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Scontento e rabbia della generazione precaria che nessuno ascolta

di Peppe Allegri

Nell’ultimo decennio di trasformazioni dell’integrazione comunitaria i nuovi movimenti sociali dell’opinione pubblica europea in formazione hanno posto questioni che le classi dirigenti nazionali e comunitarie non hanno saputo intercettare. Dal ruolo globale dell’Unione europea, all’assenza di un modello sociale continentale adeguato alle generazioni precarie, alle ancora parziali aperture nei processi di partecipazione. L’inadeguatezza del processo di integrazione comunitaria si scontra ora con il radicalizzarsi della crisi economica e le tensioni di un’opinione pubblica in crisi, tra percezione dell’insicurezza, tensioni populiste e riduzione degli spazi di contestazione. I nuovi movimenti potrebbero avere ancora l’occasione per ripensare un Continente, a partire dalla rivendicazione di sistemi di tutele sociali che includano forme di reddito garantito.

Quelle del 7 giugno 2009 saranno le settime elezioni dell’Europarlamento di Strasburgo dal 1979, anno della prima votazione a suffragio universale diretto dell’assemblea parlamentare europea. 30 anni dopo i corpi elettorali degli attuali 27 Stati membri dell’Unione europea votano ciascuno con un sistema elettorale nazionale, in assenza di partiti politici “minimamente” europei e con classi dirigenti nazionali, di governo e di opposizione, che utilizzano queste consultazioni come barometro per valutare il livello di consenso politico interno. Tanto basterebbe per notare che i meccanismi della rappresentanza politica, definitivamente messi in tensione dal plebiscitarismo tardo-populista e iper-mediatico delle società spettacolari nazionali, rimangono ancora congelati nell’idea embrionale di un parlamentarismo comunitario sempre disatteso. In questo trentennio l’integrazione comunitaria si è evoluta nelle forme e nei contenuti, ampliata nell’inclusione della nuova Europa post-1989, sviluppata sulla creatività giurisprudenziale, aperta alla tutela dei diritti fondamentali dei cittadini, accanto alle tradizionali libertà di circolazione di merci, capitali, lavoratori e servizi. Nello stesso trentennio il ciclo perverso delle ricette tardo-liberiste, che da Thatcher (Primo ministro inglese proprio nel 1979) in poi ha invaso il capitalismo globale, è giunto a definitiva maturazione in quella che per ora è, “solamente”, una grande recessione; non ancora una grande depressione (http://thegreatrecession.info/blog/ ).

Durante la lenta agonia che ha accompagnato il decennio della crisi globale inaugurato con Seattle 1999 anche l’Unione europea ha provato ad auto-trasformarsi, tentando un processo di costituzionalizzazione oltre gli Stati, ma ancorato a tecnicismi normativi autoreferenziali, incapaci di coinvolgere le cittadinanze d’Europa, che hanno risposto sempre no, nelle rare volte in cui sono state consultate: francesi e olandesi nella primavera 2005; irlandesi in quella del 2008. E’ possibile assumere quei pronunciamenti referendari negativi al di là della banale interpretazione “euroscettica”; piuttosto come una sorta di rifiuto dello status quo comunitario. In quei “no” si intravede una critica alle incapacità dell’UE di presentarsi come uno spazio politico all’altezza delle crisi economiche, locali e globali, dinanzi alle incertezze dei legami sociali nelle società tardo-moderne e alla radicale trasformazione delle forme di governo e di partecipazione. L’appuntamento mancato tra riforma del funzionalismo economico europeo e affermazione di un processo di costituzionalizzazione comunitario è il fallimento di classi dirigenti nazionali ed europee inadeguate rispetto ai cambiamenti economici, sociali e culturali che gli anni zero del nuovo millennio avrebbero richiesto. Cambiamenti invocati da frammenti attivi di un’opinione pubblica europea plurale, spesso “irrapresentabile”, quanto isolata rispetto al contesto istituzionale. Migliaia di associazioni migranti, movimenti civici, collettivi di precari-e, centri sociali e attivisti new global proprio tra il 2002 e il 2004 avevano dato vita ai tre European Social Forum  di Firenze, Paris, London. Lì prendeva vita l’idea di un’Europa altermondialista, sperimentata dal basso di movimenti costituenti che spingevano per un’altra Europa: quella delle metropoli degli spazi sociali autonomi, del federalismo critico e solidale, della cittadinanza di residenza (riconosciuta a chiunque scelga il Continente europeo come spazio dove condurre una vita dignitosa), dell’autogoverno e dei nuovi diritti. Sono stati gli anni in cui l’auto-organizzata opinione pubblica critica d’Europa provò a immaginare altrimenti un Continente in trasformazione, intercettando anche un confronto con intellettuali che rifiutavano l’unilateralismo statunitense e speravano di poter affermare lo spazio regionale europeo nel contesto globale, anche come mediatore evanescente (Étienne Balibar, proprio in quei mesi). Si pensi al pronunciamento no war della “seconda superpotenza globale”, salutata nel 2003 da Jacques Derrida e Jürgen Habermas come possibile affermazione di un nuovo spazio pubblico europeo. Fu un tentativo vano, che le remissive e ottuse classi dirigenti d’Europa non riuscirono minimamente a comprendere; sicché istituzioni comunitarie e movimenti sociali continuarono nella loro diffidenza reciproca. Così si arriverà ai parziali sommovimenti sociali che hanno attraversato l’Europa tra il 2005-2006 dei movimenti precari italiani e francesi e l’autunno delle banlieues, fino all’Onda anomala di giovani studenti e precari italiani, ai moti di Copenhagen, Malmö e a quelli greci; passando dalla Rostock 2007 dei pirates in black, alle giornate di contestazione del G20 riunito a Londra in questa primavera, alle facoltà occupate in Francia. È un ventaglio di attivismo, a volte sommerso, altre assai visibile, di “nuovissimi” movimenti sociali intermittenti, che urlano in solitudine lo scontento della generazione precaria europea, avanguardia di una condizione di vita sempre più drammaticamente diffusa con la crisi economica. E lo slogan delle May Day Parade 009 svoltesi per il decimo anno in molte città europee (il “Primo maggio” di lavoratrici e lavoratori precari-e, flessibili, intermittenti: http://www.euromayday.org/), insisteva sul “Make them pay”, rivolto a banchieri e governanti. Ma soprattutto rivendicava maggiori diritti sociali, a partire dal reddito garantito – basic income, come risposta all’emergere di quella “nuova” questione sociale, sperimentata dai lavoratori non garantiti nell’ultimo decennio e che ora diviene condizione generalizzata: anche degli impiegati tradizionali, integrati a tempo indeterminato.  Permane una separatezza invalicabile tra le trasformazioni istituzionali dell’UE e l’emergere di nuovissimi movimenti sociali; l’incapacità relazionale di quelle che attualmente sono due debolezze: l’afonia delle classi dirigenti europee e il silenzio, interrotto solo dal rumore di “sogni infranti”, di un’opinione pubblica continentale relegata nella marginalità sociale. Dinanzi all’incertezza della crisi globale si assiste a reazioni conservatrici e securitarie di una post-democrazia populista e impaurita e di governi statali intolleranti e razzisti (pericoli che ci segnalava già nel 2003 Colin Crouch, Post-democrazia). Dall’altra il radicalizzarsi di innovativi movimenti di contestazione culturale, sociale e ambientalista sembra evocare una provocatoria vena di Anarchy in the EU (Alex Foti, Agenzia X, 2009), rispetto alle caotiche incapacità istituzionali dell’Unione. Eppure le istituzioni comunitarie sperimentano da ormai un decennio meccanismi di governance tendenzialmente più aperti rispetto ai precedenti, affrancando le procedure di decisione politica dalle gerarchie dei poteri statali, ripensando le forme di partecipazione al di là delle istituzioni in crisi della mediazione rappresentativa (partitica e sindacale), praticando nuove forme di regolazione giuridica, dinanzi al deperimento della centralità della legge. Ma queste nuove forme di governance comunitaria includono solo porzioni istituzionalizzate dell’opinione pubblica europea, neutralizzate da meccanismi partecipativi poco trasparenti, molto burocratizzati e protetti da possibili contestazioni pubbliche. Si tratterebbe di forzare questo fortino autoreferenziale, sfruttando in modo inedito gli stessi strumenti comunitari. Ma chi lo farà? La prossima legislatura europea, connessa con la formazione della nuova Commissione, sarà disponibile a ripensare il progetto comunitario e a salvare un Continente, inteso anche, ma non solo, come spazio aperto macro-regionale di auto-regolazione giuridica contro la crisi globale?

Trent’anni dopo l’avvio della sbornia neo-liberista, venti dal crollo del muro di Berlino e dieci dalle giornate di Seattle la nuova Unione europea è ancora inadeguata rispetto alla definizione di un modello sociale europeo, alla mancanza di apertura partecipativa del sistema istituzionale comunitario, al ruolo globale che dovrebbe assumere nell’attuale crisi. Sembrerebbero sfide stimolanti per movimenti e forze di una qualche sinistra che verrà. A patto che Europa, movimenti e sinistra vogliano ancora dire qualcosa.

Tratto da EuroVisioni, p. 15, supplemento de il manifesto 3, giugno 2009

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