Introduzione
La crisi pandemica è stata un grande stress test per molte delle nostre istituzioni politiche e sociali. Se ce ne fosse ancora stato bisogno, essa ha evidenziato i problemi storici del nostro sistema di welfare, ingarbugliato da strumenti che si sovrappongono, condizionalità di vario tipo, confusione di obiettivi, categorialità degli interventi.
La necessità di trovare risposte alle pressanti richieste di molti cittadini in situazioni di disagio ha condotto nei mesi passati a cercare soluzioni che, per quanto temporanee, sono state in grado di raggiungere in modo abbastanza veloce i diretti interessati e scongiurare il peggio. Ci riferiamo in particolare al reddito di emergenza[1] che, modellato sul già operante reddito di cittadinanza (RdC), privato degli obblighi di attivazione, ha dimostrato l’adattabilità di quest’ultimo insieme ad alcuni suoi pregi, in particolare la capacità di venire rapidamente incontro a situazioni di carenza reddituale che avrebbero potuto trasformare l’Italia della pandemia in una polveriera sociale.
Pregi e difetti del reddito di cittadinanza italiano
Negli ultimi anni lo stato sociale italiano ha mostrato alcuni timidi segni di semplificazione del suo complesso sistema di sostegni al reddito. Da un sistema categoriale, che prevedeva interventi diversi a seconda dei tipi di lavoro e di contratto e della propria condizione familiare, ci si è indirizzati verso quello che Stefano Toso ha definito universalismo selettivo[2]. Un concetto, quest’ultimo, che indica misure rivolte a chi versa in stato di bisogno (selettività), ma senza richiedere ulteriori specificazioni riguardo lo status personale (disoccupato, poor worker, genitore, single ecc), e in tal senso universale. Del resto, tutti i welfare state europei si sono da tempo incamminati lungo una strada simile; è la strada indicata dal Pilastro europeo dei diritti sociali che, raccogliendo le buone pratiche europee e nel tentativo di uniformare il più possibile i sistemi sociali del continente, al punto 14 afferma che “chiunque non disponga di risorse sufficienti ha diritto a un adeguato reddito minimo che garantisca una vita dignitosa in tutte le fasi della vita e l’accesso a beni e servizi. Per chi può lavorare, il reddito minimo dovrebbe essere combinato con incentivi alla (re)integrazione nel mercato del lavoro”[3].
Tra gli ultimi paesi dell’Unione europea, l’Italia ha recepito questo elemento introducendo nel 2017 il Reddito di Inclusione, poi potenziato e trasformato due anni dopo nell’attuale Reddito di Cittadinanza. Il 9 novembre 2020 il Ministero del lavoro ha presentato il primo report sull’andamento della misura riferito al 2019, quindi prima della pandemia[4].
Valutando questi dati con i criteri stabiliti dal Policy Department A: Economic and Scientific Policy per gli schemi di reddito minimo nell’Unione europea[5], cioè secondo il tasso di fruizione, l’adeguatezza e la copertura, emerge come il RdC sia tra le misure di welfare italiane che ha ottenuto il maggiore tasso di fruizione tra quelle di contrasto alla povertà implementate finora. Si tratta di un tasso intorno all’89% degli aventi diritto (sebbene la fruizione tra gli stranieri si abbassi drasticamente), una percentuale che include un totale di 700 mila minori, presenti nel 30% dei nuclei familiari percettori di RdC. Questo è un elemento su cui il Ministero del lavoro ha posto particolare enfasi: “il reddito di cittadinanza offre un’opportunità senza precedenti per rompere finalmente il meccanismo di trasmissione intergenerazionale delle povertà. Oggi il nostro Paese ha così la possibilità di avviare un serio percorso di mobilità sociale[6]”. Una fruizione così alta è stata resa possibile dalla relativa semplicità nella richiesta e l’ampia pubblicità data a questo nuovo strumento di welfare, sebbene sia necessario fare di più per coinvolgere gli stranieri aventi diritto.
Sul versante della copertura, dal report risulta che nessuna domanda è stata rifiutata per carenza di fondi; le risorse investite sono dunque risultate sufficienti a conferire il RdC a tutti gli aventi diritto che lo hanno richiesto. Al contrario, una prima criticità può essere riscontrata nel terzo criterio: l’adeguatezza. Gli importi degli assegni versati sono ben lungi dal “cancellare la povertà”, come da qualcuno entusiasticamente affermato al momento del varo della manovra, permettendo solo di ridurne l’intensità.
Ma il punto maggiormente dolente del RdC è quello che riguarda il versante delle politiche attive, su cui il report del Ministero del lavoro tace completamente. L’11 novembre 2020 ANPAL ha fatto circolare una Nota statistica interna nella quale venivano indicati i numeri relativi ai beneficiari del RdC che “hanno avuto almeno un rapporto di lavoro”: nello specifico, al 31 ottobre 2020, circa un percettore di RdC su quattro (tra quelli tenuti alla sottoscrizione del patto per il lavoro) ha avviato almeno un rapporto di lavoro successivamente alla richiesta di RdC; la maggior parte di questi contratti risulta essere a tempo determinato e non è chiaro se siano stato trovati attraverso percorsi di ricerca personali o grazie all’attività dei centri dell’impiego e dei navigator previsti dal RdC.
L’obiezione “Homer Simpson” e la proposta di un child basic income.
La stampa ha dato negli scorsi mesi molto spazio al supposto “fallimento del RdC” ma, a ben guardare, è chiaro come il fallimento non sia della misura nella sua interezza, ma dell’aspetto delle politiche attive. Il RdC è stato capace di raggiungere molto più di altre precedenti misure il gruppo target, del quale ha certamente migliorato le condizioni economiche, anche se non è stato altrettanto capace di trovare lavoro ai percettori del RdC. Si tratta però di un problema che va ben oltre la misura in questione. Pur mettendo da parte la pesante incidenza della pandemia sul mondo del lavoro, è vero che anche in passato, e anche per misure simili del resto d’Europa, le politiche attive del lavoro per chi accede a forme di reddito di ultima istanza (quali il RdC) hanno avuto un esito positivo in una percentuale molto ridotta di casi[7]. Infatti, chi giunge a richiedere queste forme di sostegno, che per definizione sono accessibili a coloro che hanno già esperito tutte le altre strade (dalla ricerca personale di un nuovo lavoro, agli enti per l’impiego, agli assegni di disoccupazione ecc), ha un tasso di occupabilità molto basso e risulta poco o per niente appetibile per il mercato del lavoro.
Perché allora questa forte insistenza a includere all’interno di schemi di sostegno al reddito e contrasto alla povertà le politiche di attivazione? Perché non distinguere in maniera netta le politiche pubbliche atte a raggiungere questi due importanti obiettivi? La risposta è probabilmente da rintracciare in un’intuizione etico-politica fortemente radicata, secondo la quale tutti coloro che ricevono un sostegno pubblico devono ricambiare questa “generosità” attraverso la disponibilità a lavorare, mentre coloro che non lavorano sono per certi versi “colpevoli” del loro stato e devono essere spinti fuori dall’apatia tramite un soft-nudge (non sempre soft).
In un nostro precedente contributo, ci siamo concentrati su questo aspetto, rappresentandolo nella figura di Homer Simpson quale prototipo di ogni fannullone che invece di industriarsi per fare qualcosa di buono nella vita trova ogni escamotage per godere dei benefici offerti dalle varie scappatoie legali e contrattuali, e così restare a bersi una birra sul divano[8]. Sembra a prima vista più che giustificato che gli Homer Simpson di questo mondo siano esclusi dal ricevere fondi pubblici e che quando li ricevono siano spronati (se non obbligati) a offrire il proprio contributo alla società; se così non si facesse, allora tutti ci trasformeremmo in Homer e la nostra società andrebbe presto in malora.
Non è questa la sede per ritornare sugli argomenti che mostrano i limiti teorici della diffusa percezione della necessità di reciprocità per far funzionare le nostre società complesse[9]. Il punto su cui vogliamo qui portare l’attenzione è di altro tipo, relativo alla forza “politica” di questa obiezione e alla correlata difficoltà di creare un fronte favorevole alla cancellazione delle condizionalità degli schemi di reddito minimo.
Se l’obiettivo è costruire consenso politico attorno a una misura di trasferimenti incondizionati, il superamento di un’intuizione tanto radicata nel sentire comune e che richiede di connettere gli interventi di welfare alla disponibilità al lavoro non può verosimilmente essere affrontata di petto, ma deve in un certo qual modo essere aggirata. E può esserlo solo mostrando indirettamente come un reddito incondizionato, versato a un’ampia fascia di popolazione e senza il previo controllo della condizione economica, funzioni anche escludendo obblighi di attivazione. Ciò si potrebbe realizzare agganciando le istanze dei trasferimenti incondizionati non agli adulti, bensì ai minori e ai figli a carico. Come cambierebbe, infatti, il nostro giudizio se al posto di concentrarci su Homer Simpson spostassimo la nostra attenzione su suo figlio Bart?
Chi conosce la longeva serie animata dei Simpson sa bene come anche Bart non sia un figlio perfetto e come anche lui rifugga, al pari del padre, ogni impegno o dovere. Eppure, osservando i comportamenti di Homer e Bart, sotto molti aspetti simili, non esprimiamo per essi lo stesso giudizio; mentre siamo pronti a derubricare a “monelleria” la simulazione di una febbre da parte di Bart per saltare la scuola, saremmo tutti d’accordo a sottrarre ad Homer l’indennità per malattia, se fingesse di stare male per restare a casa a vedere il football. Prese in sé, le due azioni sono del tutto equivalenti, l’unica differenza è nell’età del soggetto che le compie: nessuno di noi si aspetta da un ragazzo lo stesso rigore nel rispetto dei doveri sociali che invece sentiamo di dover richiedere a un adulto.
In Italia esiste da sempre un consenso ampio a favore delle politiche familiari e di contrasto alla denatalità. A questo consenso diffuso si devono poi aggiungere due importanti considerazioni. La prima è il fatto inequivocabile della trasmissione intergenerazionale della povertà: è più probabile che a formare i nuclei familiari poveri di domani siano i figli dei genitori in condizione di povertà oggi. La seconda, confermata dai dati ISTAT degli ultimi anni, è l’aumento nel nostro Paese del numero di minori a rischio povertà o in nuclei familiari che sono già in stato di povertà assoluta o relativa.
Per questo un child basic income, ovvero un reddito incondizionato per minori e figli a carico, permetterebbe di sperimentare il funzionamento di un istituto di welfare incondizionato aggirando sul piano politico il problema della reciprocità. Come la nostra reazione davanti alle marachelle di Bart dimostra, c’è ampio consenso sociale sul fatto che i minori debbano essere oggetto di investimento e cura senza essere considerati responsabili della propria condizione di povertà.
Se, dati alla mano, questa misura contribuisse a migliorare le condizioni economiche dei minori e dei loro nuclei familiari e a interrompere la trasmissione intergenerazionale della povertà, senza intaccare in modo sensibile la propensione al lavoro dei genitori, ciò potrebbe produrre un consenso politico e sociale più ampio verso misure di welfare incondizionato, un consenso che potrebbe essere speso a sostegno del reddito di base “classico”.
Dall’assegno unico universale al reddito di base?
Alla luce di queste considerazioni, la misura che più dovrebbe attirare l’attenzione dei fautori di un reddito di base universale e incondizionato in Italia non dovrebbe essere il RdC, ma il nuovo assegno unico universale. Introdotto con la Legge 46/2021, esso unifica una serie di aiuti economici frammentati in diverse misure ed è destinato a tutti i nuclei familiari con figli, senza valutazioni sulla condizione lavorativa dei genitori, sebbene gli importi siano differenziati per condizione economica (tramite ISEE) e numero di figli a carico. Il contributo non riguarda solo i minori, ma prevede di essere erogato sino all’età di 21 anni, coprendo dunque anche gli anni generalmente dedicati alla formazione superiore dei figli, se ancora a carico dei genitori; inoltre, in caso di disabilità, l’assegno continuerà a essere erogato anche oltre il compimento del ventunesimo anno di età. I soggetti percipienti (i tutori dei destinatari, quindi di norma padre e madre in egual misura) potranno chiedere di ricevere l’assegno o come erogazione diretta o tramite un credito di imposta.
Sebbene si tratti di una misura rientrante in quella logica di universalismo selettivo di cui dicevamo, specie se confrontata con il RdC, la struttura dell’assegno unico universale ci sembra più prossima al reddito di base, ovvero un trasferimento monetario, finanziato dalla fiscalità generale ed erogato dallo Stato a tutti su base individuale (e non familiare), indipendentemente dalle condizioni economiche e dalla disponibilità ad accettare un lavoro se offerto[10]. Per rendere questa misura un vero child basic income occorrerebbe alcune modifiche, che non è qui il caso di approfondire nei dettagli[11]. Il punto che a noi interessa è che essa consentirebbe di aggirare l’obiezione della reciprocità anche e soprattutto sul piano del consenso politico, proprio perché i minori, per le ragioni già descritte, non sono tenuti ad attivarsi per essere economicamente indipendenti dallo Stato o dai loro genitori, così come non possono essere considerati responsabili della condizione di ricchezza o povertà nella quale versano. Inoltre, giungendo a un vasto numero di cittadini – nuclei familiari, a regime il sistema potrebbe fornirci dati più convincenti e statisticamente rilevanti rispetto ai pilot project realizzati fino ad oggi in varie parti del mondo[12]. L’ubiquità dei riceventi sul territorio nazionale, l’appartenenza a diverse fasce di reddito e il suo finanziamento nell’ambito della tassazione generale, ci consentirebbe infatti di capire meglio se un universalismo incondizionato nel sostegno al reddito possa nel suo complesso considerarsi superiore rispetto ai sistemi di welfare attuali che ancora vincolano gli strumenti di aiuto all’obbligo lavorativo, svolgendo così un ruolo di apripista a proposte ancora più radicali quali quella di un reddito garantito e incondizionato per tutti.
Note
[1] Il Reddito di emergenza è una misura di sostegno economico istituita con l’articolo 82 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Decreto Rilancio) in favore dei nuclei familiari in difficoltà nell’emergenza epidemiologica da Covid-19. È riconosciuto ai nuclei familiari in possesso dei requisiti socio-economici previsti dalla legge e che non risultano già tra i riceventi del reddito di cittadinanza o altre forme di sostegno economico.
[2] S. Toso, Reddito di cittadinanza o reddito minimo?, Il Mulino, Bologna 2016, 69-73.
[3] Pilastro europeo dei diritti sociali: https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/economy-works-people/jobs-growth-and-investment/european-pillar-social-rights/european-pillar-social-rights-20-principles_it
[4] Ministero del Lavoro, Reddito di cittadinanza Rapporto Annuale 2020 relativo all’anno 2019: https://www.lavoro.gov.it/notizie/Documents/Rapporto-annuale-Reddito-di-cittadinanza-2020.pdf
[5] Policy Department A: Economic and Scientific Policy, Minimum Income Policies in Eu Member States, 2017: https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2017/595365/IPOL_STU%282017%29595365_EN.pdf
[6] Ministero del Lavoro, Reddito di cittadinanza Rapporto Annuale 2020 relativo all’anno 2019, 6. Tuttavia, secondo i dati disponibili, il RdC riduce si per tutti i riceventi l’intensità della povertà, ma non permette a tutti di superare le soglie della povertà, sia assoluta sia relativa, con “cambi di status” che si aggirano intorno a 1-2 punti percentuali.
[7] Uno studio di casi emblematici di Regno Unito, Francia e Germania, sintetico ma chiaro, si può leggere in S. Toso, Reddito di cittadinanza o reddito minimo, cit., 82-99.
[8] C. Del Bò, E. Murra, Per un reddito di cittadinanza. Perché dare soldi a Homer Simpson e ad altri fannulloni, GoWare, Firenze 2014.
[9] Per maggiori dettagli sul tema si rinvia a P. Van Parijs, Y. Vanderborght, Il reddito di base. Una proposta radicale, Il Mulino, Bologna 2017.
[10] C. Del Bò, Il reddito di cittadinanza: uno sguardo diacronico sul dibattito e qualche considerazione sulla giustificabilità morale, cit., 711.
[11] Per esempio, per conformarsi maggiormente alla definizione di reddito di base, l’assegno unico dovrebbe essere versato direttamente a ciascun figlio, e il suo importo non dovrebbe risentire delle condizione economica dei genitori o della numerosità del nucleo familiare. Per approfondire questi aspetti sulla forma che dovrebbe assumere un child basic income si rimanda a E. Murra, Garantire la sussistenza. Povertà, ReI e il futuro del welfare, in “La cittadinanza europea” 2/2017, 157-163.
[12] I pilot project fin qui realizzati, per quanto interessanti, consistono pur sempre di sperimentazioni con una platea di utenti piuttosto limitata, e una durata (già nota ai riceventi) che non supera in genere i due anni. Essi hanno innegabilmente fornito un’importante mole di dati e hanno permesso di osservare empiricamente molti degli effetti positivi che già in teoria ci si attendeva, benché non siano stati a oggi capaci di produrre il consenso politico necessario all’introduzione del reddito di base. Infatti, i risultati dei pilot project sono spesso accolti dall’opinione pubblica con diffidenza: sarebbe possibile finanziare quegli assegni per tutta la popolazione? Quale livello di pressione fiscale è richiesto? Chi ne dovrebbe sostenere il costo maggiore? Le abitudini di spesa, la propensione al risparmio e la disponibilità lavorativa sarebbero stati gli stessi se non fosse stata già dall’inizio chiara la data di scadenza? Questi dubbi non provengono solo da esponenti critici, ma sono stati espressi anche da uno dei più importanti studiosi del reddito di base. Si legga per esempio l’intervista di R. Staglianò, Philippe van Parijs: «Il vero basic income? È senza se e senza ma», La Repubblica, 6 marzo 2017.