Articolo pubblicato sulla rivista mensile PaneAcqua a cura di Luca Santini sul tema della questione giovanile, la precarietà ed il reddito.
La previsione formulata da molti osservatori (secondo cui la crisi finanziaria scoppiata nell’estate 2008 sarebbe presto evoluta in crisi economica e avrebbe quindi presentato un conto salato in termini di perdita di posti di lavoro) si sta ampiamente realizzando in queste settimane di fronte ai nostri occhi. La disoccupazione negli USA viaggia ormai da parecchi mesi su percentuali a doppia cifra, al pari di quella europea, assestata al 10,1 per cento. Nonostante i primi segnali di ripresa del Pil e della produzione industriale, non si registrano analoghe indicazioni favorevoli sul fronte occupazionale, tanto che lo spauracchio della cosiddetta jobless recovery, della ripresa senza occupazione, circola con sempre più insistenza nelle analisi degli economisti. Da ultimo il presidente della Fed Ben Bernanke, pur convinto che non esiste il rischio di una nuova recessione, ha dichiarato che visto il ritmo moderato della crescita la disoccupazione resterà a livelli di massa “ancora per un po’” (Ansa, 8 giugno 2010).
La situazione della società italiana di fronte alla crisi è stata ben fotografata dal Rapporto annuale dell’Istat, presentato alla stampa lo scorso 26 maggio. Nell’accanito dibattito su quale sia il segmento sociale che in misura maggiore sta soffrendo i colpi della congiuntura sfavorevole (dipendenti pubblici, piccole imprese, risparmiatori), l’Istat fornisce risposte precise, individuando senza esitazione nella fascia dei più giovani coloro che più di tutti stanno subendo le conseguenze negative della crisi. Infatti se il tasso di disoccupazione complessivo è arrivato all’8,9 per cento (il dato peggiore dal 2001), quello giovanile riguarda addirittura il 29,5 per cento del campione (livelli superiori di oltre la metà rispetto a quelli europei). Nell’ultimo anno circa un lavoratore atipico su quattro non ha potuto rinnovare il contratto, mentre anche tra i lavoratori autonomi sono diminuiti gli attivi di oltre 100 mila unità. Dalla morìa di posti di lavoro non ci si può salvare, secondo i dati dell’Istat, neppure incrementando il proprio bagaglio formativo, visto che anche tra i diplomati e i laureati tende a ridursi in modo rilevante la popolazione attiva (diminuita rispettivamente nelle due categorie del 6,9 e del 5,2 per cento). In tale contesto si registra anche in modo massiccio il fenomeno della sottoccupazione, cioè dell’assunzione per mansioni incoerenti e inferiori rispetto alla qualifica posseduta, che riguarda ormai ben 3,8 milioni di occupati italiani (il 18 per cento del totale). In aggiunta a ciò va segnalato il debole adeguamento delle retribuzioni al costo della vita, che si trasforma addirittura in vero e proprio ristagno negli ultimi 15 anni per i salari di ingresso (vedi su questo le Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia del 31 maggio).
Di fronte a simili dati non stupirà se oltre 2 milioni di under-30 si trovano in condizione di totale dipendenza dalla famiglie di origine, in una sorta di limbo esistenziale, tra un contratto precario e l’altro, al di fuori di qualsiasi percorso formativo o lavorativo. In questa che è stata definita neet generation (né occupata, né in formazione) vi è un misto di sfiducia per la mancata realizzazione delle aspettative, di rabbia per una condizione sociale inaccettabile, di pragmatico “rifiuto” nei confronti di un mondo del lavoro respingente.
Di questo drammatico sperpero di risorse collettive nessuno sembra volersi occupare. Eppure la presenza di un tasso di disoccupazione alto e stabile non rappresenta soltanto un problema per la tenuta sociale degli organismi economici: lascia emergere, per un modello produttivo come il nostro ancora basato sull’utopia della crescita illimitata, un orizzonte di crisi strutturale, la tendenziale perdita di senso di un complesso sistema di valori. Il restringersi delle opportunità alimenta le paure, macera sempre più il senso di appartenenza specie dei più giovani, determina immobilismi, scoraggiamenti, disaffezioni; in definitiva gli spazi di libertà e di protagonismo sociale si contraggono.
Mettere a tema una ripresa di autonomia dei soggetti appare oggi come un obiettivo politico massimamente urgente. Per raggiungere un simile traguardo non si potrà prescindere dall’introduzione anche in Italia di una misura di compiuta garanzia del reddito, che sappia sorreggere l’individuo nei momenti di bisogno e di inattività forzata, così come in quelli di volontario e temporaneo allontanamento da una sfera produttiva a volte recepita come asfissiante. Si avrebbe in tal modo una tutela finalmente efficace contro i rischi della precarietà e della disoccupazione, ma si determinerebbe al contempo una liberazione di risorse sociali oggi inespresse, favorendo un reinvestimento personale e un processo virtuoso di riqualificazione, che non mancherebbe come è ovvio di riportare effetti positivi anche sulla sfera produttiva formale.
Va certo registrata una posizione di totale chiusura su questi temi da parte degli attuali governanti, non motivata come si potrebbe presumere su esigenze di bilancio, bensì su una contrarietà ideologica e “di principio” nei confronti di qualsiasi schema di reddito di base. Ancora di recente il Ministro del Welfare dichiarava: “non regaleremo mai un reddito minimo garantito che porterebbe di fatto alla esclusione dal mondo del lavoro di una fascia di persone” (Adnkronos, 13 marzo 2010). Si comprende da queste affermazioni quanto sia vasta l’insensibilità per la nuova questione sociale posta dalla precarizzazione del mondo del lavoro e dall’assenza di tutele per gli strati di popolazione più giovani e più esposti ai venti della crisi.
Proprio per questo parole d’ordine quali “il reddito” (ovvero la sua garanzia) e “la libertà” (ovvero la sua espansione) ci appaiono come le nuove frontiere che una politica autenticamente progressista dovrebbe avere il coraggio di affrontare. Per quanto ci compete nei successivi appuntamenti di questa rubrica mensile cercheremo di dipanare gli appunti per un percorso possibile in questa direzione.