dei candidati. Bisogna farlo, perché all’indomani delle elezioni ci troveremo di fronte a una folla di problemi oggi ignorati, e che sarà vano pensar di cancellare tirando fuori di tasca un fazzoletto da strofinare su qualche poltrona. E soprattutto perché siamo immersi in mutamenti strutturali che esigono quella forte cultura politica e istituzionale finora mancata.
Le parole, per cominciare. Negli ultimi mesi sono stati in gran voga i riferimenti all'”equità”, presentata come la via regia per riequilibrare le durezze imposte da una attenzione rivolta unicamente all’economia, anzi a un mercato “naturalizzato”, portatore di regole presentate come inviolabili. Ma equità è termine ambiguo, che occulta o vuol rendere impronunciabili proprio le parole che indicano quali siano i principi oggi davvero ineludibili – eguaglianza e dignità. I nostri, infatti, sono i tempi delle diseguaglianze drammatiche e crescenti, che tra l’altro, come è stato più volte sottolineato, sono pure fonte di inefficienza economica. E la dignità ci parla di una persona che esige integrale rispetto, che non può essere abbandonata al turbinio delle merci.
Confrontata con queste altre parole, l’equità finisce con l’apparire meno esigente, accomodante, richiama quel “versare una goccia d’olio sociale” che nell’Ottocento veniva indicato come lo stratagemma per rendere accettabili scelte unilaterali e impopolari. In un contesto così costruito, l’eguaglianza deve farsi “ragionevole”, diviene negoziabile, e la dignità può essere sospesa, evocata solo in casi estremi. Queste non sono speculazioni astratte. Se si dà un’occhiata alla più blasonata tra le agende, quella che porta il nome del presidente del Consiglio, ci si imbatte nel riferimento a “un reddito di sostentamento minimo”, formula anch’essa portatrice di grande ambiguità. Essa, infatti, può riferirsi ad una sorta di reddito di “sopravvivenza”, a un grado zero dell’esistere che considera la persona solo nella dimensione del biologico, tant’è che viene agganciata all’esperienza non proprio felice della social card, dunque alla condizione di povertà. Nessuno, di certo, può trascurare l’importanza di misure contro la povertà in tempi in cui questa aggredisce fasce sempre più larghe della popolazione. Ma, considerata in sé, questa è una strategia che non corrisponde alle indicazioni costituzionali e che elude il tema dell’integrale rispetto della persona in un mondo segnato da mutamenti strutturali profondi.
L’articolo 36 della Costituzione, infatti, parla di “un’esistenza libera e dignitosa” da assicurare al lavoratore e alla sua famiglia. E l’articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea non si riferisce soltanto alla povertà, ma pure all’esclusione sociale, e afferma anch’esso il dovere di “garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti”. Se la politica vuole ritrovare la sua nobiltà, e farsi pienamente politica “costituzionale”, deve seguire il cammino così nitidamente indicato, che ha come obiettivo il reddito di cittadinanza. Ripartire dal lavoro, come giustamente si torna a dire, significa proprio questo, sì che appare sorprendente il modo in cui è stata liquidata da quasi tutti i partiti e i sindacati la suggestione appena venuta da Jean-Claude Juncker che, pur parlando di salario minimo garantito, sostanzialmente si riferiva proprio alla prospettiva appena indicata. Possibile che non ci si renda conto del fatto che lo storico sistema degli ammortizzatori sociali, comunque bisognoso di revisione, nasce in un tempo in cui ad essi veniva affidato il compito di governare situazioni ritenute transitorie, mentre ora il rapporto reddito-lavoro-vita deve fronteggiare una situazione strutturalmente mutata? Possibile che non si avverta come il potere contrattuale del sindacato non sia intaccato dalla previsione ad ampio raggio di un reddito che rende la persona più libera, sottratta ai ricatti legati al bisogno?
La prospettiva non è quella del tutto e subito, ma bisogna avere chiara la direzione verso la quale si va. Proprio partendo dalla condizione materiale delle persone, oggi dovremmo avere consapevolezza piena che l’esclusione rende fragile la coesione sociale e mette sempre più a rischio la democrazia, mostrando una volta di più la lungimiranza dei costituenti che, nell’articolo 1, vollero la Repubblica democratica fondata sul lavoro. Siamo dunque di fronte ad una situazione che chiama in causa la cittadinanza e il modo in cui questa si costituisce. Sono proprio i diritti di cittadinanza l’asse intorno al quale, nei luoghi più diversi, si discute, non solo per affrontare il tema dei migranti nel mondo globale. La cittadinanza oggi significa un fascio di diritti che accompagnano la persona quale che sia il luogo del mondo in cui si trova, in primo luogo la salute e l’istruzione, il lavoro e l’abitazione. Diritti ai quali bisogna guardare in una logica egualitaria, per evitare il ritorno della cittadinanza censitaria, respingendo le tentazioni di privatizzazioni dirette o indirette. Diritti che rinviano ai beni necessari per la loro attuazione, dall’acqua alla conoscenza, e che per questo sono detti “comuni”.
Di beni comuni si parla con tratti fortemente retorici nella campagna elettorale, mentre nella realtà d’ogni giorno si opera nella direzione opposta. L’Autorità per l’energia elettrica e il gas ha approvato un nuovo metodo tariffario per l’acqua che viola l’esito del secondo referendum sull’acqua, reintroducendo sotto mentite spoglie quella remunerazione del 7% del capitale che il referendum aveva cancellato. Solo i Comuni di Napoli e Reggio Emilia hanno adottato l’indicazione referendaria riguardante la gestione pubblica del servizio idrico, mentre il sindaco grillino di Parma ha annunciato di voler vendere le quote di proprietà pubblica dei servizi locali. Nella nuova legislatura, dunque, il vero tema sarà quello di una riforma del regime della proprietà pubblica, non la ridicola giaculatoria delle “dismissioni” di beni pubblici come bacchetta magica per risolvere i problemi del debito.
Questa è una vera riforma istituzionale. E sempre la vicenda dei referendum sull’acqua, che hanno visto la più larga partecipazione dei cittadini con i 27 milioni di sì, indica la via di una riforma costituzionale che non ripercorra le vie ambigue della “governabilità”, ignorando il tema degli equilibri democratici. Se si vuole recuperare concretamente la fiducia dei cittadini, si devono quasi reinventare le istituzioni della partecipazione, a cominciare dal referendum e dall’iniziativa legislativa popolare, nella prospettiva di un ripensamento della rappresentanza. Se non si vogliono ancor più ridurre i diritti sociali, è indispensabile introdurre correttivi alla brutale subordinazione alle compatibilità economiche perseguita con le ultime modifiche alla Costituzione. Negli anni passati, il sistema politicoistituzionale è stato sconvolto in mille modi, a cominciare dalle manipolazioni della legge elettorale, e ha portato a una drammatica riduzione della tutela dei diritti. Questo è il mutamento strutturale che dovrà essere affrontato, e si dovrà cominciare proprio dalla ricostruzione dell’insieme degli equilibri e delle garanzie democratiche.
Articolo di Stefano Rodotà pubblicato su La Repubblica il 28 gennaio 2013