La logica del risparmio è miope. I 958 milioni di euro che risparmieranno dal taglio complessivo sono poca cosa in un bilancio dello Stato e si perderanno nel giro di poco tempo. La «povertà assoluta» aumenterà con la crisi in corso. Ciò porterà al peggioramento dei disagi economici delle famiglie, i bambini avranno una dieta inadeguata, gli adulti meno tempo da dedicare a loro. I più colpiti, anche se indirettamente, saranno ancora una volta i bambini. A pensar male si può dire che il governo ha tagliato di un altro mese il reddito di cittadinanza, da agosto a luglio, per liberare manodopera da sfruttare negli stabilimenti balneari e nella ristorazione.
Così facendo sarà eliminata l’ultima possibilità di opporsi al lavoro servile?
Non sarebbe la prima volta. Ho studiato a lungo le politiche dei poveri dalle leggi inglesi del Seicento a oggi. Di fatto sono forme di regolazione del mercato del lavoro che stabiliscono, mediante un intervento statale, chi ha diritto a stare fuori dal mercato del lavoro e chi deve essere spinto ad entrarvi con «la gogna e con la forca» diceva Marx. Anche in questo caso il taglio al «reddito» serve a parlare a nuora perché suocera intenda: l’idea è spingere le persone ad accettare qualsiasi tipo di lavoro a qualsiasi salario.
Solo un terzo degli «occupabili» ai quali sarà negato il «reddito» lavora. Tutti gli altri non svolgono un’attività da anni. Da dove nasce l’idea che possano, da subito, tornare a lavoro?
Il problema sta nella nozione di «occupabilità». La si considera sinonimo di «occupazione». Ma non è assolutamente così. L’«occupabilità» è la probabilità di trovare un lavoro ma non è detto che ciò accada. Le persone definite occupabili sono le vittime di una politica dell’offerta slegata dalla domanda di lavoro.
Il governo vuole tornare a una misura categoriale per gli indigenti ed escludere i lavoratori poveri e i «poveri relativi»?
In realtà i poveri relativi erano già esclusi dal reddito di cittadinanza approvato nel 2019. E in più questa è una misura che copre solo il 44% degli aventi diritto, secondo la Caritas. Ma non è un’anomalia italiana. In tutti i paesi in cui esistono i redditi minimi almeno un terzo dei potenziali beneficiari non accede alla misura, spesso anche la metà. La misura che ha in mente Meloni non è neanche categoriale, corrisponde ad una visione della protezione pauperistica che è il contrario della cittadinanza sociale, cioè un supporto economico affinché le persone esercitino il loro diritto costituzionale all’esistenza.
La ministra del lavoro Calderone intende presentare una «riforma» delle politiche attive del lavoro. Riuscirà in pochi mesi a realizzare un sistema che nessuno è riuscito a creare in 20 anni?
Spero solo che voglia uscire da una logica offertista. È la domanda che crea l’offerta, non il contrario. Ma questi problemi non si risolvono solo con le politiche occupazionali. Servono politiche industriali, di riduzione dei divari dello sviluppo e interventi per la creazione di occupazione pubblica. E poi le politiche per la casa. Come si fa a vivere se devo pagare affitti da 600 euro e ne guadagno 800?
Cosa pensa della campagna dei Cinque Stelle a difesa del «reddito di cittadinanza»?
Si sarebbe dovuti arrivare alle elezioni con l’approvazione delle proposte di correzione della Commissione Saraceno e invece non è accaduto.
Dopo le iniziali diffidenze rispetto a questa misura anche il Pd la sostiene. Che ruolo ha avuto in questa vicenda iniziata tre anni fa?
Ha una responsabilità enorme nell’aver contribuito a diffondere pregiudizi contro i poveri e i meridionali. La campagna contro i percettori del reddito di cittadinanza ha consentito a Meloni di segnare un rigore a porta vuota. Ormai il danno era stato fatto.