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Macelleria sociale

di Stefano Rodotà

Un abisso di diseguaglianze si è spalancato davanti alla società italiana, negli stessi giorni in cui veniva certificato un drammatico ritorno della povertà, di cui ha scritto su queste pagine, con i toni giusti, Adriano Sofri. La povertà è certo la condizione che più rende visibile la diseguaglianza. Ma quel che sta avvenendo, soprattutto dopo la manovra finanziaria, è una vera e propria costruzione istituzionale della diseguaglianza che investe un´area sempre più vasta di persone, ben al di là di vecchi e nuovi poveri.
La distribuzione dei “sacrifici” è rivelatrice. Uno stillicidio di balzelli che incide su chi può essere più facilmente colpito, che lima i già ristretti margini dei bilanci familiari. Si è calcolato il peso che avranno gli aumenti di imposte, tariffe, prezzi. Peso insostenibile per taluni, quasi non influente per altri. L´effetto complessivo della manovra peserà per il 13,3% sui redditi bassi e per il 5% su quelli più alti. La rappresentazione della spinta istituzionale verso la diseguaglianza non potrebbe essere più netta.
è così tornata, in ambienti insospettabili, la vecchia espressione “macelleria sociale”. Ma è una macelleria ben selettiva, vista la cura con la quale si è voluto tenere lontano da alcuni ceti anche un contributo poco più che simbolico al risanamento dei conti pubblici. Rivelatrice è la cinica dichiarazione di un ministro della Repubblica che, di fronte alla proposta di un significativo aumento della tassa per le automobili di maggiore cilindrata, ha esclamato: «Ma quelli votano per noi!». Il suo grido di dolore è stato prontamente raccolto, e la platea dei colpiti da quella misura è stata drasticamente ridotta. Mentre troppi diritti vengono messi in discussione, sembra che il solo al quale si deve continuare a dare piena legittimazione sia quel “diritto al lusso”, che fa bella mostra di sé nella pubblicità di alcuni prodotti. Demagogia? O registrazione di una situazione di fatto nella quale si manifestano segni inquietanti di un ritorno della “democrazia censitaria”, dove l´accesso anche a diritti fondamentali è sempre più condizionato dalle risorse di cui ciascuno dispone?
Il caso che illustra più direttamente lo stato delle cose è quello dei ticket sanitari, che rivela una doppia diseguaglianza. La prima nasce dal fatto che il ticket di 10 euro per le prestazioni specialistiche, sommato all´eliminazione della franchigia di 36,15 euro, colpisce pesantemente i redditi più bassi, riguarda impiegati, lavoratori, cassintegrati e, malgrado alcune esenzioni, introduce un pesante filtro selettivo che, ovviamente, produce discriminazione. La seconda diseguaglianza nasce dall´appartenenza regionale. Alcune regioni hanno già deciso di non applicare il ticket, scelta possibile solo nelle regioni più ricche. Si dirà che questo è l´effetto della cattiva amministrazione in materia sanitaria di molte regioni. Ma tutto questo produce una distorsione gravissima. Si trasforma l´accesso al diritto alla salute, il “più fondamentale” tra i diritti fondamentali, in una variabile che lo subordina al reddito e all´appartenenza regionale. A una prova così impegnativa, il federalismo “all´italiana” conferma una delle più serie critiche che erano state avanzate, la costruzione di un paese a velocità variabili in materia di diritti, dunque proprio sul terreno dove l´eguaglianza deve essere massima.
Questa progressiva cacciata dei più deboli dall´area dei diritti non consente la considerazione, consolatoria, che così sempre accade per i provvedimenti generali, che hanno effetti diversi a seconda del reddito delle persone. L´ultima manovra, infatti, avviene in una fase in cui la tutela dei diritti è stata già pesantemente ridotta dalla crisi economica, come mostra uno studio dell´Agenzia europea per i diritti fondamentali del dicembre 2010. Il congiungersi di questi diversi fattori sta creando una situazione in cui si mette in discussione “il diritto all´esistenza”, e si ricacciano le persone in una condizione che le obbliga alla quotidiana ricerca di una precaria sopravvivenza. Non più “l´esistenza libera e dignitosa”, di cui parla l´articolo 36 della Costituzione, ma una esistenza subordinata a una contribuzione diseguale imposta dallo Stato, alle pretese di imprese che svuotano il lavoro di umanità e diritti.
I nostri, infatti, sono i tempi della vita precaria, della sopravvivenza difficile, del lavoro introvabile, delle rinnovate forme di esclusione legate alla condizione d´immigrato, all´etnia. In questo clima, dove massimo dovrebbe essere lo sforzo per produrre quella coesione sociale di cui tanto si parla, si moltiplicano invece i meccanismi di esclusione e di divisione. Poveri e diseguali: questo il nostro destino? La pura logica dei tagli offusca la capacità di progettare, di riflettere ad esempio sulla possibilità di riordinare l´intera materia dei sostegni legati alla disoccupazione per trasformarle in un reddito di base di cittadinanza, come sta accadendo in diversi paesi, mettendo al centro dell´attenzione proprio il diritto all´esistenza come diritto fondamentale della persona (lo ha fatto la Corte costituzionale tedesca).
Tornare a prendere in considerazione l´eguaglianza, la dignità, i diritti fondamentali. Non è un lusso, è la via della saggezza politica in un tempo in cui, altrimenti, i conflitti sociali si trasformano in rifiuto, rivolta. È quel che sta accadendo con la denuncia quotidiana della inaccettabilità dei privilegi di ceti, non solo quello politico, che hanno sempre più legato il loro modo d´essere a una vantaggiosa diseguaglianza. La costruzione oligarchica della società ha trovato la sua base materiale in retribuzioni sproporzionate, in franchigie per concludere qualsiasi affare, in vertiginose crescite della distanza tra i salari dei dipendenti e quelli dei dirigenti (nel caso Fiat è di 1 a 423: non è demagogia, ma informazione, ricordarlo). La questione è al centro delle discussioni di questi giorni, e la ricordo perché, muovendosi con inconsapevolezza, si può dare origine ad un´altra diseguaglianza. Penso, in particolare, a quel particolare costo della politica rappresentato dal finanziamento dei partiti. Innumerevoli vergogne lo hanno accompagnato in questi anni. Ma si torna sulla via maestra cancellandolo? John Rawls, tra i tanti, sottolinea come le risorse pubbliche siano indispensabili per evitare che la politica diventi prigioniera degli interessi privati. Riformiamo profondamente questo strumento, ma evitiamo che l´accesso alla politica sia riservato agli abbienti, per non ricadere nella radicale diseguaglianza della “cittadinanza censitaria”.

Articolo di Stefano Rodotà tratto da La Repubblica del 24 luglio 2011

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