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Abbiamo così tanto da cambiare e da conservare

di Giuseppe Bronzini

Il concetto di flexicurity è nel Libro Verde incanalato nella porta stretta della “modernizzazione”. Nonostante l’angustia della sua visuale ha il merito di richiamare l’attenzione sul faticoso processo di costruzione di un welfare europeo.

Il green paper ha adottato nel suo titolo il tema della ” modernizzazione del diritto del lavoro”, ma altrove richiama il termine flexicurity ( che è certamente preferibile all’inedito flessicurezza coniato per l’occasione nella traduzione italiana), ricco di suggestioni e di portati normativi che eccedono l’orizzonte della mera modernizzazione, il cui obiettivo prioritario è per la Commissione ” accrescere la capacità di risposta dei mercati del lavoro europei… per promuovere l’attività economica ed accrescere la produttività” (1 ). Il concetto di flexicurity non evoca solo problemi di efficienza e di competitività, ma questioni “difficili” concernenti la cittadinanza sociale, i diritti individuali, il rapporto tra regole della concorrenza e sfera pubblica. Usare in modo disinvolto modernizzazione e flexicurity come espressioni equivalenti non può aiutare l’opera di chiarimento sulle future politiche del lavoro dell’Unione che il GP dichiara di voler perseguire.

In primo luogo la cosiddetta flexicurity chiama in gioco una innovativa filosofia di intervento sociale che vuole raccogliere, rinnovandola e approfondendola, la ratio del welfare state post-bellico liberandone le istanze universalistiche e al tempo stesso individualizzanti. La logica è quella di ” socializzare” lo stesso ” stato sociale” attraverso la predisposizione di una rete di protezioni e tutele oltre il pianeta della subordinazione classica e l’offerta di chances e opportunità ” di base” perché ognuno scelga, il più possibile, tempi, carichi e modalità contrattuali del proprio apporto lavorativo (in senso lato) alla società. Non solo, quindi, la difesa rigida e statica di rapporti lavorativi in atto, ma un rovesciamento del senso e del significato della flessibilità, attraverso il riconoscimento di aspirazioni soggettive alla modulazione anche individuale dell’attività svolta e ad una mediazione consapevole tra tempi di vita e tempi di lavoro, prospettiva per la quale i ” nuovi” diritti alla formazione permanente e continua e al basic income diventano strumenti imprescindibili. Le ascendenze culturali di questa kehre nel rapporto tra cittadini, lavoro e welfare sono in realtà varie e multidisciplinari. Dal dibattito promosso da Jürgen Habermas negli anni 80 sulla colonizzazione del ” mondo vitale”e proseguito da Günther Teubner con la teoria del ” diritto riflessivo” come alternativa alla patologie reificanti dello stato sociale burocratico e centralistico (2 ), alle riflessioni pionieristiche di Alain Supiot ( 3 ) sulla libertà di scelta ” nel lavoro” e sui cosiddetti ” diritti sociali di prelievo” riprodotte anche nel rapporto del 1999 per la C.E. sul futuro del lavoro in Europa (4 ) e, allargando la visuale, dalle teorie post-rawlsiane dell’eguaglianza di Amartya Sen e Martha Nussbaum che mirano a rendere più complessa e meno incentrata su dati puramente quantitativi il concetto chiave della modernità, introducendo quella nozione di capabilities che sembra una sfida per un diritto del lavoro tradizionalmente arroccato sulla protezione e tutela del ” dato occupazionale”( 5 ) , alle riflessioni di Manuell Castells ( 6 ) sulla governance per reti nella knoledge economy.

La flexicurity rimanda, inoltre, agli orientamenti innovativi adottati da molti paesi del Nord europa ( Svezia, Danimarca, Finlandia, Olanda etc.) alla fine degli anni 90 che hanno allentato i legami tra occupazione fissa e prestazioni sociali, sviluppando le cosiddette politiche “proattive” del lavoro, l’ incentivazione della formazione in senso molto ampio ( non solo di tipo professionale ) , le misure di copertura universalistica del reddito ( basic income) , il superamento del disfavore legislativo per forme duttili di impiego della forza lavoro. Per quanto le strade percorse non siano identiche, tra le soluzioni prescelte vi è una indubbia ” aria di famiglia” nella convergente vocazione a rimuovere gli ostacoli alla partecipazione attiva al sistema lavorativo sulla base di un’agenda più complessa di quella tradizionalmente coperta dalla labour law: studio, formazione, ricerca e libero esercizio delle attitudini individuali, più che arroccamento su schemi rigidi di ordine legislativo . Alla base, in questi paesi, una tassazione elevata ( e rispettata), un alto tasso di sindacalizzazione con il coinvolgimento stretto dei sindacati, da tempo individuabili più come sindacati del cittadini che come mere associazioni dei lavoratori nei programmi del nuovo welfare (7 ).

Infine non può trascurarsi la flexicurity come idea regolativa già in parte iscritta nell’ordinamento europeo. Con il Trattato di Amsterdam e l’avvio in concreto della strategia europea sull’occupazione con la Lisbon Agenda, l’Unione si è dotata di un nuovo strumento di direzione delle politiche sociali denominato open method of coordination ( esteso ben presto anche ai settori della previdenza, dell’assistenza e della lotta alla esclusione sociale). Attraverso questa complessa procedura che in genere viene classificata come una tecnica di soft law, si è reso possibile, sulla base di un’opera a monte di individuazione degli obiettivi da raggiungere per l’intera Unione, selezionare come best practises proprio alcune delle esperienze del Nord Europa, assunte come esemplari per essere riuscite a coniugare la lotta alla disoccupazione e all’intrappolamento sociale che questa in genere la prima comporta, una maggiore flessibilità nei rapporti lavorativi in qualche modo rapportata anche alle aspirazioni individuali, un più alto tasso di partecipazione al sistema produttivo, maggiori competenze e conoscenze tra la popolazione, e un coinvolgimento delle stesse parti sociali nei programmi statali welfaristici . Insomma risposte che non solo mostrano una più pronta adattabilità di questi paesi alle sfide della concorrenza globale, ma anche una attenzione alla richieste non solo di occupazione, ma di una attività sentita come ” il proprio contributo” alla società. (8 ). In adesione a quanto è sin qui emerso nell’ambito dell’OMC, gli ultimi Consigli europei hanno sempre precisato che l’Unione non persegue obiettivi di flessibilità del mercato del lavoro che non siano compensate con idonee misure di natura sociale.

Si può altresì sostenere che l’opera di riscrittura e messa in ordine delle fonti anche di origine giurisprudenziale sui diritti fondamentali in Europa condotta dalla Prima Convenzione e poi magistralmente racchiusa nelle felici formulazioni della Carta di Nizza abbia, per il settore sociale, comportato un certo adeguamento degli stessi ” valori” dell’Unione all’idea regolativa della flexicurity. Non solo il baricentro dell’intera architettura della Carta è individuato in quella dignità della persona che implica -insieme al principio di non discriminazione- l’estensione delle tutele tipiche ( laddove possibile ed anche attraverso una loro modulazione mirata) , del lavoro standard ad altre tipologie di attività produttiva, ma la Carta stessa contempla alcuni diritti di quarta generazione della “cittadinanza laboriosa” come quello alla formazione permanente e continua o lo ius ad vitam ( desumibile senza forzature dall’art. 34 terzo comma) che non figurano in genere nelle Costituzioni degli Stati nazionali (9 ).

Il concetto di flexicurity è nel green paper incanalato nella porta stretta della “modernizzazione” e sembra accogliere una sua nozione angusta e limitativa come mero mezzo per poter competere nella sfera globale e per consentire una qualche tenuta dei livelli occupazionali. Una maggiore flessibilità nei rapporti di lavoro sembra emergere come una risposta obbligata alla crescente instabilità dei mercati, anche se in qualche passaggio si suggerisce saggiamente che questo risultato non avvenga a scapito della attuale rete di protezione garantita dagli Stati ( in altri passaggi, come quelli sulla flessibilità in uscita ,il documento è molto più inquietante) . Il paper individua come un problema l’emergere di figure che si allontano progressivamente dal lavoro subordinato standard e che difettano di tutele essenziali sia sul piano lavoristico che su quello previdenziale. Tuttavia- come nota il documento della nordica social platform (10 ) -è questo solo un aspetto, anche se certamente non di secondario rilievo, di un mutamento di orizzonte, quale richiesto dalla nuova filosofia flexicuritaria. E’ del tutto assente, infatti, la dimensione della scelta individuale per modalità non tradizionali di lavoro, perseguita, in genere, nel Nord europa attraverso i cosiddetti ” diritti sociali di prelievo” e resa agibile dall’erogazione di robusti sussidi pubblici per il settore della formazione e dalla attribuzione generalizzata di un basic income (11 ). Insomma è certamente corretto ricordare agli Stati e alla stessa UE che le vecchie rigidità sono spesso incoerenti con le contemporanee dinamiche dei mercati e che potrebbe, dal punto di vista della coesione sociale, rivelarsi rovinoso creare delle sottoclassi dai contratti poco o nulla garantiti, ma la questione della tensione soggettiva verso una ” buona” e voluta occupazione eccede questa pur fondamentale dimensione.

Curiosamente il paper sembra scritto in un’altra epoca. I paesi all’avanguardia ( per la stessa Unione, si intende) nel coniugare competitività e ” nuovi diritti”, o se vogliamo flessibilità e sicurezza, non sono quasi mai citati; le esperienze ” pilota” rimangono ai margini della ricognizione della Commissione che forse sconta la tesi, molto problematica in realtà, della non generalizzabilità del vigente modello scandinavo, nato- vogliamo ricordare- in realtà da una crisi economica alla metà degli anni 90 e da scelte tanto drammatiche quanto innovative se non rivoluzionarie e non in virtù di una lineare evoluzione di quei sistemi. I tassi di sindacalizzazione del Nord europa (12 ) non sono effettivamente paragonabili con quelli di altri paesi, né è disponibile su larga scala l’attitudine del sindacato in quelle situazioni a farsi negoziatore sul piano stesso della cittadinanza. Eppure le mete della flexicurity, se implicano modi di partecipazione più larghi ed integrati di quelli legati alla rappresentanza politica, sembrano comunque tollerare equivalenti funzionali al negoziato sindacale come, ad esempio, un nuovo protagonismo delle Regioni e degli enti locali. Un welfare municipale più tollerante nei confronti dei bisogni delle nuove generazioni e modulato sui ” nuovi diritti”si è dimostrato nel nostro paese come un’idea piuttosto promettente.

Ancora il paper sembra collocarsi in una fase decisamente sorpassata della storia dell’Unione sorvolando sulle due più importanti ” innovazioni” degli ultimi anni; la experimental governance connessa alla OMC e l’approvazione a Nizza di un Bill of rights che, indipendentemente dall’esistenza di direttive europee, contempla i diritti socio-economici come diritti pleno iure affermando ( nel suo Preambolo) l‘indivisibilità tra tutte le prerogative fondamentali dei cittadini del vecchio continente. Partendo da questo ultimo aspetto, nonostante -come noto- alla Carta nel 2000 non sia stato conferito un valore vincolante e il Trattato costituzionale che questo obiettivo realizzava sia stato – sinora- bloccato dai due no referendari di Francia e Olanda, il Testo di Nizza è stato oggetto di un imponente utilizzazione in via interpretativa da parte della giurisprudenza nazionale ed europea, sino ad indurre finalmente la stessa Corte di giustizia nello scorso Giugno ad attestarne la immediata operatività: gli avvocati generali sono, dopo tale decisione, tornati ad incalzare la Corte chiedendo un più esteso uso del Bill of rights europeo, del resto già menzionato in storiche sentenze addirittura dalla Corte di Strasburgo, organo giurisdizionale estraneo all’Unione europea (13 ). Va anche ricordato che nella decisione del 27.6. 2006 la CGCE ha valorizzato un elemento sino ad oggi lasciato in penombra dai commentatori: il fatto che gli organi europei dalla Commissione, al Consiglio, al P.E. nei loro provvedimenti facciano sempre riferimento agli articoli della Carta dichiarando espressamente di averla voluta applicare. Pertanto che la Commissione oggi presenti un documento così importante come il green paper che finisce con il prendere in considerazioni moltissimi dei diritti della Carta, senza farne menzione alcuna costituisce un comportamento tanto enigmatico quanto inaccettabile .

Il green paper non si preoccupa in alcun modo di precisare se si vuole chiamare in gioco le procedure dell’OMC o meno. La letteratura sull’OMC ha nell’ultimo periodo sottolineato l’esigenza di non contrappone secondo linee dogmatiche del tutto superate soft e hard law , ma di considerarle in collegamento tra loro e nella loro ibridazione funzionale. Un certo rallentamento del dialogo e del confronto tra le varie esperienze europee ( e dell’opera di trascinamento di quelle più arretrate verso l’adeguamento progressivo a standard più alti) ha sofferto in primo luogo della mancata revisione delle direttive in campo sociale e della mancata approvazione di nuove ” regole ” minime ( soprattutto in materia di lavoro atipico ), se del caso con il ricorso all’art. 137 TCE. La Commissione individua alcuni settori nei quali è necessaria o un’opera di manutenzione o di regolazione ex novo. Ma attraverso quali strumenti? Si vogliono nuove direttive, si vuole rilanciare l’OMC, si istiga gli Stati ad intervenire? E quali sono i raccordi tra questi vari piani? Vuole la Commissione gettare alle ortiche quanto si è così faticosamente accumulato nei processi di governance anche solo sotto il profilo di una conoscenza comune e condivisa della situazione dei vari paesi sulla base di dati collettivamente stipulati? E’ realistico pensare di rilanciare il modello sociale europeo, solo attraverso un aggiornamento ( e un incremento) delle grandi direttive, ammesso e non concesso che questo sia l’obiettivo di Bruxelles?

Nonostante questi limiti vistosi, l’angustia della sua visuale, l’ambiguità sulle tappe e sui risultati che si hanno in mente il green paper ha il merito ” oggettivo ” più che soggettivo di richiamare l’attenzione sullo stato dell’arte nel faticoso processo di costruzione di un welfare europeo e di aggiornamento dei suoi principi costitutivi. Le domande cui si dovrà rispondere nel forum di discussione sono comunque cruciali e il fatto che associazioni imprenditoriali o di ” padroncini ” abbiano già protestato, così come alcuni importanti sindacati dei lavoratori(14 ) è in linea con la funzione di un green paper, che è quella di accendere un confronto, costruendo un’agenda aperta di problemi. Ad esempio sulla vexata quaestio del lavoro ” autonomo” il documento sembra muoversi lungo direttrici di grande razionalità, prospettando l’estensione delle tutele fondamentali al lavoro autonomo economicamente dipendente e quindi scartando, in una logica pluralista, le ipotesi riduzionistiche perseguite da una parte della dottrina italiana che vorrebbe arrivare ad una super-nozione di subordinazione (15).

Tuttavia l’avere prescelto una linea di approfondimento proiettata sulla sola dimensione dei rapporti di lavoro, senza connessione esplicita con le altre dimensioni della tutela sociale e dell’intervento pubblico, può privare il dibattito del suo senso più profondo. Una disciplina ad esempio sul part-time non è giudicabile interamente in base alle regole del rapporto, ma deve poter essere valutata anche in relazione alle eventuali ( v. il caso Olanda) misure che possono rendere la scelta per un impegno ridotto una autentica scelta individuale. Parliamo degli interventi pubblici sui servizi sociali o di incentivo alla formazione o ancora dei meccanismi di facilitazione pensionistica che possono colorare diversamente il bruto fatto di lavorare a mezzo tempo. In sostanza, anche ammesso che alle domande proposte la società civile europea risponda nel più avanzato possibile e che poi l’UE trovi il modo per tradurre in norme vincolanti quanto emerso, saremmo ben lontani, anche come metodo, dall’immissione dell’Unione nel suo complesso in un percorso verso un nuovo ( più attivo e partecipativo) e inclusivo modello sociale. Il forum dovrà, quindi, essere l’occasione non solo per richiedere da parte della società civile europea ( aiutata dagli studiosi della materia) una manutenzione straordinaria delle direttive lavoristiche, ma anche per costringere il dibattito a recuperare l’orizzonte più ampio della libertà “di lavorare” ( secondo la felice formulazione della Carta di Nizza), cioè la possibilità di scegliere- per tutti- un tipo di attività coerente con le proprie aspirazioni e i propri interessi in un piano di vita che rifiuta di essere il mero riflesso di esigenze di competività (aziendali, nazionali o europee ). Prospettiva necessariamente chiamata in causa nel prendere sul serio la parola d’ordine della flexicurity.

Ho però un ultimo dubbio. Il documento, come detto, è reticente e in alcuni passaggi persino pericoloso circa le innovazioni che vorrebbe produrre nel vecchio continente. Ma potrà mai un paese come il nostro che ha il più basso tasso di partecipazione al lavoro e di occupazione femminile, non ha ( unico Stato insieme alla Grecia ) un basic income, che destina all’assistenza sociale meno della metà delle risorse rispetto ai paesi meno virtuosi dell’Unione ( e meno di un terzo di quelli più attenti alla protezione degli esclusi)….ricavare qualche serio danno dalla discussione promossa dal documento? Abbiamo davvero così tanto da insegnare ( e da conservare)?

 Note

1) pag. 1 del green paper, alla fine del primo paragrafo

2) Il dibattito è degli anni 80: v. J. Habermas ” Teoria dell’agire comunicativo”, Bologna 1986 e per contro G. Teubner ( ed.) ” Dilemmas of law in the welfare state “, Berlin 1986 e G. Teubner ( ed.) ” Juridification sf social spheres” , Berlin 1987 ma il tema di un nuovo “welfare autoregolato” è proseguito ben oltre quella stagione, saldandosi con il tema della contrattazione collettiva come momento alternativo o di integrazione alla legge ( v. A. Lo Faro ” Funzioni e finzioni della contrattazione collettiva comunitaria” Giuffrè 1999) e con i temi della new governance europea ( da ultimo V. cfr C. Joerges e J. Neyer, Deliberative supranationalism, EUI W.P., n. 202006)

3) cfr. A Supiot ” Critique du droit du travail “, Paris 1994

4) cfr. ( a cura di A. Supiot) ” ” Il futuro del lavoro” Roma 2003

5) Per una convincente inserzione della scuola dell’eguaglianza nelle capabilities nel diritto del lavoro, in specie europeo v. B. Caruso “Occupabilità, formazione e capability nei modelli giuridici di regolazione del mercato del lavoro ” in corso di pubblicazione sul Giornale dir. lav. rel. ind.

6) M. Castells ” Volgere di millennio ” , Milano 2003

7) Rinvio all’intervento di S. Leonardi in questa newsletter; cfr. anche G. Farrell ( a cura di) ” Flexicurity: flessibilità e welfare : una sfida da raccogliere” Roma 2006; V M. Castells e P. Himanen “Società dell’informazione e welfare state” Napoli 2006;; B. Caruso ” Changes in the workplace and the dialogue of labour scholars in the global village”, WP Massimo D’Antona n. 522007; S. Giubboni ” Il primo dei diritti sociali. Riflessioni sul diritto al lavoro tra Costituzione italiana e ordinamento europeo” in WP Massimo D’Antona n. 462006; G. Busillacchi ” Nuovo welfare e capacità dei soggetti” in Stato e mercato n. 762006

8) Sull’OMC v. M. Barbera ( a cura di ) ” Nuove forme di regolazione. Il metodo aperto di coordinamento delle politiche sociali” , Milano 2006;per una convincente critica ad una distinzione troppo rigida tra soft law e hard law v. B. Caruso ” Il diritto del lavoro tra hard law e soft law: nuove funzioni e nuove tecniche normative” in WP Massimo D’Antona n. 782005; F. Ravelli ” Il coordinamento delle politiche comunitarie per l’occupazione e i suoi strumenti ” in Diritto, lavori, mercati n. 12006; D. Wincott ” European political development, regulatory governance and the european social model” in European law journal Nov. 2006; F. Rödl ” Constitutional integration of labour constitutions” in ( a cura di E. Eriksen, C. Joerges e F. Rödl ) ” Law and democracy in the post-national Union ” Arena report n.i2006

9) Sul significato della Carta di Nizza per l’elaborazione di un nuovo Statuto del lavoro post-fordista rinvio a G. Bronzini ” La Carta europea dei diritti fondamentali: dal progetto di un modello sociale europeo alla costituzionalizzazione dell’Unione” in H. Friese, A. Negri, P. Wagner ( a cura di ) ” Europa politica”, Roma 2002; sul nesso tra diritti fondamentali e Lisbon Agenda v. S. Sciarra ” Fundamental labour rights after Lisbon Agenda ” WP Massimo D’Antona n. 652005

10) Leggibile nel Dossier sul GP pubblicato nel sito del dipartimento di diritto del lavoro dell’Università di Catania

11) Sul basic income v. P. Van Parijs e Y. Vanderborght ” Il reddito minimo universale ” , Milano 2006, M. Paci ” Nuovi lavori, nuovo welfare”, Bologna 2005; G. Standing ” Why basic income is needed for a right to work ” in Rutger Journal of law and urban policy n. 22005

12) V. l’intervento di S. Leonardi già citato; sulla contrattazione collettiva nell’OMC cfr. F. Guarriello ” il contributo del dialogo sociale alla strategia europea dell’occupazione ” in ” Nuove forme di regolazione… ” cit.

13) V. G. Bronzini e V. Piccone ” La Carta di Nizza nella giurisprudenza delle Corti europee” in Diritti dell’uomo n. 22006, sulla applicazione della Carta v. G. Bisogni, G. Bronzini, V. Piccone ” I giudici e la Carta europea dei diritti fondamentali ” Taranto, 2006; S. Sciarra ” Diritti fondamentali , principi generali di diritto europeo: alcuni esempi nelle recente giurisprudenza della Corte di Giustizia europea” in corso di pubblicazione in ” La Carta e le Corti”, Taranto 2007; S. Sciarra ” Norme imperative nazionali ed europee” in WP Massimo D’Antona n.442006

14) V. il documento di CGIL, CISL e UIL in questa newsletter

15) Rinvio al mio ” Generalizzare i diritti o la subordinazione ” in Democrazia e diritti n. 22005

 

Pubblicato su: Newsletter C.r.s. febbraio 2007

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