Tutto il lavoro oggi è “nuovo” e dovremmo quindi parlare dei nuovi caratteri della produzione, e di come queste forme della produzione abbiano configurato nuovi soggetti produttivi e si siano attagliate alle nuove soggettività. Riconoscere, soprattutto attraverso l’inchiesta, la frammentazione dei lavori sommersi pone il problema della loro visibilità politica. Lo sviluppo di un nuovo sindacalismo è compito immediato. C’è un dato evidente: i nuovi lavori non dispongono di fatto della benché minima organizzazione di autodifesa, resistenza, contrattazione collettiva. La situazione, da questo punto di vista, può essere paragonata all’inizio della rivoluzione industriale. Dall’individuazione di obiettivi e di percorsi di lotta che rovescino la messa a plusvalore di tutta la vita e l’intelligenza del lavoratore (e quando occupato e quando disoccupato). L’obiettivo del reddito di cittadinanza è, ad esempio, centrale. Con esso, si reclama la retribuzione del tempo di produzione (tempo di vita) che esorbita dal tempo di lavoro. Il reddito di cittadinanza è il salario della cooperazione sociale che precede ed eccede il processo lavorativo.
L’espressione “nuovi lavori” è ambigua o può dare adito a sgradevoli interpretazioni e va subito chiarita. Generalmente, la caratterizzazione “nuovo” esprime nella comunicazione interpersonale un’accezione positiva, un traguardo o un cambiamento magari a lungo atteso: si dice “abito una nuova casa, ho una nuova automobile, ho un nuovo taglio di capelli, ho un nuovo fidanzato”, per comunicare un momento di passaggio”buono”, o comunque l’abbandono di una situazione difficile, complicata, forse “consumata”. Fino a non molto tempo fa, anche dire “ho un nuovo lavoro” esprimeva questo senso di promozione, di soddisfazione, di avanzamento. Non solo quindi l’aggettivo “nuovo” indicava il mutamento ma una certa progressione nell’attività lavorativa, nella carriera, nella busta paga. Così non è più generalmente: sempre più spesso, quando si dice o si ascolta da parte di amici con cui si conversa l’espressione “ho un nuovo lavoro”, c’è curiosità, certo, per il mutamento, ma la sensazione che questo non significhi direttamente un “salto” è immediata. Dai lavori si entra e si esce, i contratti hanno tempi a termini sempre più determinati, nelle mansioni si va avanti o indietro o di lato.
Con l’espressione “nuovi lavori”, dunque, si intendono – e non solo nella comunicazione interpersonale – cose, attività fortemente diverse: si va dalle ragazze delle chat line alle cooperative di servizi ed assistenza agli anziani, dai pony express agli immigrati che vendono quotidiani ai semafori, dalle miriadi di collaborazioni occasionali e non continuative con ritenuta d’acconto fino agli “analisti simbolici” di cui parla Reich, l’ex ministro del Lavoro del governo Clinton, ovvero quanti traggono lauti guadagni dalla propria creatività e competenza intellettuali nel mondo della musica, del cinema, della finanza, della comunicazione e vi abbiano posti di “governo”, di influenza nei processi.
In realtà, tutto il lavoro oggi è “nuovo” e dovremmo quindi parlare dei nuovi caratteri della produzione, e di come queste forme della produzione abbiano configurato nuovi soggetti produttivi e si siano attagliate alle nuove soggettività. Consideriamo però come luogo comune le considerazioni sul postfordismo che qui sarebbero pertinenti (preminenza dell’accumulazione cognitiva e scientifica nei processi produttivi, immaterialità dei processi e della merce, rottura della separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro ecc.).
Si usa qui l’espressione “nuovi lavori” con un riferimento specifico alle nuove povertà dentro la produzione immateriale e postfordista, anche se la riflessione deve prospettarsi sui caratteri generali del lavoro e della produzione, in particolare per l’aspetto della flessibilità della prestazione lavorativa. Più concretamente, il riferimento è a quel carattere di continuo attraversamento tra lavoro e non-lavoro, tra occupazione e disoccupazione, tra garanzie e assenza di diritti elementari che segna la “modernità”. Quanto al nuovo sindacalismo, il problema della sua definizione è appunto uno degli argomenti cui si accennerà.
L’invisibilità del lavoro
Se si fa un qualunque riferimento alla storia recente, al dopoguerra, agli anni Sessanta e Settanta (non per spirito agiografico, ma perché è ancora storia viva e percezione sensibile dei mutamenti) balza subito agli occhi un elemento semplice e importante: il lavoro era allora visibile. Era visibile sui volti segnati dalla fatica e dall’orgoglio dell’essere produttori, era visibile nella rappresentazione simbolica della società, era visibile nella configurazione della vita quotidiana sociale e delle sue aggregazioni (le città). L’astrazione del lavoro aveva facce, mani, corpi che portavano ben visibili le stigmate del lavoro concreto, e la vita quotidiana aveva ritmi, orari, calendari visibilmente legati al lavoro, ai suoi ritmi, orari, calendari (basterebbe ricordare come fino a non molti anni fa le città industriali si svuotavano letteralmente in agosto, quando gli operai “prendevano le ferie” e come non sia più così).
Ma, soprattutto, il lavoro aveva visibilità politica. Politica nel senso proprio di “governo della cosa pubblica”, di “cura del bene pubblico”. La concentrazione lavorativa nelle grandi fabbriche, la conoscenza dei processi produttivi e l’applicazione dei propri saperi alla definizione della merce, l’espressione e la sensazione di forza e di potenza che derivavano da questi elementi e dalle lotte davano un profondo connotato politico al lavoro. Quello di “pesare” in maniera determinata dentro la società e per il ruolo di produttori e per il ruolo di classe, un ruolo di “motore” produttivo e di egemonia quindi. Le grandi battaglie operaie sulla sanità, sulla casa, sulla scuola, sull’aborto e il divorzio, sullo sviluppo del Mezzogiorno, contro i regimi militari e fascisti nel mondo erano dunque intrecciate visibilmente a quelle per la riduzione dell’orario di lavoro, per cacciare via i capetti e i sindacati gialli dalle officine, per aumenti di salario “variabilmente indipendenti”. Oggi, visibilmente, non è più così.
Il carattere attuale di invisibilità politica del lavoro deriva da diverse mutazioni. Mi soffermo brevemente su due: 1) l’immaterialità dei processi produttivi, e 2) la preminenza degli aspetti della commercializzazione e della finanziarizzazione rispetto a quelli produttivi, in breve la globalizzazione economica e di governo.
1) Il “diventar minuto” del lavoro (la fine dei grandi processi produttivi e delle grandi aggregazioni di masse umane), insomma la sua disseminazione in unità produttive ridotte, non dà immediatamente conto del rapporto e del “peso” nella realtà macroeconomica. Questa realtà non si configura più nella estensione produttiva di macchinari e dei grandi flussi della circolazione di denaro legato alla merce, ma nell’applicazione intensiva di un sapere generale (general intellect) pregresso e in progress a un “piccolo” gesto produttivo. La relazione tra general intellect e propria attività non è immediatamente visibile, e quando se ne acquista coscienza non è politicamente visibile, restando confinata alla produzione (così, si riscontra talvolta una certa “fierezza” nell’appartenere a grandi o piccoli gruppi industriali e delle comunicazioni, per il potere politico dell’azienda: quel fenomeno riscontrabile un tempo in certa aristocrazia operaia di identificazione nella “rappresentatività manifatturiera” dell’azienda si è dislocato sulla rappresentatività sociale di questa).
Il livello “globale” del conflitto
Dunque, il carattere sommerso (invisibile) dei nuovi lavori dipende in buona parte dall’eccedenza di sapere sociale che precede il processo lavorativo. La sua visibilità non risulterà allora solo dalla “messa in chiaro” di quanto è non contrattualizzato, “in nero”. Ma dall’individuazione di obiettivi e di percorsi di lotta che rovescino la messa a plusvalore di tutta la vita e l’intelligenza del lavoratore (e quando occupato e quando disoccupato). L’obiettivo del reddito di cittadinanza è, ad esempio, centrale. Con esso, si reclama la retribuzione del tempo di produzione (tempo di vita) che esorbita dal tempo di lavoro. Il reddito di cittadinanza è il salario della cooperazione sociale che precede ed eccede il processo lavorativo. Ma altre iniziative si potrebbero valutare per la difesa dei “braccianti” della produzione immateriale, come ad esempio, fissare un tetto minimo di giornate lavorative giustificate ed estenderne poi il salario a tutto l’anno, mutuando dalla storia operaia la “protezione” dalla stagionalità della natura e dai meccanismi di “chiamata” nelle campagne per gli andamenti “a fisarmonica” della produzione flessibile attuale.
2) Questo senso di invisibilità – se si vuol essere feroci, di “pochezza” – si ha in particolare confrontando il “senso” della propria prestazione lavorativa con le manovre dei governi mondiali della moneta o della dislocazione di impianti decise dalle grandi corporations, quindi qualsiasi assenza di controllo, di influenza, di contropotere. L’aggiramento della mediazione “statale” – e dell’importanza dei suoi flussi economici – da parte dei processi economici globali priva anche di un interlocutore nazionale credibile “forte” e quindi di un proprio potere a interloquirvi, a costringerlo. Prevale, di fronte alla deterritorializzazione e alla globalizzazione, un senso di smarrimento, di disorientamento.
Quando si parla di locale e globale dovrebbe esser tenuto ben fermo l’ancoraggio alla relazione tutta produttiva e politica tra il bacino territoriale della produzione e il governo mondiale dei processi. Così, ad esempio, troviamo di estremo interesse la lotta degli operai coreani nell’inverno 1996-97 contro gli accordi tra il Fondo monetario internazionale e il governo della Corea del Sud e la scelta di un’interlocuzione a quel livello “globale” (gli incontri con Camdessus, direttore generale del Fondo) come l’unica che potesse determinare una svolta o una mediazione significativi. Certo, per quel che riguarda il lavoro precario, intermittente, immateriale non si è ancora data alcuna vertenza esemplare e quindi riproducibile. Vi sono esperimenti in corso preziosi e innovativi: la questione appunto è come rovesciare in forza rivendicativa la massima disgregazione del lavoro vivo.
Nuovo sindacalismo
Dentro ogni bacino produttivo è possibile vedere tutti gli elementi decisivi dell’economia globalizzata: flussi migratori, reti di comunicazione, articolazioni dell’amministrazione statale, uso politico della moneta. Il bacino esemplifica, su scala locale, l’intreccio delle forze produttive mobilitate dal postfordismo. Riconoscere, soprattutto attraverso l’inchiesta, la frammentazione dei lavori sommersi pone il problema della loro visibilità politica. Lo sviluppo di un nuovo sindacalismo è compito immediato. C’è un dato evidente: i nuovi lavori non dispongono di fatto della benché minima organizzazione di autodifesa, resistenza, contrattazione collettiva. La situazione, da questo punto di vista, può essere paragonata all’inizio della rivoluzione industriale. E’ forse probabile che questo sia dovuto a un ritardo da parte della tradizione sindacale a riconoscere le modificazioni del lavoro e intervenire sui nuovi soggetti. E’ più probabile che questo sia dovuto alla deriva della “concertazione”, a un prevalere della rappresentatività formale sussunta nei criteri delle compatibilità capitalistiche. D’altronde, la grande sconfitta operaia degli anni Ottanta (ricordando, per capirsi, proprio la Fiat dell’80) passò anche attraverso la lacerazione “dentro” il mondo del lavoro, tra “nuovi” e “vecchi” lavori, tra “garantiti” e “non garantiti”, tra “due società”.
Occorre dunque organizzarsi sindacalmente immaginando nuove “Camere del Lavoro” postfordista che siano in grado di fare da riferimento all’arcipelago di attività sommerse, intermittenti, flessibili bel bacino produttivo. Nuovo sindacalismo significa anche nuovo mutualismo. Perché si tratta di cogliere i nessi tra produzione e riproduzione, lavoro e non-lavoro, tra sapere astratto e concreti interessi. Una “Camera del lavoro” postfordista dovrebbe cumulare funzioni diverse e complementari: centro di accoglienza; ufficio di collocamento; soccorso rosso legale per questioni di diritto del lavoro; cassa di mutuo soccorso. Le Camere del lavoro italiano a cavallo tra Ottocento e Novecento sono un buon modello su cui riflettere. Ma nuovo sindacalismo significa anche nuovo comunalismo, capace di contrapporsi alle fobie localistiche, alle etnie regionali e nazionalistiche, alle autarchie produttive, e in grado di misurarsi con i processi globali della produzione e della finanziarizzazione costruendo reti di resistenza globale.
E allora, c’è bisogno di grandi e piccole vertenze in questo paese, eccome!
Tratto da L’Ernesto 14 Settembre 1999