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may11

Perché il reddito di cittadinanza? Analisi delle motivazioni etico-filosofiche.

di Corrado Del Bò

La caratteristica del reddito di cittadinanza nella versione di cui vi parlo, una versione peraltro diffusa nella filosofia politica di lingua anglosassone, è l’incondizionalità: niente prova di mezzi, niente richieste di lavoro. Questo punto potrebbe qualificare il reddito di cittadinanza quasi come un reddito di esistenza.

Il tema del reddito di cittadinanza tocca alcuni problemi centrali della filosofia politica, perlomeno se intesa come teoria politica normativa, ovvero elaborazioni di criteri di valutazione morale di quella cosa che genericamente chiamiamo politica. Per intenderci e per usare anche qui una definizione molto generale, quella parte dell’interazione umana che riguarda l’allocazione interattiva di vantaggi e svantaggi ai membri di una comunità. L’idea di filosofia politica da cui muovo è un’idea di filosofia politica come riabilitazione degli impegni normativi della filosofia, quindi una riabilitazione rispetto al problema – tremendo, complicato, ma con una storia venerabile – che è quello del dover essere rispetto all’essere.

Il reddito di cittadinanza si inserisce in questo approccio come una questione che è a sua volta parte dei problemi più generali di giustizia distributiva. Il reddito di cittadinanza si inserisce, a mio modo di vedere, molto bene anche per una ragione che – direi – non è esattamente teorica, ma un po’ più pragmatica. Il reddito di cittadinanza infatti – questa è la mia impressione – è essenzialmente un problema morale. E’ ovvio che è un problema economico. Le rappresentanti delle Regioni mi raccontavano della loro esperienza, da cui diventa evidente che c’è un problema di fondi con cui finanziarlo. Ma la mia impressione è comunque che le resistenze rispetto al reddito di cittadinanza siano di tipo morale, in quanto il reddito di cittadinanza viene percepito come una misura “ingiusta” (mettiamolo tra virgolette per il momento questo termine). Viene percepito come una misura “ingiusta” soprattutto se pensiamo alla versione di reddito di cittadinanza che prevede due caratteristiche essenziali: la prima è l’assenza totale di prova dei mezzi, per cui il reddito di cittadinanza viene erogato a tutti, poveri e ricchi (ovviamente ai ricchi poi verrà preso indietro attraverso la normale imposizione fiscale); e viene erogato anche in assenza di una disponibilità a lavorare (intesa come disponibilità a svolgere lavori socialmente utili, ma anche come mancata disponibilità ad accettare un lavoro se questo viene offerto). La caratteristica del reddito di cittadinanza nella versione di cui vi parlo io oggi qui, una versione peraltro diffusa nella filosofia politica di lingua anglosassone, è l’incondizionalità: niente prova di mezzi, niente richieste di lavoro. Questo punto potrebbe qualificare il reddito di cittadinanza quasi come un reddito di esistenza. In effetti, non sono molto simpatetico rispetto all’utilizzo del termine “reddito di cittadinanza”. Per questa ragione: il complemento di specificazione “di cittadinanza” può essere  inteso sia in senso soggettivo sia in senso oggettivo, come ci dicevano quando ci spiegavano l’analisi logica. Può cioè essere visto sia come un reddito destinato ai cittadini e quindi come uno strumento potenzialmente esclusivo, sia come un reddito che viene erogato al fine di favorire l’integrazione sociale e dunque anche la cittadinanza. Ora, è chiaro che noi tutti qui intendiamo il reddito di cittadinanza in questo secondo senso, ma utilizzare il termine “reddito di cittadinanza” potrebbe portare le persone a pensare al primo senso dell’espressione. Questo dal mio punto di vista è un problema sia teorico sia pratico; e per questo io preferisco l’espressione “reddito di base” che traduce l’inglese “basic income” (il francese usa invece “allocation universelle”), appunto per evitare questo genere di problema (non lo farò però nel prosieguo di questo intervento).

Il problema che a me interessa, da un punto di vista strettamente scientifico, è quello di offrire una possibile giustificazione morale al reddito di cittadinanza, nel senso che abbiamo visto prima.

Offrire una giustificazione morale del reddito di cittadinanza come misura incondizionata è un problema particolarmente serio per la teoria politica normativa. Infatti, tralasciando ora la faccenda dell’erogazione a prescindere dalla prova dei mezzi e concentrandosi sull’erogazione scollegata dalla disponibilità ad accettare un lavoro se offerto, il reddito di cittadinanza sfida un’intuizione morale molto forte, che John Rawls, un filosofo americano molto noto, autore di un testo del 1971 tradotto con il titolo di Una teoria della giustizia, ha efficacemente rappresentato nell’idea della società come un equo sistema di cooperazione stabile nel tempo. Perché il sistema di cooperazione sociale sia equo, però, deve valere una sorta di principio di reciprocità, per cui in cambio di una rimessa pubblica, noi dobbiamo essere disposti ad impegnarci a dare qualcosa in cambio; ad esempio, lavoro, ad esempio seguire corsi di formazione per cercare di uscire dalla situazione in cui riceviamo solo la rimessa pubblica. Questa è un’intuizione molto forte. In generale, almeno a livello molto intuitivo, non abbiamo molta simpatia per quelli che non casualmente definiamo “i lavativi”.

Appunto lo scopo di questo mio interesse per il reddito di cittadinanza è quello di cercare di sfidare questa intuizione, far vedere che questa intuizione da un punto di vista strettamente filosofico e politico funziona fino a un certo punto. Allora, se noi vogliamo percorrere questa direzione, secondo me, dobbiamo in primo luogo considerare due tipi di possibili argomenti a sostegno del reddito di cittadinanza. Mi scuso sin d’ora per l’elevato livello di astrazione che mi appresto a propinarvi, ma è solo per definire i problemi morali che stanno dietro alla questione del reddito di cittadinanza e che – qui ovviamente tiro acqua al mio mulino – a me sembrano molto importanti. Il primo tipo di argomenti sono argomenti di carattere essenzialmente consequenzialista; noi valutiamo gli stati del mondo sociale sulla base delle conseguenze, dunque valutiamo anche le azioni e le scelte pubbliche sulla base delle conseguenze che queste azioni e queste scelte determinano sugli stati del mondo. Questi argomenti consequenzialisti, legati alla specifica questione del reddito di cittadinanza, possono essere ad esempio quelli che sostengono che il reddito di cittadinanza è un ottimo strumento per sconfiggere la povertà, oppure un ottimo strumento per favorire l’integrazione sociale, oppure un ottimo strumento per consentire l’emancipazione femminile. L’idea è che – lo dico in maniera un po’ rozza – mettendo soldi nelle tasche delle persone sia possibile raggiungere una serie di obiettivi che a noi come società sembrano moralmente desiderabili. Questa in realtà è la strada che è stata spesso percorsa a sostegno del reddito di cittadinanza, anche, ad esempio, da quello che è il libro di filosofia politica più importante per quanto riguarda il reddito di cittadinanza che è Real Freedom for All (l’autore è un filosofo belga di nome Philippe Van Parijs). In questo testo del 1995 – un testo molto raffinato seppur criticabile in alcuni punti – Van Parijs sostiene la tesi che il reddito di cittadinanza (che lui chiama “basic income”) è un ottimo strumento per consentire la realizzazione della società massimamente libera; il reddito di cittadinanza contribuisce a, ed è anzi decisivo per, aumentare la libertà dei membri di questa società. L’idea di libertà, altro topos della discussione filosoficopolitica contemporanea, viene qui intesa come libertà reale, libertà effettiva, concreta possibilità di fare quello che si vorrebbe poter fare (nel testo di Van Parijs “real freedom”). Anche questa giustificazione, che Van Parijs definisce libertaria, è una giustificazione in ultima analisi consequenzialista: il reddito di base o di cittadinanza è un ottimo strumento per realizzare uno stato del mondo desiderabile. Certo è uno stato del mondo in cui le persone avranno molta libertà e poi potranno scegliere cosa farne; ma sempre consequenzialista è.

Ecco, rispetto a questo tipo di giustificazioni, ho simpatie non teoriche, ma poca attrazione da un punto di vista strettamente scientifico. Il problema che vedo (e lo vedo, consentitemi l’inciso, grazie a una discussione con Ian Carter) è legato al fatto che queste giustificazioni, che vogliono essere giustificazioni di tipo morale, dipendono in misura troppo ampia e troppo contingente da una serie di verifiche empiriche. Se noi vogliamo collegare il mondo dei valori a una politica pubblica concreta, pensando che questa politica pubblica realizza questo ideale valoriale, tutto quello che c’è in mezzo, tutti i passi che portano dall’astratto al concreto sono passi che si possono realizzare effettivamente e che non hanno ulteriori contro-obiezioni? Prendo l’esempio della giustificazione “femminista”, secondo cui il reddito di cittadinanza contribuisca all’emancipazione femminile. In realtà, tra filosofe della politica e filosofe sociali femministe, il punto rimane controverso. E’ controverso in un senso che c’è chi arriva a sostenere la tesi che “sì, dobbiamo introdurre il reddito di cittadinanza se vogliamo ottenere questo specifico obiettivo dell’emancipazione femminile” e c’è chi dice “no, il reddito di cittadinanza non è nemmeno un palliativo”. C’è insomma un profondo disaccordo tra il passaggio dal valore alla sua implementazione. Mi sembra che questi tentativi di giustificazione scontino una serie di limiti empirici, epistemici e forse anche morali che forse spingono, debbono spingerci in una direzione differente, che è poi la direzione che io favorisco. La direzione è quella del secondo tipo di argomenti, quelli che chiamerei argomenti deontologici (non necessariamente anti-consequenzialisti, perché non essere consequenzialisti non significa non essere sensibili alle conseguenze). L’idea è che esiste una priorità di quell’area che solitamente si chiama il “giusto”, rispetto a ciò che viene solitamente definito “bene”. Noi definiamo prima il “giusto” e alla luce di ciò che è giusto vincoliamo gli esiti possibili delle nostre scelte pubbliche e delle nostre azioni pubbliche, anche se questo può portare a esiti che sono meno desiderabili di quelli che si avrebbero se non ci fossero questi vincoli. Meno desiderabili non significa non desiderabili. Son comunque esiti desiderabili. Noi reputiamo però che questi vincoli siano molto importanti vadano comunque rispettati, anche se questo ci porta a delle soluzioni che sono buone soluzioni, ma sono soluzioni – direbbero gli economisti – subottimali dal punto di vista delle conseguenze. L’idea quindi è di pensare, di vedere se il reddito di cittadinanza può essere giustificato da questo punto di vista, cioè se può essere giustificato all’interno di questi vincoli del “giusto” che noi poniamo a monte prima che si concretizzino effettivamente queste azioni e queste scelte pubbliche. A me sembra che questa strada sia una strada promettente e in particolare sia promettente se consideriamo un argomento rispetto al quale sono simpatetico (anche da un punto di vista scientifico questa volta), un argomento libertario.

Faccio due premesse. Adesso mi inoltrerò in lande veramente desolate (ma non desolanti) della filosofia politica e raggiungerò forse dei livelli di astrazione eccessivi rispetto alle vostre aspettative. Vorrei poi fare una precisazione sull’uso del termine “libertario”. In Italia c’è questa idea per cui qualsiasi uso del termine “liberale” o “libertario” denota un “liberista”, quindi, detto in maniera un po’ brutale, un fautore del laissez-faire e, detto in maniera ancora un po’ più brutale, un affamatore dei popoli e uno sfruttatore degli oppressi. In realtà questa via libertaria che vorrei esplorare qui con voi è una via particolarmente attenta alle esigenze redistributive. E’ molto radicale da questo punto di vista ed è anche molto egualitaria sia nei vincoli ex-ante che nei risultati ex-post (noi adesso vedremo solo i vincoli ex-ante). Lo possiamo chiamare libertarismo egualitario. Qual è il punto? Il punto è che noi abbiamo un po’ l’abitudine di pensare alla proprietà come a un fatto non modificabile e non modificabile per ragioni essenzialmente morali. E però questo, da un punto di vista della filosofia politica, è tutt’altro che scontato, nel senso che la filosofia politica in generale, e la via libertaria in particolare, pone invece il problema della proprietà come un problema importante e la cui soluzione è tutt’altro che scontata. Il tema è quello che un noto filosofo inglese del XVII secolo, John Locke, aveva posto nel suo Secondo trattato sul governo civile, cioè il problema di come possa divenire proprietà privata quello che in origine Dio dava in comune a tutti. In Locke c’era questa ipotesi teologica che non è necessario mantenere (l’argomento, se funziona con l’ipotesi teologica, funziona anche senza). La soluzione di Locke è nota: io lavoro su una risorsa (raccolgo prugne, bacche, oppure lavoro la terra), mischio il mio lavoro con queste risorse e dunque queste risorse diventano parte mia; ed ecco che ho giustificato la proprietà privata. Le cose non sono però così semplici come le vedeva Locke, nel senso che noi, partendo dalla medesima situazione di Locke, cioè da una situazione in cui non esistono istituzioni né società politica (i filosofi lo chiamano “stato di natura”), possiamo giungere a esiti diversi. Vediamo come. A partire da questo stato di natura, noi dobbiamo porci il problema che si poneva Locke di quali sono le condizioni che possono giustificare un’appropriazione privata di risorse in origine in comune a tutti. Questo problema che a voi sembra naturalmente molto lontano dal “qui ed ora” è in realtà un presupposto logico dell’attuale distribuzione della proprietà, nel senso che, ad esempio, la casa in cui vivo – mi è stata venduta da qualcuno che a sua volta l’ha acquistata da qualcun altro e questo qualcun altro magari l’ha costruita e per averla costruita ha dovuto appropriarsi di quel pezzo di terra su cui la casa sorge e ha dovuto appropriarsi di tutte le risorse naturali grezze utili a questa costruzione. Quindi noi, anche partendo da una situazione molto concreta della nostra vita quotidiana, vediamo che è possibile risalire a questo problema che i filosofi della politica chiamano appropriazione o acquisizione originaria; ed è lì il punto su cui si pone il problema di giustificare, da un punto di vista etico-politico, la proprietà. Se c’è una possibile giustificazione della proprietà, da un punto di vista che non sia meramente basato su considerazioni consequenzialiste (la proprietà privata garantisce benessere, ecc); se noi siamo alla ricerca di una giustificazione di tipo deontologico, è lì che dobbiamo guardare. E allora l’idea – detta in estrema sintesi e con questa idea mi avvio alle conclusioni – è che qualsiasi appropriazione di risorse naturali grezze, in origine proprietà comune delle persone, su cui nessuno in origine aveva titolo, è possibile solo laddove le persone che vengono escluse da questa appropriazione originaria ricevano in cambio qualcosa, una sorta di risarcimento per questa appropriazione. Allora, se vale quest’idea, se cioè le persone possono appropriarsi di cose nello stato di natura, cose che abbiamo chiamato risorse naturali grezze, è possibile alla sola condizione che le persone che sono escluse da questa appropriazione e che avevano titolo a queste risorse naturali grezze, esattamente quanto avevano titolo le persone che effettivamente se ne sono appropriate, si vedano riconosciuto un risarcimento. Dal mio punto di vista è qui che si situa la possibilità di una giustificazione morale di tipo deontologico – non dico che sia l’unica, ma io tendo a preferire questa – del reddito di cittadinanza. Ed è – questo è un punto importante – una giustificazione che funziona per tutti quanti, cioè è una giustificazione che ha carattere universalista, perché il fatto che io mi sia appropriato in stato di natura di una risorsa naturale grezza ha significato l’esclusione di tutti gli altri, sia quelli che erano disposti ad utilizzare quella risorsa, sia quelli che magari non avevano nessuna intenzione di utilizzarla o non avevano intenzione di lavorarla. L’esclusione dalle risorse in questa situazione originaria è, per così dire, un vulnus che colpisce tutte le persone che si trovano in questa situazione originaria. L’idea è insomma che il reddito di cittadinanza possa funzionare, da un punto di vista della giustificazione morale, come risarcimento per questa appropriazione originaria di risorse in origine disponibili per tutti. Torna utile qui una bella immagine, che compare anche sulla copertina del libro di Van Parijs che ho citato prima: quella del surfista di Malibù. L’idea è che il reddito di cittadinanza deve essere destinato anche al surfista di Malibù, che, poveraccio, non fa senz’altro una brutta vita, anzi tutti quanti noi lo invidiamo molto. L’esempio deriva da un simpatico aneddoto col quale concludo. Nel corso di una conferenza, verso la fine degli anni Ottanta, Van Parijs aveva avuto delle lunghe discussioni con l’altro filosofo che ho nominato, Rawls, e che ha chiesto a Van Parijs: “Ma come, tu vorresti dare il basic income anche al surfista di Malibù?”. E Van Parijs ci ha pensato un po’ sopra e poi ha detto “Sì, anche al surfista di Malibù”. E poi ha scritto un articolo pubblicato su una delle più importanti riviste di filosofia politica del mondo “Philosophy and Public Affairs” che si intitola “Why the Surfers Should Be Fed” e ha pubblicato questo libro “Real Freedom For All” sulla cui copertina campeggia l’immagine del surfista. Ecco, l’immagine del surfista è quello che sfida la nostra intuizione morale. Io credo che prendere sul serio le sfide della filosofia politica significhi anche essere in grado di sfidare queste intuizioni che moralmente, a un primo livello, ci sembrano molto plausibili e vedere se non è possibile elaborare degli argomenti che cerchino di sfidare  queste intuizioni. Quanto poi questi argomenti riescano effettivamente a sfidarle è una faccenda che resta sempre aperta e che, fortunatamente, dà molto lavoro ai filosofi della politica.

Tratto da Seminario sul reddito di cittadinanza; 24 giugno 2005, Trieste, Parco Basaglia.

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