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Dieci punti per una discussione sul reddito

di Andrea Fumagalli e Carlo Vercellone

Alla luce dell’evoluzione del dibattito in Italia e in Francia, nell’articolo si cerca di fissare alcuni punti fermi relativi alla proposta di reddito di esistenza

1. La proposta di un reddito di esistenza, individuale, ai residenti, incondizionato e tendenzialmente universale è oramai discussa in Italia da più di un decennio, anche per merito di questa rivista di movimento.

Tuttavia, l’idea di un reddito sganciato dal lavoro incontra ancora numerose difficoltà di comprensione ed è spesso rifiutata avanzando due tipi di critiche.

La prima concerne il carattere eticamente poco accettabile di una netta separazione tra  reddito e lavoro. Questa critica é sovente alla base delle posizioni che oppongono alla rivendicazione di un reddito d’esistenza (o basic income), la proposta di una riduzione uniforme del tempo de lavoro in una prospettiva che esprime, in modo più o meno celato, una nostalgia per il modello fordista di pieno impiego.

La seconda critica, legata ad un’insufficiente conoscenza dei suoi fondamenti teorici, consiste nel giustificare la rivendicazione del reddito d’esistenza (d’ora in poi RdE) con un approccio in termini di fine del lavoro alla Rifkin. Secondo questa interpretazione, la giusticazione principale di un basic income consisterebbe infatti nel fatto che la rivoluzione informatica farebbe dell’impiego una merce rara e, in modo ancor più fondamentale, priverebbe ormai il lavoro del suo ruolo centrale nella produzione di ricchezza. Il basic income é allora concepito come un reddito assistenziale per gli esclusi dalla rivoluzione informatica al fine di regolare un mercato del lavoro sempre più duale.

In questo articolo vorremmo discutere dell’infondatezza di tale critiche in primo luogo da un punto di vista teorico e in secondo luogo, discutere criticamente alcuni dei  provvedimenti di welfare attualmente discussi in Italia e in Francia.

2. E’ noto che con la rivoluzione francese il lavoro diventa attività libera e quindi remunerata. Il rapporto tra prestazione lavorativa e reddito nasce quindi con l’avvento del sistema capitalistico e nasce anche la necessità del lavoro, spesso sbandierato come  fondamento etico per la costruzione della società, ma sempre comunque fattore di subalternità e ricatto. Come scriveva Marx: “il proprietario (della forza-lavoro, ovvero il lavoratore, ndr.) non é solo libero di venderla, ma si trova anche e soprattutto nell’obbligo di farlo”. Occorre quindi analizzare il RdE come strumento in grado di rinforzare la libertà effettiva di scelta della forza lavoro, all’interno dei legami di dipendenza che caratterizzano l’economia capitalista come economia monetaria di produzione.

Da questa concezione derivano due corollari essenziali. In primo luogo, l’importo monetario del reddito di esistenza deve essere sufficientemente elevato (almeno la metà del salario mediano) per permettere di opporsi all’attuale degradazione delle condizioni di lavoro e favorire la mobilità scelta a discapito della mobilità subita sotto la forma di precarietà.  Inoltre, il reddito di esistenza permetterebbe anche un effettiva diminuzione del tempo di lavoro. La garanzia di continuità del reddito permetterebbe infatti all’insieme della popolazione di gestire i passaggi tra diverse forme di lavoro e d’attività riducendo il tempo di lavoro sull’insieme del tempo di vita in modo più efficace che attraverso una riduzione uniforme del tempo di lavoro sulla settimana lavorativa

In secondo luogo, la proposta di reddito di esistenza si iscrive in un progetto più ampio di rinforzamento della logica di demercificazione dell’economia all’origine del sistema di protezione sociale che si propone di completare, salvaguardando le garanzie legate alle istituzioni del Welfare (pensioni, sistema sanitario, indennità di disoccupazione, ecc).

3. Contrariamente alla teoria della fine del lavoro o della società post-industriale, il capitalismo cognitivo (CC) tende sempre più a caratterizzarsi come un sistema economico non solo ad alta intensità di sapere, ma soprattutto di lavoro: un lavoro che viene prevalentemente erogato tramite l’utilizzo combinato delle facoltà cognitive del cervello  e del corpo e che sfugge ai tradizionali indicatori di produttività, né può essere del tutto assimilato alle forme canoniche del lavoro salariato. Questa evoluzione trova la sua origine principale nel modo in cui lo sviluppo di un’intellettualità diffusa e la dimensione cognitiva del lavoro hanno condotto, a livello delle fabbrica come della società, all’affermazione di un nuovo primato dei saperi vivi, mobilizzati dal lavoro, rispetto ai saperi incorporati nel capitale fisso e nell’organizzazione manageriali delle imprese. Da questo deriva anche la crisi del “regime temporale” che all’epoca fordista opponeva rigidamente il tempo di lavoro diretto, effettuato durante l’orario ufficiale di lavoro, e considerato come il solo tempo produttivo, e gli altri tempi sociali dedicati alla riproduzione della forza lavoro, considerati come improduttivi.

Ne conseguono due tendenze. La prima concerne il passaggio da una divisione taylorista ad una divisione cognitiva del lavoro fondata sulla creatività e la capacità d’apprendimento dei lavoratori tramite lo scambio relazionale di conoscenza e saperi. In questo prospettiva, il tempo di lavoro immediato dedicato alla produzione nell’orario ufficiale di lavoro non é più che una frazione del tempo sociale di produzione. Per la sua stessa natura, il lavoro cognitivo si presenta infatti come la combinazione complessa di un’attività di riflessione, di comunicazione e di produzione di sapere che si svolge tanto a monte quanto al di fuori del lavoro immediato di produzione.

La seconda evoluzione ha a che fare con il fatto le condizioni materiali e soggettive di lavoro tendono sempre più a implementarsi con le condizioni materiali e soggettive di vita. Il confine tra lavoro e non-lavoro diventa fluido e ambiguo. Da un lato, il tempo libero non si riduce più alla sola funzione catartica di riproduzione del potenziale energetico della forza lavoro Si articola invece su attività di formazione, di autovalorizzazione, di lavoro volontario nelle reti dell’economia sociale e delle comunità di scambio dei saperi che attraversano le differenti attività umane. Queste sono attività nelle quali ogni individuo trasporta il suo sapere da un tempo sociale all’altro, accrescendo il valore d’uso individuale e collettivo della forza lavoro.

4. La condizione di precarietà è oggi esemplificativa della prestazione lavorativa. Allorché il lavoro, diventando sempre più cognitivo, non può più essere ridotto un semplice dispendio di energia effettuato in un tempo determinato, il vecchio rapporto dialettico tra capitale e lavoro  si ripropone in nuovi termini: non solo il capitale é diventato nuovamente dipendente dai saperi dei lavoratori (problema risolto dal fordismo con la standardizzazione meccanica della produzione e l’operaio massa), ma deve ottenere una disponibilità e un’implicazione attiva dell’insieme dei saperi e dei tempi di vita. La “prescrizione della soggettività”, l’obbligo al risultato, la pressione del cliente insieme alla costrizione pura e semplice legata alla precarietà sono le principali vie trovate dal capitale per tentare di rispondere a questa problema inedito. Le diverse forme di precarizzazione del rapporto salariale sono infatti anche e soprattutto uno strumento per il capitale per imporre e beneficiare gratuitamente di questa subordinazione totale, senza riconoscere e senza pagare il salario corrispondente a questo tempo non integrato e non misurabile nel contratto di lavoro.

Nel capitalismo cognitivo, infatti, la precarietà è, in primo luogo, soggettiva, quindi esistenziale, quindi generalizzata. È condizione strutturale interna al nuovo rapporto tra capitale e lavoro cognitivo, esito della contraddizione tra produzione sociale e individualizzazione del rapporto di lavoro, tra cooperazione sociale e gerarchia.

La precarietà è condizione soggettiva in quanto entra direttamente nella percezione dei singoli in modo differenziato a seconda delle aspettative, degli immaginari e del grado di conoscenza (cultura) posseduti.

La precarietà è condizione esistenziale perché è pervasiva e presente in tutte le attività degli individui e non solo nell’ambito strettamente lavorativo, per di più in un contesto dove è sempre più difficile separare lavoro da non lavoro. Inoltre, perché l’incertezza che la condizione di precarietà crea non trova alcuna forma di assicurazione che prescinda dal comportamento degli stessi individui, a seguito del progressivo smantellamento del welfare state.

La precarietà è condizione generalizzata perché anche chi si trova in una situazione lavorativa stabile e garantita è perfettamente cosciente che tale situazione potrebbe terminare da un momento all’altro in seguito a un qualsiasi processo di ristrutturazione, delocalizzazione, crisi congiunturale, scoppio di una bolla speculativa, ecc. Tale consapevolezza fa sì che il comportamento dei/le lavoratori/trici più garantiti sia di fatto molto simile a quello dei/le lavoratori/trici che vivono oggettivamente e in modo diretto una situazione effettivamente “precaria”. La moltitudine del lavoro è così o direttamente precaria o psicologicamente precaria.

5. Le politiche del lavoro e la dinamica delle relazioni sindacali (siano esse concertative o meno), che nel paradigma industriale-fordista erano ben distinte dalle politiche sociali di welfare, sia concettualmente che operativamente, oggi sono sempre meno in grado di regolare la prestazione lavorativa certificata. Parimenti, lo smantellamento del sistema di welfare e la sua “sussunzione” da parte dei mercati finanziari, è del tutto incapace di far fronte a quelli che sono i reali bisogni sociali. Diventa così sempre più necessario riconoscere che oggi politiche del lavoro e politiche sociali sono due facce della stessa medaglia e non possono più essere considerate separate, pena la loro totale inefficacia. Il legame tra le due politiche (del lavoro e di welfare) sta proprio nel fatto che le politiche di welfare definiscono oggi la regolazione salariale del lavoro mentre le politiche del lavoro incidono sulla regolazione del tempo di vita degli individui. Assistiamo cioè ad un capovolgimento dei tradizionali ambiti di riferimento così come erano individuati nell’ottica fordista-industriale.

6. Numerosi sono gli esempi al riguardo. Il protocollo sul welfare firmato il 23 luglio 2007 è l’introduzione in Italia delle politiche di workfare. Il workfare è un sistema di welfare non universalistico, garantito a chi ha i mezzi monetari per pagarlo, inteso come strumento di assistenza temporaneo e condizionato in attesa di entrare nel mercato del lavoro. E’ strutturato sull’idea di fornire un aiuto di ultima istanza laddove esistono condizioni esistenziali che non consentono di poter lavorare e quindi di accedere a quei diritti che solo la prestazione lavorativa è in grado di fornire. L’idea di workfare è inoltre complementare alla proposta di privatizzazione di buona parte  del welfare pubblico, a partire dalla sanità. dall’istruzione e dalla previdenza, progetto che oggi trova fondamento nel cd. principio di sussidiarietà, secondo il quale nelle materie che non rientrano nella propria competenza esclusiva, livelli di governo superiore (es. lo Stato) possono intervenire soltanto e nella misura in cui gli obiettivi prefissati non possano essere conseguiti in maniera soddisfacente dai livelli di governo inferiore (es. le Regioni). Nella pratica questo principio si traduce nel fatto che l’intervento pubblico può avere una sua ragion d’essere laddove il privato non è in grado o non trova conveniente intervenire.  Il caso della Lombardia è, al riguardo, eclatante. In nome della libertà di scelta del cittadino tra pubblico e privato, vengono sussidiate la sanità e l’istruzione privata e si introducono ticket sanitari e vari aumenti tariffari. Inoltre, il workfare ha come target immediato e parziale solo chi si trova al di fuori del mercato del lavoro, come i disoccupati e i pensionati al minimo sociale e si basa sulla netta distinzione tra politiche sociali e politiche del lavoro. L’idea è ancora quella prettamente fordista con l’aggiunta di una cornice neoliberista, sul modello anglosassone: incentivi al lavoro e stato sociale minimo.

7. Se il protocollo del welfare del 23 luglio scorso può essere considerato un esempio di workfare, i provvedimenti di sostegno diretto al reddito, che a diverso livello territoriale sono stati o si vogliono intraprendere, rimandano ad una forma riverniciata di welfare keynesiano pubblico. L’idea di fondo è che lo Stato dovrebbe farsi carico di garantire a tutti cittadini (ma non ai residenti) un reddito minimo. Essa riconosce che il processo di smantellamento del welfare state combinato con un’eccessiva flessibilizzazione del mercato del lavoro possa avere effetti negativi sul piano ridistributivo, esemplificati dall’aumento della povertà e dal fenomeno dei working poor. In questo caso, il reddito minimo consiste in una erogazione, in forma di sussidio, seppur incondizionato, di un reddito a tutti coloro che, prescindendo dalla condizione professionale (disoccupati o non), si trovano al di sotto della linea di povertà relativa. Una versione più soft è quella che passa sotto il nome di salario garantito (cfr. Commissione Delors, 1993 e Rapporto Supiot, 2003). Si tratta di una misura che è già in vigore in molti paesi europei, come ad esempio la Francia, dove vige il sistema Rmi (Revenue minimum d’insertion) o che viene presentato in questi mesi da un progetto di legge di Rifondazione Comunista.

A differenza della formula del reddito minimo, il salario garantito è assicurato solo per un periodo di tempo limitato e solo ai disoccupati, e in modo condizionato. In Italia, durante il governo di centro-sinistra dal 1997 al 2001, era stata sperimentato la legge Turco sul reddito di inserimento, che garantiva un sostegno al reddito familiari per le famiglie al di sotto della soglia di povertà, per la durata massima di 24 mesi e a patto che ci fosse un impegno concreto alla ricerca di un lavoro o alla frequenza di corsi di riqualificazione professionale, pena il decadimento del sussidio. Sulla stessa falsariga, si muovono anche i provvedimenti legislativi adottato a livello regionale, come in Campania – o in procinto di essere adottati – come in Friuli e nel Lazio. Nel momento stesso in cui si considera il reddito di cittadinanza (perché è questo termine il termine che viene utilizzato in queste proposte di legge regionali) come mero sussidio, all’interno di una cornice nazionale, finalizzato per lo più (e condizionato da ciò) all’inserimento lavorativo, di fatto ci si muove nel solco riformista all’interno di una concezione socio-economica che rimane ancora fordista-keynesiana.

8. Negli ultimi anni, a livello europeo è diventata molto comune la proposta di flexsecurity. Con tale termine si intende la possibilità di essere flessibili senza dover essere necessariamente precari. Flessibilità e precarietà non sono sinonimi. Essere flessibili  significa avere tutti gli strumenti, in termini di apprendimento, formazione, sicurezza e stabilità, per poter essere padroni del proprio tempo e del proprio destino. La flessibilità è frutto di una scelta, e come tale, è necessario che ci siano tutte le condizioni affinché sia possibile una scelta consapevole e libera. Essere precari, al contrario, significa subire le proprie condizioni di lavoro e di vita. La precarietà è l’esatto opposto della flessibilità. Il capitalismo moderno produce eminentemente precarietà.

Il modello della cd. “flesecurity” è una versione che cerca di mediare tra il principio universalistico di accesso ai diritti di protezione sociale e l’obbligo di garantire una contropartita in termini di lavoro: Anche sul termine flexsecurity vi è parecchia confusione, a partire dal come il termine viene scritto. Nel linguaggio accademico e dei politici, si usa la dizione “flexsecurity”, mentre nell’ambito dei movimenti contro la precarietà, si scrive “flexicurity”.

L’esperienza della flexsecurity in Europa (Danimarca e paesi scandinavi), che comunque garantisce a chi ne può godere continuità di reddito e accesso ai servizi sociali, seppur a “tempo determinato”, diventa la versione soft di una politica sociale di workfare, resa possibile dal fatto che vi è un mercato del lavoro sufficientemente omogeneo, un tasso di sindacalizzazione elevato (in quanto i sono i sindacati a gestire parte dei servizi della flexsecurity), un’elevata contribuzione sociale a carico delle imprese, il che consente loro estrema flessibilità nell’uso del lavoro, e un elevato gettito fiscale, con tassi di evasione e elusione contenuti, il che permette un’elevata spesa sociale in assistenza e previdenza.

Si tratta di condizioni che non sono al momento presenti in molti paesi europei, in primo luogo l’Italia.

Se intesa nell’accezione danese, la flexsecurity difficilmente potrà essere esportata e diventare la base per un nuovo patto sociale tra capitale e lavoro. È facile prevedere che in un contesto socio-economico come quello italiano, la sua introduzione si tradurrebbe nella solita politica dei due tempi, che vede, in un primo tempo, l’introduzione di elevata flessibilità (peraltro già presente in dosi massicce) e, solo in secondo tempo, di là da venire, l’introduzione di forme di protezione sociale.

È per questi motivi, che nell’ambito dei movimenti si parla di flexicurity e non flexsecurity. E con ciò si intende una sorta di piattaforma rivendicativa e non piuttosto un piano di concertazione con le controparti sociali. Da questo punto di vista la rivendicazione della flexicurity, da un lato, ha l’obiettivo di definire dei punti irrinunciabili che stanno alla base di un’azione sindacale che parta dai bisogni e dalle esigenze della moltitudine precaria, dall’altro, funge da elemento ricompositivo e da collante delle diverse situazioni di lavoro e di vita che caratterizzano le “singolarità” precarie.

Più nello specifico e in modo concreto, semplice e soprattutto praticabile nell’immediato, la proposta di flexicurity può essere declinata, nella sua versione minimale, in quattro punti[1]:

1.      Garanzia di reddito continuativo (reddito di esistenza):

2.      Accesso ai servizi primari e alla socialità (reddito indiretto)

3.      Salario minimo orario

4.      Drastica contrazione tipologie contrattuali

 

9. Intensa è anche la discussione in Francia, dove è in corso un ampio dibattito sulla riforma del welfare, sulla base delle differenti analisi che derivano dalla trasformazione del mercato del lavoro e dell’evoluzione dello sistema di welfare state di derivazione fordista keynesiana, che è oggi in crisi.  Il nodo principale della discussione verte sul concetto di Sécurité Sociale Professionnelle (SSP), al cui interno si sviluppa anche il tema della continuità di reddito. Si possono distinguere tre linee di proposte che vanno da destra a sinistra.

Il primo tipo di proposta è di tipo “blairista”, ovvero si basa sull’idea che il vecchio sistema di welfare keynesiano è in crisi a causa della precarizzazione del lavoro (riduzione di contributi sociali continuativi): è quindi necessario preparare – “armare” – gli individui al nuovo mercato del lavoro. In questo caso, il discorso sulla sicurezza sociale (Sécurité Sociale) è quello proposto da Sarkozy, con l’appoggio del Medef (la Confindustria francese) e di alcuni esponenti economisti socialisti francesi – ad esempio Toscan. Si tratta dell’equivalente della proposta di riforma del welfare presentata in Italia con il protocollo del 23 luglio, non a caso votata da Confindustria e dal Partito Democratico, oltre che da Cgil-Cisl-Uil. La proposta è di incentivare gli individui a farsi carico della propria sicurezza sociale, tramite l’ottenimento di una continuità di impiego, seppur flessibile. Più in concreto, si vuole attuare una sorta di scambio a livello individuale tra lo Stato che garantisce processi (diritti) di formazione e apprendimento e un alleggerimento dei meccanismi di licenziamenti in grado di permettere una valorizzazione delle competenze in grado di permettere un accesso al mercato del lavoro. Si tratta della versione francese della proposta più volte avanzata da Pietro Ichino e accolta dal Centro-sinistra italiano, e che nulla ha a che fare con il concetto di RdE.

A questa proposta (oggi appoggiata da Sarkozy), si oppone quella della Cgt, l’equivalente sindacale francese della Cgil. Essa consiste nel legare il contratto di lavoro non più al posto di lavoro ma allo stesso individuo. In altre parole, il contratto di lavoro e i diritti che vi sono associati sono legati alla persona indipendentemente dalla durata effettiva del contratto di lavoro con il singolo datore di lavoro. In questo modo verrebbe garantita una continuità di formazione, una continuità di reddito, all’incirca del 90% dello Smig (salario minimo professionale, di circa 1200 euro mensili). Si tratta sicuramente di una proposta innovativa, soprattutto quando si parla di legare i diritti sul e del lavoro alla singola persona (come se fossero diritti di cittadinanza) e mostra come il sindacato francese sia sicuramente meno retrivo di quello italiano. Tuttavia, nei termini così come è stata formulato, tale proposta presenta anche dei rischi. Ammettiamo che il padronato accetti che i diritti sul lavoro siano collegati alla persona e non al contratto di lavoro: nulla però garantisce tuttavia l’incondizionalità di tali diritti. In altre parole, lo scambio che viene proposto è il seguente: il singolo lavoratore mantiene i propri diritti (in termini di reddito, indennità di malattia, pensioni, ecc.) anche quando non ha più il posto di lavoro a patto tuttavia che si renda disponibile a fare tutto ciò che è necessario per essere riassunto in un’altra impresa. Di fatto il contratto di lavoro non si definisce, né si esaurisce nel rapporto tra lavoratore (trice) e singolo imprenditore, ma diventa operativo nel rapporto tra singolo e una collettività di imprese (un padrone collettivo), che può disporre a suo piacimento della disponibilità lavorativa dei singoli individui.  La novità della proposta sta nel collegare i diritti del lavoro non al posto di lavoro, ma all’individuo all’interno di una determinata categoria professionale. Da qui  il termine SSP. Allargare il contratto di lavoro ad una categoria professionale in quanto tale vuole anche dire esplicitare un rapporto di subordinazione che si estende dal padrone individuale a quello collettivo. In questo quadro il padrone collettivo – anche se la Cgt non lo dice e lo nega – potrebbe giungere a determinare i percorsi di riconversione, di formazione, l’utilizzo di tutti i tempi di intermittenza tra un posto di lavoro e l’altro. Da un lato c’è un passo enorme in avanti, perché c’è il riconoscimento che la frontiera tra tempo di lavoro (posto di lavoro) e il tempo di vita (l’individuo) tende a svanire; dall’altro lato, questo riconoscimento viene operato con il rischio esso venga comandato o messo a disposizione dell’impresa.

Partendo dalla proposta Cgt, una serolettivi del precariato francese – Generation precarie, Intermittenti, Confederation Paysanne di Bove, l’unione  sindacale Solidaire, tra le altre –

10. La questione posta dal RdE non é allora solo quella del riconoscimento e della lotta contro questa estensione dello sfruttamento, ma anche e soprattutto quella dell’emancipazione del lavoro dalla sfera della produzione di plusvalore. A questo riguardo, per riprendere un espressione di Gorz, “solo il carattere incondizionato del reddito potrà preservare la piena autonomia delle attività che non possono trovare tutto il loro senso che se compiute per se stesse” e favorire in questo modo la transizione verso un modello non produttivista, fondato sulla preminenza di forme di cooperazione non mercantili e capaci di liberare la società del general intellect dalla logica parassitaria del capitalismo cognitivo.

Tratto da Infoxoa, n° 21 Roma, 2008


[1] L’individuazione di questi punti è il frutto dell’attività di rete che in Italia ha iniziato a svolgersi a partire dai primi anni del secolo XXI all’interno del processo di formazione della MayDay. Più i particolare, si rimanda alle mailing-list PreCog, Neurogreen, Indymedia, ecc. Per un approfondimento, cfr. A.Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo, Carocci, Roma, 2007.

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