I saperi che accumuliamo vivendo insieme agli altri sono la ricchezza che mettiamo continuamente al lavoro. Per questo rivendichiamo un reddito garantito.
Una storia tante storie
E fu così che, improvvisamente, Sara si trovò a dover prendere una decisione: “Dove metto la borsa? Dove la cinta? Come faccio a dar risalto al portafoglio?”. “Maledetta Linea verde!”, pensa tra sé. Cosa è la Linea verde? Prendete una nota casa di moda di vestiti ed accessori -borse, cinte, cappellini, borsellini eccetera-, che decide di lanciare sul mercato la Linea verde. Quindi borse verdi, cinte verdi, calzini verdi… A Sara, che lavora nel negozio come commessa, viene dato il compito, non solo di vendere, di stare in piedi otto-nove ore, di accogliere tutti i clienti con sorrisi gentili; non solo il dovere di presentarsi al pubblico in maniera consona, ma anche quello di occuparsi dell’intera gestione del progetto. Bene, la titolare del negozio ha deciso che sarà lei a curare la Linea verde. “Curare”, come fosse una persona della cui salute si deve aver premura.
“Allora, vediamo… Potrei sistemare la borsetta bianca qui, accanto alla cintura nera in vernice, così ottengo l’effetto optical che ormai è il must di stagione, sullo sfondo il portafoglio nero con gli inserti in vinile… Meglio pochi dettagli, ma ben in evidenza”. Un lavoro a tutti gli effetti, frutto di uno studio a monte del prodotto, di come lo si vuole proporre e di chi lo dovrebbe poi acquistare. Questo fa il visual merchandiser, coadiuvato da uno o più vetrinisti, dunque un lavoro cooperativo che richiede l’ausilio di più competenze.
Nell’allestimento della nuova linea, Sara cercherà di creare un’atmosfera commercialmente invitante, ma anche di offrire alle merci un bel posto dove passare le giornate in attesa di essere acquistate, in attesa di un nuovo padrone. Insomma, fatto qualche conto con bollette ormai scadute e il costo della vita, Sara pensa che sia proprio il caso di darsi un po’ da fare, visto che, anche vendendo tutta la merce, quasi certamente non avrà nessun compenso aggiuntivo, ma se invece La linea verde non vende, le sarà difficile rimanere a lungo in quel posto di lavoro. Il suo non era un calcolo difficile a farsi, dati i presupposti di quel lavoro.
Sara si mise al lavoro, la sua mente era piena di idee che cercò poi di tradurre in accostamenti che attirassero il più possibile l’attenzione del passante. Doveva riuscire a creare il biglietto da visita ideale per Linea Verde. Aveva bisogno di tutte le sue competenze, tutto quel mix fatto di abilità, capacità e conoscenze che formano quella cosa strana e poco prensile che si chiama appunto ‘competenza trasversale di base’, il modo d’essere, di fare, i gusti, e la sensibilità di ciascuno. Così Sara fu costretta ad immaginare, creare, inventare qualcosa di originale, completamente suo, per vendere almeno un po’ di borse e cinte, e soprattutto per non rischiare di perdere il posto: “Non è che posti così se ne trovino dietro l’angolo della strada, da un giorno all’altro… E’ una casa affermata… Mi hanno fatto anche il contratto”. “Probabilmente”, pensa, “se ne avessi avuto l’opportunità economica (un capitale da investire) magari avrei fatto proprio la vetrinista e avrei potuto chiedere una congrua ricompensa, se avessi qualche titolo riconosciuto, un’esperienza di lavoro passata… Ma, chissà, forse un giorno…”.
Eppure proprio il suo passato è lo scrigno da cui Sara attinge quelle competenze che le permettono di rimanere a galla, competenze non riconosciute, non qualificate, ma ricercate, anzi ricercatissime, preziose. Corsi, attestati, diplomi, sono solo forme morte di quel suo passato, il suo passato documentabile, quello che ha già sbattuto sul curriculum: una radiografia della sua vita, uno scheletro senza carne e senza sangue. Il passato “non documentabile”, dal quale lei ha ricavato il gusto nel disporre gli oggetti, la capacità di saper ordinare lo spazio in modo comunicativo, il suo sapersi intrattenere con i clienti, questo passato è invece gassoso, inafferrabile, ma estremamente importante, più importante del passato attestato e riconosciuto. E’ la fonte della sua ricchezza, del suo sapersela cavare, anche ad allestire una vetrina.
Tempo comune
Sara mette a valore qualità che considera sue proprie, perché appartengono naturalmente alla sfera delle sue relazioni private, dei suoi saperi, dei suoi affetti. Capacità ed esperienze acquisite in un contesto altro dal lavoro, “roba sua” insomma, e di quelli che le sono vicini, con i quali condivide appunto altro tempo, un tempo in comune, puro e semplice tempo di vita.
Dunque accade che qualcuno è disposto, fino a retribuirlo, ad accaparrare per sé il tempo di Sara, perché sa che quel tempo produce, produce innovando, cercando soluzioni che si trasformano in messaggi accattivanti finalizzati a suscitare desideri negli occhi di chi passa, (“la borsetta l’accosto alla cintura, così la cliente visualizza all’istante l’abbinamento degli accessori”), in breve dando sostanza viva alla materia morta della merce.
La merce ha ancora bisogno di vita, fino all’ultimo. La vita di Sara è un’altra porzione di vita ceduta alla esigenza della merce, è merce essa stessa. Ma qui la vita non è più quella di Sara in quanto individuo, non è una porzione di tempo semplicemente persa in attività ripetitive e meramente esecutive, no, è invece la vita non ripetitiva e non automatica di Sara che la merce ora vuole per sé. E’ la vita di Sara con gli altri, la conoscenza del mondo circostante che lei ha appreso nel suo tempo di non lavoro che stavolta non solo si rivela utile, ma addirittura necessaria alla merce stessa. Il tempo di vita è messo al lavoro integralmente.
Le competenze di base del lavoratore postfordista, questo aggregato di conoscenza e abilità, questo “saper fare” che passa attraverso un “saper essere”, sono l’asse portante di qualsiasi studio e ricerca sulla trasformazione del lavoro e sul fabbisogno delle imprese nel postfordismo. Gli scaffali della sezione ‘Economia aziendale’ delle librerie ne sono ricolmi: Come organizzare un gruppo di lavoro, Capitale umano – ultima frontiera, Il profitto della conoscenza, 500 modi per fottere il prossimo, tutte copie controfirmate da esimi professori ed esperti della nuova organizzazione del lavoro di tutto il mondo -ma se sono americani, mi dicono in cassa, vendono di più. Il nuovo capitalismo va a caccia del “soggetto competente”. Chiede a gran voce, sotto suggerimento dei responsabili delle risorse umane, che entrino in produzione quei soggetti con capacità di comunicare e di problem solving, che abbiano relazioni e siano in grado di gestirle, per una prestazione creativa, innovativa, motivata e bla, bla, bla. E, badate bene, anche se non avessero competenze tecnico professionali specifiche e documentate non ci sarebbe problema, l’azienda li assumerebbe comunque, però in ‘stage’ o ‘in formazione’, risparmiando così anche sui contributi previdenziali e sul costo del salario.
Se ad oggi ciò che è comune ai molti è la condizione di precarietà, dobbiamo iniziare a scorgere nelle trame di questa condizione l’esistenza di un altro essere-in-comune, una ricchezza immanente a questa povertà assoluta della vita precarizzata, una ricchezza comune. E’ proprio questo comune che il capitale sta mettendo in produzione continuamente, per innovare i suoi processi, è proprio questa produzione sociale diffusa che il capitale pretende al suo servizio. La precarietà è uno strumento politico per ridurre il lavoratore all’accettazione del ribasso del salario e delle garanzie, da un lato, e ottenere il massimo di produttività sotto la sferza della penuria e dell’incertezza, dall’altro. Si sa, la miseria aguzza l’ingegno, e la capacità di “creare”, propria dell’essere umano, viene messa a frutto giorno dopo giorno nei linguaggi, nelle relazioni, nelle creazioni materiali e immaginarie, ma anche nelle tensioni e nei conflitti del lavoro con la vita. In definitiva potremmo, all’occorrenza, mettere a profitto ogni nostra esperienza.
Se dovessimo leggere la medaglia dall’altra parte potremmo dire che, in positivo, tutto ciò annuncia la possibilità di una ricomposizione sociale e di una costruzione possibile di percorsi di trasformazione reale, a partire dal riconoscimento tanto della povertà attuale, quanto della ricchezza potenziale dei soggetti oggi precarizzati. La verità è che una cooperazione sociale è già in atto, produce, qualche volta ponendosi in modo esplicitamente antagonistico, più spesso recando profitto ad altri.
Tempo produttivo
La questione è quella di scoprirci soggetti necessari, assolutamente necessari, al capitale, capire che il capitalismo sta cercando di appropriarsi dello spazio-tempo materiale e immateriale nel quale questa ricchezza si crea, uno spazio-tempo che può essere catturato solo se tenuto costantemente sotto scacco, e con esso anche i soggetti che lo condividono e lo esprimono.
Soggetti sotto ricatto coordinato e continuativo, che però hanno anche bisogno, urgenza, di capire che la forza di resistenza sta esattamente nella loro ricchezza comune, ricchezza che i soggetti condividono in questo spazio-tempo. La metropoli -spazio comune tra i precari e, insieme, spazio dell’espropriazione capitalistica e del profitto- è il luogo di questo conflitto permanente tra modi di essere-insieme, quello dei precari, socializzato e cooperativo, e quello capitalistico, privato e concorrenziale.
Sara vive un tempo di lavoro che formalmente le si presenta estraneo, altro dal suo tempo di vita, ma che pure vede intrecciarsi continuamente ad esso. Ed in effetti, tradotto in salario, il tempo di lavoro non è altro che il tempo necessario a Sara per mettere a frutto quei saperi acquisiti nel suo tempo di vita, di non lavoro. Le sue capacità socialmente acquisite sono la sua vera risorsa, la ricchezza che Sara, malvolentieri, cede ad altri. E però quello è pure il tempo necessario ad acquisire una quota di reddito sufficiente a riprodurre la sua esistenza.
In cosa si traduce allora il tempo di lavoro? Solo in quel determinato tempo di vita che cediamo in cambio del salario necessario alla nostra riproduzione. Il tempo che avanza è la vita fuori dal lavoro. Un tempo non misurabile nel tempo della prestazione di lavoro, un surplus di valore sociale eccedente. In esso, le ore di lavoro, e quindi i minuti, i secondi, si dilatano e si restringono, non hanno nessuna costante di riferimento, hanno differenti intensità.
Il paradosso dell’economia postfordista è questo: da un lato, il capitale ha imparato a riprodursi e trarre profitto dalla vita sociale in quanto tale (dalle sue relazione, dalle sue tensioni, dalle invenzioni del quotidiano); dall’altro, e proprio per questo, esso non può riconoscere questo vantaggio competitivo che ottiene dalla vita sociale. Il paradosso ovviamente nasconde l’arcano, l’enigma della produzione post fordista.
Tempo non retribuito
Il paradosso (apparente) si spiega nella contraddizione (reale) di un processo di appropriazione della ricchezza comunemente prodotta, non semplicemente da un operaio collettivo (non in fabbrica e alla catena di montaggio), ma dalla società tutta. Al massimo livello di socializzazione del processo di capitale corrisponde il massimo livello di contraddizione tra il capitale stesso e il lavoro sociale. Il tempo di lavoro rimane come feticcio di un tempo retribuito, ma non necessariamente più produttivo. Il tempo realmente produttivo sta, invece, nel tempo non retribuito. Un tempo di vita non retribuito, estraneo al lavoro, ma necessario ad esso. Nella contraddizione c’è però anche la chiave dello sfruttamento, di un surplus di lavoro sociale che non si vuole riconoscere.
Bisogna rivendicare sempre più insistentemente un riconoscimento di questa nostra parte che l’economia di mercato nasconde nella garanzia del reddito, un reddito garantito a tutti, incondizionato e indipendente dalla prestazione lavorativa, un riconoscimento che è la presa d’atto della nuova condizione del lavoro post-fordista, cooperativo e precario. Un reddito per tutti a riconoscimento della produttività media del vivere-in-comune, dello stare-insieme. Ma in ciò sta anche il punto focale di una prospettiva di ribaltamento delle attuali condizioni di sfruttamento, un punto di convergenza del lavoro sociale, un passaggio costituente del lavoro vivo post-fordista.
Il reddito da attribuire ad un tempo comune non quantificabile, quale quello del vivere-in-comune, può essere computato sul livello medio necessario alla riproduzione della vita in un determinato contesto storico e sociale.
In questa linea di rivendicazione vanno posti assi certi sui quali muoverci. In primo luogo deve essere affermato il principio della massima estensione dell’erogazione di reddito, intendendo ciò come necessaria estensione del provvedimento di redistribuzione a tutti senza condizioni, che non escluda nessuno dai suoi benefici, senza limiti temporali o di condizione sociale, perché siamo direttamente o indirettamente produttivi.
In secondo luogo deve essere affermato il principio della massima intensità dell’erogazione di reddito, ossia la necessità di puntare su un’ erogazione di reddito adeguata a rendere autosufficienti i soggetti che lo ricevono. Accanto a ciò, la garanzia di erogazione di beni e servizi primari alla vita dei soggetti, alla socialità, all’informazione, all’abitazione e alla mobilità, alla formazione e alla salute, garantiti i quali tutti saranno più al sicuro dal ricatto dell’esclusione e della privazione dei beni essenziali.
Uscire dal ricatto del lavoro è necessario proprio per liberare tempo, energie, creatività utili e necessarie alla cooperazione sociale che sia in grado di determinare altri modi di vivere. Uscire dal ricatto della precarietà per avere la possibilità di rifiutare prestazioni umilianti sia dal punto di vista economico che politico-sociale. La rivendicazione di reddito garantito e la sua introduzione potrebbero realisticamente determinare un rafforzamento del potenziale di autonomia e di libera espressione di Sara la renderebbe certamente più forte nella sua lotta contro i vincoli e i ricatti del lavoro.