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Europa sociale, togliamo il welfare agli Stati

di Giuseppe Bronzini

La scommessa oggi è quella di costruire un welfare europeo che sia il sostrato contenutistico dell’auspicata Europa unita

Il 15 Marzo il Parlamento europeo ha approvato due Risoluzioni sul ruolo della Troika nelle politiche di gestione della crisi e di ” assistenza” ai paesi in difficoltà alla dinamite. Sintetizzando: a) l’internazionalizzazione delle misure di risanamento e la loro implementazione al di fuori del diritto dell’Unione le ha rese non trasparenti e refrattarie ad ogni controllo democratico, interno o sovranazionale 2) il loro risultato si è rivelato a dir poco discutibile posto che le analisi economiche tendono a mostrare come l’austerity abbia, alla fine, aggravato la situazione 3) le scelte compiute dalla Troika sono state inique e socialmente irresponsabili. I soggetti a rischio di esclusione sociale sono aumentati ovunque anche perché, a monte, nessuna seria valutazione dell’impatto sulle popolazioni coinvolte era stato effettuato. L’obiettivo della Strategia 20-20 di riduzione del 20% il numero dei poveri viene in questi paesi realizzato all’inverso. 4) Le cosidette recovery measures violano platealmente la Carta dei diritti dell’Ue e le Convenzioni internazionali. Insomma macelleria sociale di dubbia legalità. E’ certamente ironico che parole così forti siano state pronunciate da un organo in scadenza, che quando doveva e poteva farlo ha ceduto il comando al Consiglio europeo e, per esso, al Direttorio della Germania e dei suoi stretti alleati. Si spera che il nominando Parlamento vorrà ribellarsi, se del caso, non a cose fatte e che sappia davvero agire l’interesse generale dei cittadini europei in una veste meno subalterna alle scelte dei Governi più forti.

Tuttavia le indicazioni dell’Assemblea di Strasburgo trascendono il piano della critica tardiva delle politiche del rigore e dei sacrifici. Si cerca di guardare al futuro e di prefigurare un diverso scenario di un’Europa più sensibile alle questioni sociali, in particolare nella garanzia di alcuni diritti “di base”. Questa è oggi la questione centrale: la leva per arrivare davvero ad una entità politica sovranazionale. Quel che vediamo è non solo una frattura istituzionale, tra paesi che hanno una moneta comune e gli altri, tra l’architettura del diritto comunitario e quella del “diritto dell’emergenza economica”consegnata in Trattati internazionali come il Fiscal compact, tra la regolamentazione ordinaria sindacabile alla luce della Carta di Nizza e le misure adottate dalla Troika che le due Corti europee (Strasburgo e Lussemburgo) si sono rifiutate di condannare come ingiuste.

Si è generata anche un’impressionante frattura sociale tra due Europe: quella florida e ben attrezzata del Nord e quella asfissiata da problemi di risanamento del Sud, frutto – per dirla con Habermas -“l’oscena iniquità delle conseguenze della crisi” che, con l’attuale sistema, avvantaggia le economie più forti ed immerge quelle più deboli in una spirale di miseria. Mancano infatti a quel sistema elementari misure di solidarietà e di coesione pan-europea capaci di riequilibrare le asimmetrie e di far convergere i singoli paesi in una condivisa linea di innovazione evolutiva. A Lisbona nel 2000 si decise che crescita, occupazione ed inclusione sociale dovessero marciare insieme. Non attraverso atti vincolanti ed un “governo economico” europeo, ma con lo strumento del coordinamento delle politiche interne. L’idea sottesa era che un mercato unico senza la predisposizione di una rete unitaria di protezioni sociali non può reggere, così come in prospettiva non può essere credibile una moneta unica con gli Stati che fanno social dumping tra di loro, cercando di attirare investimenti alleggerendo il loro welfare. Un gioco del genere non può, nel tempo, che avere effetti distruttivi, persino per lo zoccolo mercatistico dell’integrazione continentale. Si cercò allora di individuare quali fossero le misure sociali più inclusive ed al tempo stesso più efficienti; attraverso anni di confronto e di valutazione congiunta delle scelte nazionali (con il cosidetto “metodo aperto di coordinamento”) si sono selezionate le best practises europee, quelle politiche che sanno davvero fortificare le capabilities individuali e promuovere le scelte dei singoli senza relegarli necessariamente nella camicia di forza di relazioni contrattuali rigide e mortificanti la loro creatività. Si è acquisita la consapevolezza della necessità di sistemi di welfare mutuati sul “cittadino-laborioso” e non sulla figura di lavoratore “standard” oggi declinante nella fine della “società dell’impiego” preconizzata da Alain Supiot già nel 1999. Senonché questo, in sé grandioso, processo di autochiarimento ha generato solo indicazioni, non obblighi giuridici vincolanti. Italia e Grecia, ad esempio, le hanno bellamente ignorate.

Dal 1998 ad oggi si discute in Italia dell’introduzione di una forma di garanzia universalistica dei minimi vitali; oggi si sono trovati (si è detto) 10 miliardi che però saranno elargiti a chi ha già un lavoro fisso, ancorché poco retribuito, lasciando senza alcuna protezione (nonostante i solenni ammonimenti dell’Ue e del Consiglio d’Europa) milioni di indigenti. Allentare o rimuovere le politiche dell’austerity, quindi, non deve significare tornare alla piena discrezionalità nazionale, soprattutto per i paesi che l’hanno utilizzata così malamente. La scommessa è un’altra: è quella della costruzione tendenziale di un welfare europeo che sia il sostrato contenutistico dell’auspicata Europa unita. L’opinione pubblica è allarmata dalle politiche del rigore dell’Unione e quindi sempre più indisponibile a cedere altre porzioni di sovranità, soprattutto nel campo della protezione sociale. Ma se vi fosse un deciso “cambio di passo” l’Unione potrebbe tranquillizzare i suoi cittadini mostrando come sia possibile una tutela sovranazionale che offra una protezione ed una sicurezza “di base” ai residenti nel vecchio continente. Si dovrebbe pertanto, insieme allo studio dei modi di rilancio del “Progetto costituzionale europeo”, compiere uno sforzo propositivo su poche misure di natura sociale, ma simbolicamente eclatanti e convincenti per la loro incisività, per recuperare il favore popolare. Una Carta di rivendicazioni sociali; reddito minimo garantito, salario minimo, un sistema unitario di assicurazione contro la disoccupazione, regole sui servizi di interesse pubblico e sui beni comuni. Ancora misure promozionali delle associazioni sindacali e di quelle no- profit che rafforzino l’agonizzante dialogo sociale a livello continentale. Esistono promettenti dossieur europei sulla lotta al lavoro nero, sulla definizione di un modello unitario e generale di “contratto di lavoro” non schiacciato sullo schema della “subordinazione”, sulla protezione del lavoro autonomo etc. Alcune di queste misure (ad esempio il reddito minimo) potrebbero essere, in parte, finanziate direttamente dall’Unione sulla base di entrate proprie ( carbon tax , corporation tax), senza neppure sconvolgere l’attuale architettura dei Trattati. Sino ad oggi la polemica antisovranista si è concentrata sull’essere gli Stati “signori dei Trattati” (il potere di decidere le regole fondamentali del gioco istituzionale europeo). Ma a ben guardare sono anche protervi “signori della solidarietà”: nei welfare moderni, infatti, la lealtà ed il consenso politico sono scambiati, come bene mostrò Claus Offe negli anni 70, con le prestazioni sociali. Privare le classi politiche nazionali di questo meccanismo di legittimazione, ridislocandolo a livello sovranazionale, forse, ci avvicinerebbe davvero ad un destino federale.

Tratto da Sbilanciamoci.info 4 aprile 2014

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