Il reddito minimo costituisce una misura per attenuare gli effetti della povertà, perciò a buon diritto potrebbe essere incorporato nei nostri sistemi di welfare. Perchè non possono essere le condizioni di nascita, naturali o sociali che siano, a dettare quelle che saranno le condizioni di vita individuali di ciascuno di noi
Se ne parla ormai da troppo tempo perché i tempi non possano essere considerati politicamente maturi. Anche Enrico Letta lo ha citato come obiettivo da realizzare nel discorso programmatico del suo governo. E poi dal 2009 c’è l’esperienza della provincia autonoma di Trento: consiste della differenza tra reddito familiare e soglia di povertà, riguarda circa 10.000 nuclei familiari e comporta un esborso di circa 20 milioni di euro. Stiamo parlando, se ancora non si fosse capito, di reddito minimo (RM).
Si tratta, in linea generale, di un trasferimento monetario da erogare a tutti quei soggetti che ricadano sotto la soglia di povertà e per tutto il tempo che dura questa condizione, ferma restando la necessità di abbinarvi forme di riqualificazione lavorativa e il dovere per chi ne beneficia di accettare un lavoro se offerto. L’Italia, assieme alla Grecia, è l’unico paese europeo che non lo prevede a livello nazionale (se ne parla diffusamente nel libro a cura del Bin Italia, Reddito minimo garantito. Un progetto necessario e possibile); e ancora brucia il fallimento del RM d’inserimento, varato sperimentalmente in una quarantina Comuni nel 1998 su impulso della Commissione Onofri e arenatosi definitivamente nel 2003 con il cambio di legislatura. Oggi, complice la crisi e l’aumentato rischio di povertà per più ampie fascie della popolazione, il RM è tornato di moda, anche se viviamo il paradosso per cui la sua introduzione appare più urgente proprio quando è più difficile trovare le risorse per finanziarlo (una recente simulazione di Gianfranco Cerea, su lavoce.info, calcola in oltre 5 miliardi di euro i costi dell’estensione a livello nazionale del “reddito di garanzia” trentino).
Qui di seguito, e ricordando che sbilanciamoci.info ha fatto propria la battaglia per la proposta di legge d’iniziativa popolare sul Reddito minimo garantito, vorrei tuttavia provare a fare un discorso diverso, ovvero dare qualche indicazione sulla giustificazione morale possibile a suo sostegno. Assumo, in queste righe, che il RM sia una misura efficace per la lotta alla povertà. Con ciò non sto affermando che è la miglior misura disponibile o che la sua introduzione automaticamente comporterà la scomparsa della povertà; più modestamente presuppongo che, a parità di altre condizioni, un paese che comprenda tra le misure di welfare un qualche tipo di RM sia meglio in grado di mitigare gli effetti della povertà.
Provare a giustificare il RM significa porre una questione di grande portata: a quali condizioni, e perché, lo Stato dovrebbe essere moralmente autorizzato a prendere risorse da alcuni (via imposizione fiscale) per darle ad altri (via prestazioni di welfare)? Ad alcuni questa potrà apparire una domanda oziosa: la povertà è una bestia troppo brutta per mettersi a fare sottili distinzioni analitiche o per produrre sofisticati argomenti morali. Ma ad altri, io tra questi, l’interrogativo appare esiziale non soltanto sul piano filosofico, ma anche e soprattutto su quello politico: elaborare argomenti che possano persuadere individui ragionevoli e in buona fede sembra dopotutto premessa necessaria per rafforzare prassi politiche ridistributive.
Una possibile risposta è quella di John Rawls: le società politiche devono essere viste come forme di cooperazione stabili nel tempo, ai quali gli individui aderiscono lealmente nella misura in cui sono ripartiti equamente gli oneri e i benefici di tale cooperazione. L’equità, che Rawls fa discendere da una riformulazione dell’idea del contratto sociale, rimanda a un punto che prima di Rawls non era quasi mai stato rimarcato con chiarezza. L’essere un certo tipo di persona dipende da una serie di fatti contingenti, alcuni naturali (come la prestanza fisica o le qualità intellettuali), altri sociali (come la famiglia da cui si proviene o la posizione che si occupa nella società): dobbiamo accettare che questi fatti contingenti definiscano la distribuzione dei vantaggi e degli svantaggi sociali o dobbiamo invece mitigare il loro impatto, non beninteso a scopi punitivi ma solamente per garantire le precondizioni dell’eguale cittadinanza democratica? Il poderoso edificio teorico tirato su da Rawls nel 1971 con Una teoria della giustizia può essere letto anche come un grande affresco delle ragioni che giustificano la ridistribuzione economica, in un quadro in ogni caso vincolato al rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali.
Un punto abbastanza ovvio da replicare è che almeno alcune ridistribuzioni non possono non considerare i modi di partecipazione dell’individuo: le persone devono almeno in certi casi portare la responsabilità delle proprie scelte. Così, nel caso del RM, vincolare come in Trentino il sussidio alla disponibilità ad accettare un lavoro, se offerto, pena il venir meno del sussidio, appare un modo per dare corpo a questa intuizione: io, Stato, destino a te, individuo in condizione di povertà, una quota del mio bilancio, poiché hai, poniamo, perso il lavoro e non hai di che mantenerti; e non sei responsabile della perdita del lavoro, perlomeno se ciò è conseguenza di meccanismi economici che sono al di fuori del controllo individuale. Ma se ti offro un lavoro e tu lo rifiuti, la tua povertà non è più un problema di cui ho il dovere di farmi carico.
Le teorie politiche normative post-rawlsiane hanno più o meno tutte cercato di fare i conti con questo punto: fino a che punto si estendono i doveri di assistenza dello Stato e quando entra in gioco la responsabilità individuale? Teorie come quelle di Ronald Dworkin (cfr., per esempio, Virtù sovrana. Teoria dell’eguaglianza) hanno cercato di catturare il punto distinguendo tra scelte, i cui costi devono essere sopportati dall’individuo, e circostanze, che invece tocca alla società in un qualche senso rimediare; e in generale un po’ tutte le teorie contemporanee della giustizia distributiva hanno cercato di bilanciare i doveri di solidarietà con l’impegno individuale, per esempio insistendo sull’idea della eguale libertà (come ha fatto Ian Carter, La libertà eguale). Ma il punto segnalato da Rawls è rimasto in ogni caso in piedi: non possono essere le condizioni di nascita, naturali o sociali che siano, a dettare quella che saranno le condizioni di vita individuali. E il RM ben si inserisce in questa linea di pensiero, se vale il presupposto da cui siamo partiti, ovvero se esso costituisce una misura efficace per attenuare gli effetti della povertà.
Dal punto di vista morale, dunque, se è possibile giustificare lo stato sociale e se il RM viene agganciato a qualche forma di responsabilità individuale, non abbiamo bisogno di grandi rivoluzioni etiche per incorporarlo nei nostri sistemi di welfare. Diverso sarebbe il discorso per il reddito di cittadinanza, che è incondizionato tanto rispetto al reddito quanto rispetto alla disponibilità a lavorare. Altrove ho difeso l’ipotesi (cfr. il mio Un reddito per tutti. Un’introduzione al basic income), che pure è obiettivo di medio periodo di sbilanciamoci.info. Ma questa, come direbbe qualcuno, è un’altra storia.
Tratto da Sbilanciamoci.info