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Siamo tutti al lavoro

di Andrea Tiddi

La crisi della società del lavoro non vuol dire solo disoccupazione, ma soprattutto ristrutturazione del sistema produttivo. In questa seconda prospettiva nasce l’idea di un reddito sociale, di un reddito di cittadinanza in grado di coprire le esigenze di vita per quei lavoratori intermittenti che si trovano permanentemente a confrontarsi con periodi di inattività

C’era una volta il lavoro. C’era un tempo in cui all’avvento della maggiore età, se non garantito, era almeno altamente probabile l’ingresso del giovane nel cosiddetto mondo del lavoro. Era il tempo dei nostri padri, per intenderci, regolato da un modo di produrre incentrato sull’impiego a tempo pieno, sul principio di “un lavoro per una vita”: la fabbrica, con i suoi ritmi scanditi e i suoi spazi organizzati, delimitati e ben definiti, in questo senso era, non solo il luogo principale di questo lavoro, ma anche l’asse paradigmatico che interpretava tutto il lavoro umano. Entrare nel lavoro voleva dire confrontarsi con queste rigidità, ma voleva anche dire usufruire del sistema di garanzie che, grazie alle lotte sociali, su quest’organizzazione del lavoro era stato edificato. Certo perché al sistema del lavoro, per quanto avvilente (o proprio perché avvilente e pauperizzante), corrispose l’introduzione di un insieme di garanzie sociali in grado di alleviare le pene e di ridurre l’impatto sociale dei suoi vincoli: nasce in questo modo il sistema di garanzie sociali oggi noto, soprattutto perché molti puntano alla sua riforma, come Welfare state.

Tutto il sistema welferistico è, a ben vedere, organizzato intorno a questo tipo di lavoro, al lavoro della società fordista: la scuola e l’università pubbliche garantivano una formazione al giovane prima del suo ingresso nel mondo del lavoro (la formazione e il lavoro futuro avevano d’altro canto una loro corrispondenza precisa); le protezioni del Welfare garantivano gli infortuni quando il nostro giovane, ormai adulto, entrava nel mondo del lavoro, quando era a pieno titolo entrato nella cosiddetta popolazione attiva. Le pensioni di anzianità garantivano il raggiungimento in serenità e con un certo grado di sicurezza economica del traguardo di una vita, cioè la fuoriuscita dell’individuo dal mercato del lavoro; la sanità gratuita, su tutto l’arco di vita, si occupava di ridurre gli oneri sul singolo derivanti da malattie e disaggi improvvisi per la sua salute.

Lo Stato attraverso il Welfare si prendeva cura degli uomini e delle donne “dalla culla alla tomba”, come si diceva con un certo gusto per il macabro: ma, di fatto, questo sistema di assistenza al cittadino funzionava, corrispondeva al tipo di lavoro nel quale egli era introdotto, formava un cittadino corrispondente al tipo di lavoro e di organizzazione del lavoro egemone. Per quanto discutibile questo poteva sembrare e, in fondo, discutibile lo era davvero (almeno perché si limitava a regolare, piuttosto che trasformare la società del lavoro), non era in ogni modo possibile negarne l’efficacia e la capacità (forse addirittura eccessiva) di organizzare il sociale di questo sistema di garanzie.

Ora, dinanzi alle trasformazioni avvenute negli ultimi decenni sul lavoro, non ci resta che dare il commiato a questo modello di regolazione: il lavoro che sorreggeva, che era la base costitutiva di questo sistema, questo lavoro non c’è più. Avremmo dovuto, dunque, dire: “C’era un volta il lavoro a tempo pieno, c’era una volta il lavoro fordista”. Certo perché è il lavoro a tempo pieno ad essere realmente in crisi: la speranza per un lavoro fisso per molti, per la maggior parte, dei nostri giovani concittadini è destinata a rimanere tale. Quello a cui essi guardano ancora davanti al loro non è che il riflesso nello specchio deformante della storia di quello che realmente si sono lasciati alle spalle: il tempo pieno dei loro padri finisce con il diventare una illusione ottica sempre cercata e mai raggiunta. Ma certo questa trasformazione è ancora troppo recente perché si abbia piena percezione di essa, soprattutto perché ci si possa fare un’idea delle sue conseguenze.

Oggi gli indicatori statistici mettono il problema della disoccupazione all’ordine del giorno per tutti i paesi più industrializzati: le stime ci assicurano che nell’Unione Europea la disoccupazione si attesta mediamente quasi sull’11% della popolazione attiva. Comparando i dati dell’ultimo rapporto Oecd il tasso di disoccupazione varia da un minimo del 3-4% per il Lussemburgo e la Norvegia, passando al 4-6,5% per paesi come l’Austria, i Paesi Bassi, la Danimarca, per poi salire al 7-8% in Portogallo e nel Regno Unito, oscillando intorno al 9,5% per la Germania e il Belgio,  balzando tra il 10 e il 12% in Francia, Italia, Irlanda e Svezia con punte del 15% per la Finlandia e, addirittura, il 21,1% per la Spagna. La media si attesta precisamente sul 10,8%, un tasso di disoccupazione che nell’Unione Europea si avvicina, per proporzioni, a quello degli anni trenta del secolo che ci stiamo lasciando dietro. I trend di crescita per i paesi europei, rispetto ai dati di dieci e/o quindici  anni fa, mostrano un incremento medio del tasso di disoccupazione del 3-4%.

Comparazione dei tassi medi di disoccupazione tra i paesi appartenenti all’Unione Europea

Paesi Unione Europea

Tasso medio di disoccupazione  in %

Lussemburgo 3,6

Norvegia 4,1

Austria 4,4

Paesi Bassi 5,7

Danimarca 6,5

Portogallo 7,2

Regno Unito 7,4

Belgio 9,5

Germania 9,6

Svezia 10,7

Irlanda 11,1

Italia 12,2

Francia 12,5

Finlandia 15,4

Spagna 21,1

Fonte: Elaborazione Eurispes (Tiddi-Mantegna) su fonti Oecd 1997.

Questo è un dato certamente preoccupante, ma le statistiche possono anche essere forvianti se prese alla lettera e, soprattutto, lo sono se interpretate con criteri inadeguati alla situazione reale: il mondo cambia e la statistica farebbe bene a stargli dietro.

Succede, infatti, che, con tutta probabilità, quell’11% non sia composto di disoccupati nel senso classico del termine, cioè che esso indichi una percentuale rilevata secondo i criteri adeguati al lavoro fordista (nel quale tra occupazione e non occupazione non esistevano zone grigie) e, di conseguenza, indichi un esercito crescente, non tanto di non-occupati, ma di semi-occupati, di lavoratori “flessibili”, “atipici”, soprattutto precarizzati. Già perché l’entità in sé della crescita del precariato che è sotto gli occhi di tutti sfugge allo sguardo della statistica. Problema non irrilevante dato che è proprio la forma del lavoro precario che sembra definirsi sull’orizzonte del nostro prossimo futuro. Per il momento è altrettanto plausibile, in mancanza di indicatori adeguati, che questo nuovo lavoro “flessibile”, a termine, intermittente e precario cada di volta in volta da un lato e dall’altro della barricata, che sia rilevato un po’ nell’universo degli occupati, un po’ in quello dei disoccupati senza che si possa mai venire al capo della matassa.

Fosse solo un problema di conoscenza statistica, ovviamente, ci sarebbe poco da preoccuparsi. Il fatto è che il mancato riconoscimento di questa nuova forza lavoro (che assume le forme del lavoro precario) vuol dire innanzi tutto mancanza di garanzie adeguate per essa. Soprattutto vuol dire che essa si trova costantemente a dover rientrare a forza nei parametri costruiti sul lavoro fordista quando ha già fatto ingresso nell’universo postfordista, si trova quindi privata tanto dei diritti che della rappresentanza del suo lavoro essendo quelli attualmente riconosciuti appartenenti ad un mondo in cui essa, di fatto, non vive più.

La crisi della società del lavoro non vuol dire solo disoccupazione, ma soprattutto ristrutturazione del sistema produttivo su quelle forme del lavoro definite “atipiche” dalla sociologia, forme che sembrano diventare progressivamente la condizione di normale prestazione per la maggior parte della popolazione dei paesi il cui livello di industrializzazione è più avanzato. Tanto che il termine stesso di disoccupazione sembra svuotarsi di contenuto perché il lavoratore temporaneo è censito spesso come non occupato dagli uffici di collocamento, ma realmente egli sopravvive attraverso prestazioni intermittenti se non addirittura mediante la prestazione “in nero” della sua opera.

La variabile “precariato” non è per nulla irrilevante, né marginale nella produzione attuale. La riforma del Welfare, in questo senso, o tiene conto di questa inadeguatezza del sistema di garanzie per la salvaguardia reale dei diritti dei cittadini o rimane assolutamente astratta o, peggio ancora, presta il fianco alle insistenze neoliberali che dell’intero sistema vorrebbero sbarazzarsi riducendolo a mero fattore di “spesa pubblica” (a dei conti che non tornano). La riforma del Welfare state dovrebbe, da un lato garantire i diritti acquisiti dei padri “fordisti”(acquisiti con il lavoro che hanno realmente svolto nella loro vita), dall’altro riconsegnare ai figli un sistema di garanzie adeguato alla nuova forma del lavoro “postfordista”.

In questa seconda prospettiva nasce l’idea di un reddito sociale, di un reddito di cittadinanza in grado di coprire le esigenze di vita per quei lavoratori intermittenti che si trovano permanentemente a confrontarsi con periodi di inattività (e, dunque, con l’assenza di reddito). Una garanzia minima che segni la soglia entro la quale un individuo può dirsi a pieno titolo “cittadino” come gli altri, una soglia che lo protegga dal baratro dell’indigenza e della ristrettezza economica, ma che allo stesso tempo lo metta in condizioni di rinnovare, nei periodi di inattività dal lavoro, la sua formazione, formazione che è indispensabile per la crescita delle sue capacità professionali come dimostra l’alto contenuto intellettuale richiesto alle nuove prestazioni.

Certo lavoro sempre meno fisico e sempre più intellettuale, ma anche lavoro sempre meno garantito e sempre più precarizzato: è questa la contraddizione che attraversa oggi l’universo del lavoro ed è in essa che va riletto il dibattito sulla riforma del sistema di protezioni sociali.

 

tratto da Infoxoa 11 Marzo 2000

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