La forbice tra i pochi ricchi e i moltissimi poveri ed impoveriti si allarga, la stagnazione produttiva allunga la sua ombra su tutta l’Europa con, in alcune aree dell’Europa mediterranea, la propensione a trasformarsi in stagflazione
Il 65% delle famiglie italiane valuta che il proprio reddito è inferiore al necessario ed è aumentata la quota di coloro che hanno un reddito insufficiente a coprire i consumi. E’ l’allarme di Bankitalia in due studi in cui avverte che in crisi sono soprattutto giovani e affittuari.
La Banca d’Italia descrive in due Quaderni di Economia e Finanza (‘Le difficoltà del risparmio nelle valutazioni delle famiglie italiane e ‘Il risparmio e la ricchezza delle famiglie italiane durante la crisi’) la difficile situazione delle famiglie italiane sotto gli effetti della crisi.
Il 65% delle famiglie italiane ha la percezione e valuta che il proprio reddito è inferiore al necessario ed è aumentata la quota di coloro che hanno un reddito insufficiente a coprire i consumi.
E l’incremento più diffuso di coloro che nel 2010 hanno segnalato un reddito inferiore a quanto ritenuto necessario si è verificata tra i nuclei che vivono in affitto, in cui il capo-famiglia è operaio oppure disoccupato, pensionato, impiegato a tempo parziale. Alcune famiglie, rileva Bankitalia, hanno risentito della crisi più di altre: in particolare, per i nuclei a basso reddito, per quelli giovani e per gli affittuari quasi tutti gli indicatori esaminati hanno registrato un peggioramento. E la propensione al risparmio è ulteriormente diminuita dopo il 2008 ed è aumentata la quota di famiglie con reddito insufficiente a coprire i consumi.
L’aumento degli squilibri, osservano ancora gli economisti della Banca d’Italia, è messo in luce anche dall’incremento della concentrazione della ricchezza: tra il 2008 e il 2010 la quota di ricchezza netta posseduta dai tre quarti di reddito più bassi è diminuita a vantaggio della classe più elevata. L’esigua frazione di ricchezza detenuta dai nuclei giovani si è ridotta ulteriormente. Se si considera una misurazione della povertà, che oltre al reddito, prenda in considerazione anche la ricchezza, emerge un peggioramento di tali indicatori fra il 2008 e il 2010, in misura particolarmente accentuata tra giovani e affittuari. Nel 2010 le famiglie povere di reddito e ricchezza al netto della casa di residenza erano l’8,8%, in lieve aumento rispetto al 2008. Tra quelle giovani invece l’incidenza della povertà è aumentata di quasi tre punti fino a raggiungere il 15,2%. Per gli affittuari la percentuale è ancora maggiore, pari al 26,1%, in aumento di 3,5 punti tra le ultime due rilevazioni.
Il dato più preoccupante è quello relativo alla riduzione dei consumi nel settore alimentare, con acquisti in calo del 3,9%, a dimostrazione che gli italiani non solo tagliano i consumi non indispensabili, ma riducono drasticamente anche quelli primari, ossia mangiano sempre meno. l crollo dei consumi di gennaio, associato al calo delle vendite con record negativo del 2012 (-4%), alle previsioni nere per il 2013 e ai dati estremamente negativi sull’occupazione, specie giovanile (30%), diffusi solo pochi giorni fa, assieme alle gravi difficoltà ad accedere al credito, sono tutti indicatori che ci segnalano la profondità di questa crisi da cui, con gli strumenti ordinari, non si vede via d’uscita.
Ho richiamato questi riferimenti descrittivi della crisi che stiamo attraversando, perché misure macroeconomiche come PIL, deficit, o concetti strumentali quali spending review, fiscal compact non ci danno la percezione reale di quello che accade attorno a noi, se non ne siamo toccati soggettivamente. Insomma la forbice tra i pochi ricchi e i moltissimi poveri ed impoveriti si allarga, la stagnazione produttiva allunga la sua ombra su tutta l’Europa con, in alcune aree dell’Europa mediterranea, la propensione a trasformarsi in stagflazione [ stagnazione + inflazione].
Insistere nel pensare che da questa crisi economica – da noi non a caso definita epocale – si possa uscire con misure ordinarie di politica economica e finanziaria è assolutamente incongruo. Il lavoro in diversi segmenti maturi della produzione se n’è andato, se ne sta andando altrove e non tornerà più nelle forme e quantità che abbiamo conosciuto, da noi ma anche in tutta Europa.
E’ necessario un salto di paradigma nel di modo produrre, nelle scelte di cosa produrre, e questo non è il mantra del solito apologeta della fine di questo modello economico ma sta nella realtà materiale del nostro vivere quotidiano: è diventato il luogo comune della conversazione, anche di quella al bar sotto casa, oltre che all’edicola di Fiorello.
In questo contesto, ritengo che rilanciare a gran voce la suggestione del reddito di cittadinanza sia la proposta più ragionevole, sensata ed equilibrata a tutti i livelli [economico, produttivo, sociale] che si possa fare, quasi – oserei dire – una mediazione politica, in Italia ma anche in Europa, a fronte dell’incedere della crisi. Il reddito di cittadinanza è stato uno slogan che abbiamo gridato per molto tempo ed anzitempo, fino a perdere la voce; lo abbiamo declinato, come concetto, in universale, garantito, d’ingresso, di cittadinanza per trovare una convergenza, forme di alleanza, di coalizione per farlo uscire dal minoritarismo concettuale autoreferenziale o da addetti ai lavori.
Per anni ci siamo, inutilmente, invischiati con tante parole, in tanti distinguo di nessun conto reale con le varie forme sindacali e di movimento, con mediazioni lessicali impossibili, per poi scoprire – con orgoglio – che il concetto di reddito di cittadinanza è parte integrale dell’immaginario collettivo della moltitudine che si esprime, magari delegando e con il voto, in questo tempo di cambiamenti radicali, in questo tempo di rivoluzioni. Non dobbiamo considerarlo uno scippo politico da parte di un istrione ma la capacità di interpretare e far proprio il desiderio di cambiamento che vive nella società; anzi dobbiamo riappropriarci di quanto di utile è stato prodotto nell’esperienza collettiva dei movimenti e dobbiamo moltiplicare le attenzioni affinché le potenzialità costituenti implicite nel voto espresso da una moltitudine dell’elettorato non venga delegittimata, depotenziata, demonizzata, così come per altri versi è stato realizzato con il portato referendario dell’anno passato. Ciò può essere agito con semplicità, pacatezza e determinazione, attraverso una proposta unitaria che si muova da oggi in avanti, senza preclusioni o steccati ideologici e che viva da subito dentro le scadenze e le iniziative dei movimenti, tutti.
A mo’ di esempio, domenica 3 marzo, è stata lanciata per il 22 marzo prossimo, da assemblee tenute in 8 città, a cui hanno partecipato almeno 1000 lavoratori, una giornata di lotta con sciopero per tutto il comparto della logistica per la conquista del contratto unitario di lavoro. Tutti sanno come il settore della logistica sia un mondo a parte dove vige il caporalato, il lavoro più precario, più sfruttato, senza i diritti più elementari, dove le cooperative vampirizzano i soci lavoratori, dove la componente migrante è presente in grande quantità, che è centrale e strategica nel attuale modo di produzione, e poi mi fermo per non ripetere luoghi comuni e ripetermi.
Perché, dunque, non far vivere questa giornata anche come una prima sperimentazione concreta di sciopero per il reddito di cittadinanza, con cui tutti sono invitati e possono misurarsi con le dovute articolazioni settoriali e territoriali, che alluda ad una generalizzazione possibile di nuove forme di sciopero sociale, oltre che per la conquista del contratto di lavoro. Una sperimentazione politica e sociale, una verifica, seppur molto parziale, che possa alludere alla possibilità, di un insieme di coalizioni sociali di scopo, di praticare uno sciopero sociale generale per il reddito di cittadinanza.
Siamo – o no – macchine desideranti ?!!
Articolo pubblicato sul sito Global Project il 7 marzo 2013. Riceviamo e volentieri pubblichiamo.