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Europa: a reddito garantito. E’ un diritto minimo.

di Giuseppe Bronzini

Lo ius existentiae è fortemente connesso al tema della protezione della dignità della persona che cominciare  dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Solo con gli anni 70, nella riflessione sulle condizioni di una società giusta, comincia ad essere declinato come diritto di cittadinanza. Oggi l’Unione europea lo riconosce ma troppo spesso lo subordina a politiche di workfare e ne riserva la tutela agli stati nazionali. Con la crisi è forse possibile passare ad una basic income come diritto finanziato e protetto dall’Unione ed indipendente dalla sfera del lavoro.

Con la vittoria sulle forze nazifasciste il tema della dignità dell’uomo ha trovato, nel secondo dopoguerra, una nuova energia costituzionale, tanto da aver fatto parlare di un ritorno al giusnaturalismo. Persino Hans Kelsen, alfiere del giuspositismo, difese la legittimità del Tribunale di Norimberga in base a principi “non scritti”di diritto naturale.   Ne sono conferma sul piano nazionale la Costituzione di Bonn che poggia su questo valore (art. 1) e su quello internazionale la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che menziona la dignità sia nel preambolo “Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo” che all’art. 1. Sul piano sociale gli artt. 22 e 25 della Dichiarazione richiamano la necessità della garanzia di risorse sufficienti per condurre una vita decorosa, così come il patto ONU del 1966 sui diritti socio-economici (mai accettato però da USA e G.B). Tuttavia queste prime affermazioni dello ius existentiae si trovano in Testi che, pur di altissimo contenuto morale, sono in genere ritenuti puramente indicativi e nel complesso non chiarificano il rapporto tra tale diritto e quello al ” lavoro”, se insomma ci si rivolge al cittadino o al disoccupato momentaneo e/ involontario.  Il tema del basic income conosce un più deciso decollo solo all’interno della discussione che si dipana con gli anni 70 sulle condizioni istituzionali di sfondo di una società giusta, promossa con il capolavoro del filosofo di Harvard John Rawls “Una teoria della giustizia”, con il quale il mondo accademico fu immesso prepotentemente nelle tematiche del cosiddetto neo-contrattualismo. Prescindendo dalle posizioni di Rawls (mutate nel tempo) lo sforzo di questa corrente nel suo insieme per  fissare i presupposti, anche di ordine sociale, di una cittadinanza democratica autentica, moralmente giustificabile, finiva per porre al centro dell’attenzione non solo le istituzioni del welfare state, ma il suo principale scopo: la cosidetta  freedom from want, la tutela di un ” minimo vitale” per proteggere la dignità di ognuno e così assicurare condizioni accettabili di eguaglianza di opportunità e quindi di partecipazione al gioco sociale e democratico. Questa linea di riflessione filosofica-istituzionale  si è spesso saldata con gli studi sul welfare state europeo (dalle opere di  T. H. Marshall ai teorici della ” demercificazione” dei bisogni primari del Nord europa) e lo ius existentiae ha cominciato ad essere, con sempre maggiore coerenza, declinato come un  diritto fondamentale caratterizzante la sfera della cittadinanza, più che quella lavorativa. Un fundamental right che certamente arricchisce il patrimonio di tutele del lavoratore, ma che ha come titolare il cittadino in quanto appartenente ad una comunità politica. Se la necessità di una garanzia ” pubblica” di “minimi ” adeguati ad una vita dignitosa deriva anche dalle patologie della società del lavoro e dall’essere le regole di quest’ultima in tensione con principi costitutivi della sfera pubblica come l’eguaglianza di opportunità, allora contraddittoriamente non si può subordinare la prima sfera alla seconda e proteggere il cittadino solo perché lavoratore in difficoltà.Sotto questo profilo l’immagine di un  “reddito minimo” in Europa sembra aver fatto molta strada essendo richiamata in molti documenti comunitari,  a carattere programmatico e di indirizzo (Raccomandazioni della Commissione o Risoluzioni del P.E.), o  più propriamente normativo (Carta di Nizza, Carta sociale europea, Carta dei lavoratori comunitari). Certamente nessuno di questi testi ancora assume il basic income nella sua accezione più rigorosa, come diritto spettante a tutti i cittadini europei  in virtù della sola appartenenza a quella comunità politica di tipo sovranazionale che sin dal 1993 ( Trattato di Maastricht) ha riconosciuto l’idea di una “cittadinanza comune”. In genere lo ius existentiae  è visto come un intervento di sostegno per coloro che sono a rischio di esclusione sociale o ancora come una misura diretta a facilitare le transizioni lavorative, in contesti produttivi post- fordisti. Tuttavia sarebbe illogico e antistorico negare che nell’ambito dell’Unione l’utopia concreta del basic income ha gettato importanti basi e premesse istituzionali non secondarie  per ulteriori sviluppi e sperimentazioni.

Le due linee lungo le quali il basic income si è delineato come diritto di fonte europea sono le indicazioni provenienti dal cosiddetto metodo aperto di coordinamento, cioè il sistema di coordinamento delle politiche sociali dei paesi dell’U.E., incentrato sulla promozione delle migliori pratiche per raggiungere gli obiettivi della Lisbon agenda tra cui la lotta contro l’esclusione sociale e le Carte europee dei diritti . Nel primo caso  viene in rilievo il fatto che, nonostante tutti i limiti e le ambiguità degli orientamenti nel settore dell’U.E., le esperienze di flexicurity del Nord europa sono ufficialmente ritenute le più efficaci ed eque, anche se disgraziatamente non vi sono strumenti appropriati per imporle a Stati come l’Italia che con Grecia e Ungheria non assicurano alcuna forma di protezione per la popolazione più povera. Nel secondo caso l’art. 34 della Carta di Nizza assicura “assistenza sociale ed abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti” con una formulazione espressivamente poco riuscita, dalla quale però risulta che tale diritto spetta a “tutti” ( non solo ai lavoratori disoccupati involontari), e che la tutela è prevista in connessione con il meta-valore della dignità della persona (riconosciuto all’art. 1  della Carta) e che quindi non dovrebbe essere condizionata all’obbligo di accettare offerte lavorative. Nel dicembre del  2007 anche la Gue (che raggruppa formazioni della sinistra radicale) ha votato a favore dell’efficacia obbligatoria della Carta in vista dell’approvazione del  Trattato di Lisbona e quindi il consenso di cui questa gode è universale se si escludono i gruppi xenofobi, razzisti e della destra estrema; inoltre le Corti di tutta Europa ad ogni livello la stanno già utilizzando ed applicando. La rivendicazione nelle aule di giustizia del basic income come nuovo diritto di cittadinanza a matrice europea (e del previsto diritto all’abitazione) dovrebbe contribuire ad elidere le misure di work-fare attraverso cui alcuni paesi pretendono di condizionarlo con dispositivi di controllo e di coazione al lavoro, favorendo invece, le sperimentazioni nel Nord -europa scandinavo.  L’idea di politiche attive del lavoro in sé non obbliga affatto a queste misure, ma semmai solo ad accompagnare la tutela del reddito “di base” con la formazione permanente e continua e con l’accesso a funzionanti servizi pubblici e di interesse generale. Insomma se si può accettare come  primo passo che il basic income sia condizionato dal test del “bisogno” è da respingere con forza sin da oggi che le dinamiche del mercato del lavoro possano determinare a chi spetta e per quanto tempo. E’ urgente però mirare più in alto: con la crisi economica internazionale si può tentare il salto verso una competenza propriamente europea in materia (fondata sulle norme dei Trattati sulla coesione sociale), che ancora non c’è. Si è scritto moltissimo sul sostegno alle banche e non alle persone: la richiesta di una forma di elementare “solidarietà paneuropea” che rilanci e dia concretezza ai concetti (sin qui troppo vaghi  e indefiniti) di ” modello sociale europeo” e di cittadinanza dell’Unione è, nonostante tutto, già entrata in agenda. Su questo punto l’Unione rischia lo sfarinamento e la perdita di credibilità  Potrà contare  la causa di un reddito garantito per tutti i residenti in Europa su validi interpreti al Parlamento di Strasburgo?

Pubblicato su: L’altro, 20 maggio 2009

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