Una auspicabile convergenza di più ampi settori sociali intorno a rivendicazioni quali il reddito di base o reddito di cittadinanza non risulterà mai forte abbastanza se, sull’altro fronte, non si riguadagna sulla controparte un po’ del terreno perduto, imponendole stabilità di salari e garanzie proprio in quei contesti lavorativi dove la precarietà è divenuta una realtà drammatica. L’una battaglia dovrebbe andare con l’altra, entrambe sostenute dall’idea che, certo, il terreno perduto è molto, ma nuove sono anche le possibilità di lotta che si intravedono.
Il dibattito sulla riforma della legge 30 ci spinge ad alcune considerazioni di base che esprimono, ad un tempo, dubbi e ipotesi d’intervento. Fin’ora, nei diversi contributi, è possibile distinguere sostanzialmente tra coloro che intendono risolvere il problema della precarietà del lavoro con l’introduzione di un reddito garantito quale asse portante di un nuovo sistema di garanzie e quelli che, in contrapposizione a questa linea, puntano ad un percorso che conduca alla assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori flessibili, cui si estenderebbero i diritti già riconosciuti dallo statuto dei lavoratori. È chiaro che i sostenitori della prima proposta non prevedono necessariamente la soppressione della legge 30, che anzi potrebbe essere meglio articolata associando a forme di lavoro flessibile specifici diritti, quali quello ad un reddito garantito. Al contrario, i fautori della seconda prospettiva di intervento, optando per la commutazione dei contratti flessibili in lavori a tempo indeterminato, considerano quale proprio fondamentale obiettivo l’abolizione della stessa legge 30 e, di conseguenza, anche delle precedenti leggi sulla flessibilità del lavoro (vedi il c.d. Pacchetto Treu). Per valutare contestualmente entrambe le ipotesi bisogna tener conto delle mutate condizioni di produzione e d ell’avvento della produzione detta “postfordista”. Sulla base di questa premessa, la prima proposta è certamente interessata a dare specifici diritti al lavoratore flessibile, il quale si presenta ormai non solo come soggetto ineliminabile dal sistema di produzione, di cui, anzi, è diretta espressione, ma centrale rispetto alle rivendicazioni. Di contro, la seconda vede il lavoratore “atipico” come un’eccezione che è necessario eliminare per ricondurre ad una prospettiva meno instabile l’intervento politico sul tema. Le due posizioni, pur in apparente disaccordo, non ci sembrano tuttavia inconciliabili, ma vanno inquadrate in una corretta prospettiva. Entrambe hanno i loro elementi di verità, entrambe nascondono dei limiti. Proviamo a definire il quadro di riferimento nel quale esse si articolano. Sul piano legislativo, l’introduzione in Italia di regimi di flessibilità del lavoro ha significato, per volontà stessa dei legislatori, lo smantellamento dell’impianto di garanzie al lavoro (che tradizionalmente accompagnava il modello fordista) senza prevedere, di contro, l’introduzione di nuove e adeguate garanzie per la nuova figura di lavoratore che stava prendendo forma nella giurisprudenza del lavoro. Insomma, come si sarebbe detto un tempo, si è pensato al bastone, ma ci si è scordati della carota. In questo senso, l’Italia rappresenta un caso unico nell’Unione europea. Da noi è mancato il pur minimo tentativo di ricostruzione di un sistema di Welfare state adeguato alla ristrutturazione che il legislatore stava operando. Questo è avvenuto anche in contrasto con le indicazioni fornite dagli studi di settore che segnalavano, invece, l’opportunità di completare i nuovi “doveri” imposti al lavoratore flessibile con un adeguato sistema di “diritti”. Si è fatto esattamente il contrario. Il mercato del lavoro si è così fortemente deregolamentato da far ritenere addirittura superfluo, se non economicamente svantaggioso, continuare ad assumere personale con contratti a “piene garanzie”. La corsa al contenimento dei costi del lavoro attraverso la sostituzione di lavoro “a tempo indeterminato” con lavoro “flessibile”, anche nei settori in cui questa sostituzione non risponde in alcun modo ad effettive esigenze di produzione, è stata la strategia dominante da parte delle imprese nel corso dell’ultimo decennio. D’altro canto, perché addossare all’impresa l’ipoteca di un lavoratore per tutta la vita, al pieno dei costi e dei diritti (malattia, maternità, ferie), quando è divenuto disponibile sul mercato un lavoratore che costa meno e può essere espulso in ogni momento dal processo produttivo? In questo la precarizzazione del lavoro non è un processo che ha riguardato solo il settore privato, particolarmente attento al contenimento dei costi e all’aumento della competitività dell’impresa. Anche il settore pubblico ha fatto la sua parte perpetrando la politica del “blocco delle assunzioni” e di precarizzazione di tutta la forza lavoro neoassunta, incoraggiando così tutte le forme possibili di flessibilità. Non a caso, attualmente, quello pubblico è diventato uno dei settori con maggiore concentrazione di precari. L’attuazione indiscriminata e su vasta scala della flessibilità ci ha portato ad una anomalia tutta italiana: là dove si sono introdotte forme di lavoro temporaneo non si è mai ritenuto di affrontare un riequilibrio anche del sistema delle garanzie. Tra le soluzioni prospettate da più parti quale risoluzione del problema, abbiamo visto che alcuni sostengono l’importanza di introdurre misure di sostegno al reddito in grado di garantire ai soggetti la certezza di una piena cittadinanza, (indipendentemente dall’incertezza del lavoro), e altri, soprattutto di provenienza sindacale, ritengono invece urgente rivalutare quelle garanzie che il sistema della flessibilità ha abolito o raggirato. Per parte nostra, considerando legittime entrambe le istanze di rivendicazione, la richiesta forte e determinata di un reddito di base può senz’altro essere ritenuta uno strumento imprescindibile nell’affermazione dei diritti dei precari e dei cittadini in generale, uno strumento in grado di redistribuire la ricchezza socialmente prodotta, di porre un freno alla corsa al ribasso dei salari (per cui i “lavori” sotto una certa soglia di retribuzione diventano effettivamente sconvenienti quando posti in rapporto di esclusione con la soglia del reddito garantito). Da questo punto di vista, garantire un reddito di base costituisce una misura non solo auspicabile, ma inderogabile. D’altro canto, però, è innegabile che, in assenza di una lotta forte e puntuale alla precarietà nei luoghi stessi del lavoro, ovvero là dove essa produce azzeramento dei diritti, disparità di trattamento, discriminazione e ricatto sul lavoro, difficilmente sarà possibile contrattare con le istituzioni un welfare che sia più di una ratificazione formale del meccanismo di esclusione permanente costituito dalla precarietà. Per quei soggetti assunti con contratti flessibili l’urgenza di vedersi trasformati in lavoratori a tempo indeterminato è più che comprensibile e può anzi essere una leva da utilizzare, un punto di partenza per reimpostare la strategia di lotta complessiva, anche rispetto al reddito garantito. Perché, d’altro canto, continuare a consentire la sopravvivenza di lavori flessibili nella forma, ma sostanzialmente “fissi” nella continuità della prestazione (spesso nella soggezione al ricatto del rinnovo e nell’assenza delle garanzie altrimenti previste)? Una auspicabile convergenza di più ampi settori sociali intorno a rivendicazioni quali il reddito di base non risulterà mai forte abbastanza se, sull’altro fronte, non si riguadagna sulla controparte un po’ del terreno perduto, imponendole stabilità di salari e garanzie proprio in quei contesti lavorativi dove la precarietà è divenuta una realtà drammatica. L’una battaglia dovrebbe andare con l’altra, entrambe sostenute dall’idea che, certo, il terreno perduto è molto, ma nuove sono anche le possibilità di lotta che si intravedono.
Pubblicato su Carta 2006