Un confronto tra diversi modelli di reddito minimo tra Italia ed Europa
In Belgio è chiamato minimax, è un diritto individuale, garantisce un reddito minimo di circa 650 euro a chi non dispone di risorse sufficienti per vivere. Ne può usufruire chiunque, anche chi ha appena smesso di ricevere il sussidio di disoccupazione. In Lussemburgo, il revenue minimum guaranti, è definito legge universale, un riconoscimento individuale “fino al raggiungimento di una migliore condizione personale”. L’importo è di 1.100 euro mensili. In Austria c’è la sozialhilfe, un minimo garantito che viene aggiunto al sostegno per il cibo, il riscaldamento, l’elettricità e l’affitto per la casa. In Norvegia c’è lo Stønad til livsopphold, letteralmente “reddito di esistenza”, erogato a titolo individuale senza condizione di età, con un importo mensile di oltre 500 euro e la copertura delle spese d’alloggio ed elettricità. In Olanda si chiama Beinstand, è un diritto individuale e si accompagna al sostegno all’affitto, ai trasporti per gli studenti, all’accesso alla cultura. Sempre in Olanda c’è il Wik, un reddito di 500 euro destinato agli artisti per “permettergli di avere tempo di fare arte”.
Insomma, senza fare il giro di tutti i paesi europei, è evidente la lontananza italiana da quell’Europa, che ha affrontato il tema della protezione sociale e del reddito garantito.
Sono forme di intervento diversificate tanto che oggi possiamo parlare di 4 diversi modelli: quello centro europeo, che vede paesi come Belgio e Olanda attuare queste forme già dagli anni settanta del novecento; il modello anglosassone, che ha nella sua specificità le ristrettezze dettate dal means test, che alcuni definiscono forma di controllo vero e proprio sugli individui percettori; quello scandinavo che prevede un ampio ventaglio di interventi sociali tra i quali il sostegno al reddito è uno dei capisaldi.
Ed infine il modello mediterraneo, che vede l’Italia e la Grecia essere gli unici due paesi in Europa a non avere alcuna forma di reddito minimo. Anche la Spagna ha avviato un dibattito nazionale che và nella direzione di proporre forme di reddito sociale.
Per non fare la figura degli esterofili, và detto che queste forme di protezione sociale hanno ciascuna alcune contraddizioni. Il fatto che molti di questi modelli di welfare si siano trasformati in workfare, in cui esiste l’obbligo per i beneficiari ad accettare qualsiasi lavoro pena la sospensione del benefit, porta con se alcune conseguenze come quella di nutrire una grossa fascia di lavori a bassa qualificazione. In questo senso, ad esempio in Belgio, si sono definite delle forme di congruità, in cui un beneficiario del reddito minimo può rifiutare il lavoro offerto se non è congruo al suo inquadramento professionale precedente o alla sua formazione; una sorta di riconoscimento delle competenze acquisite che frena il ribasso professionale e salariale. Così come il means test di fattura inglese, rischia di essere più una forma di controllo che di assistenza sociale. Bisogna però dire che il sostegno al reddito, le forme di protezione sociale, permettono tempi di vita sicuramente diversi e permettono ai cittadini di affrontare la propria quotidianità in modo sicuramente meno pressante e vessatorio.
Il tema del reddito garantito, minimo, di base, di cittadinanza è una delle centralità del dibattito internazionale. Non ultimo, il presidente boliviano Evo Morales, lo pone come una delle riforme cardine, tanto che stà istituendo una legge che garantisce un minimo vitale a tutte le persone sopra i 60 anni e per un paese come la Bolivia questa è più di una buona notizia.
Il tema quindi è di quelli centrali. Le nuove garanzie sociali a fronte delle trasformazioni produttive e del mercato del lavoro, la questione della precarietà e dei diritti sul lavoro e oltre il lavoro, la questione della redistribuzione della ricchezza, la lotta alle nuove povertà ritornano con vigore nel dibattito generale. Anche Prodi, sui giornali, rilancia l’idea di un reddito minimo di cittadinanza e, dopo l’esperienza campana, anche il Lazio stà approntando una legge che và nella direzione di formalizzare un reddito sociale garantito.
Il dibattito intorno a questo tema attraversa diversi ambienti, l’economista Tito Boeri propone un reddito minimo a fronte di una maggiore flessibilità, altri come Van Parijs o Guy Standing rilanciano da anni un basic income per tutti come riconoscimento della produzione oltre il lavoro formale e per la creazione di un modello di welfare attivo a partire da una nuova idea di tempo liberato.
Non ultimi i movimenti sociali che in questi anni, con le mayday, le manifestazioni nazionali per il reddito per tutti e con lo sciopero generale e generalizzato dello scorso novembre, pongono la questione dei diritti sul lavoro e oltre il lavoro: verso la rivendicazione di un reddito garantito.
Nessuno sotto questo punto di vista è stato fermo e questo tema attraverso l’Europa intera. Eppure il rischio è che proprio la politica stenti a dare risposte immediate. Il rischio è di diluire il tema in rivoli infinitesimali, mentre il mercato risponde con i 4×2 per il rilancio dei consumi, con i finanziamenti fino a trentamila euro anche per chi è pignorato, suggerisce di accedere a forme di credito per acquistare il telefonino o pagare la vacanza, la lavatrice o il mutuo di casa. Il rischio di una risposta del mercato alle nuove esigenze emergenti produce un’ economia drogata ed una popolazione sotto continuo ricatto: oltre a quello del lavoro precario, quello del basso salario, anche quello dei soldi, o meglio, degli interessi, da restituire. In Italia c’è una buona percentuale di cittadini indebitati proprio perché ricorrono spesso a finanziamenti per affrontare il loro quotidiano.
Anche Eurostat lancia l’allarme e avverte “che senza massicci interventi di protezione sociale, l’Italia, con i suoi 11 milioni di poveri, rischia nei prossimi anni di vedere il 42% della popolazione rimanere sotto la soglia di povertà“.
Sempre secondo Eurostat (dati 2005) l’Italia spende per il contrasto alla disoccupazione lo 0,4% del Pil contro una media UE del 2,2% e del 3% della sola Germania; per i giovani disoccupati con meno di 25 anni il tasso di copertura, di sostegno al reddito, è dello 0,65% italiano contro il 57% del regno Unito, il 53% della Danimarca ed il 51% del Belgio (dati ItaliaLavoro) e questo malgrado sia aumentata in Italia la zona grigia di chi, tra gli under 25, non cerca più lavoro, non fà formazione, non và più a scuola: oltre 800.000 giovani. Questo dato è aggravato dal fatto che se tra il 1991 e il 1997 la probabilità per un giovane di trovare lavoro a tempo indeterminato era del 40%, oggi si è ridotta al 25%. Secondo una ricerca della Provincia di Roma (2006), la nostra capitale, a confronto con le altre grandi città europee, è l’unica ad avere in attivo il tasso di disoccupazione giovanile in confronto alle opportunità di occupazione. Per concludere con i dati, (Università La Sapienza su dati Inps 2006), il 15% dei precari a carattere nazionale lavorano nella capitale, il 48% sono donne e di queste il 70% denuncia di non arrivare a guadagnare più di 10.000 euro l’anno.
Il tema del reddito garantito dunque è un tema centrale e a partire dalle esperienze europee può essere rilanciato e riformulato come azione di contrasto al ricatto della precarietà, un modo per rifiutare quel contratto sottopagato appena offerto, un freno all’emergenza economica e al disagio di milioni di persone; un aiuto concreto alle famiglie dei working poor che testimoniano l’impossibilità di arrivare a fine mese, un modo per conquistare spicchi di tempo a favore di una maggiore autonomia in grado di aprire nuove opportunità, per fare nuova formazione, per acquisire nuove competenze, per inserirsi nel mercato del lavoro attraverso scelte e non solo obblighi. Sotto questo punto di vista le forme di reddito di base vigenti in molti paesi europei, che pure non vanno lette come la panacea per tutti i nostri mali, visti da quaggiù sembrano una favola.
C’è dunque bisogno di concretezza, non solo per rispondere alla trasformazioni della nostra contemporaneità, ma perchè la questione del reddito garantito in Italia, potrebbe farci sentire un pò meno cittadini europei di serie B.
Tratto da Liberazione, 2008