Dopo l’annuncio sul reddito minimo garantito di Elsa Fornero, Ministro del Welfare, un articolo di Luca Santini.
E venne infine da Bruxelles l’annuncio della neo-ministra del welfare Elsa Fornero: “lavorerò perché ci sia l’introduzione di un reddito minimo garantito”. Parole stringate ma chiare, da valutare certo con ponderazione, anche perché l’ipotetica garanzia dei minimi vitali pare destinata – sempre la ministra dixit – a essere inserita “in un pacchetto più ampio” di misure di cui ancora si ignorano l’ispirazione e i dettagli.
L’apertura al reddito infrange però un tabù, una sorta di ostracismo di tutte le principali forze politiche e sociali del nostro Paese, coalizzate nell’evitare che in Italia si prendesse seriamente in considerazione un adeguamento delle tutele sociali con strumenti universalistici simili alle forme presenti da decenni in molti altri paesi europei. Appena pochi giorni or sono una lettera aperta firmata dall’Associazione Bin Italia (che si occupa del tema del reddito garantito) ha invitato il Governo neo-insediato a “fare presto!” nel congegnare misure efficaci per contrastare, oltre che la crisi economica, anche l’emergenza sociale che riguarda sempre più ampi settori di popolazione, come ci ricordano da diverse angolature i dati recenti della Caritas (che stima in oltre 8 milioni gli individui a rischio povertà), della Banca d’Italia (che quantifica in 2,5 milioni i giovani disoccupati e fuori da ogni processo formativo) o dal Centre for Retail Research (che rileva un aumento del 7,8% dei furti nei supermercati nell’ultimo anno).
Il lessico dell’Europa sociale, che da molti anni ci stimola a introdurre una misura di garanzia del reddito, potrebbe costituire un valido stimolo per muovere passi tangibili nella direzione sperata. Far rimanere l’Italia, a tutti gli effetti, un paese “europeo” non presuppone soltanto la difesa della moneta comune, ma la salvaguardia effettiva di quei diritti sociali che permettono a tutti i cittadini di questo continente di sentirsi compiutamente tali, mantenendo un ruolo attivo nella vita culturale, politica e sociale.
Non si può che salutare con soddisfazione la presa di posizione della ministra se non altro per l’effetto di “scongelamento” del tema.
Il reddito garantito non dovrà essere concepito solo come misura congiunturale e di contrasto alla fase recessiva, magari funzionale al mero rilancio dei consumi. Al contrario questa misura può essere un architrave per il progressivo sviluppo di un nuovo modello di società, fondato sul rispetto integrale della dignità e della valorizzazione della persona. Un reddito compiutamente garantito, erogato a livello individuale, di ammontare adeguato, non sottoposto a vincoli stringenti di decadenza sarebbe il volano per il potenziamento del cittadino e delle attività che produce, sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si esprime al meglio la sua soggettività. Per dirla con André Gorz la funzione del reddito garantito “è quella di fare del diritto allo sviluppo delle facoltà di ciascuno il diritto incondizionato ad un’autonomia che trascende la funzione produttiva”. Molti passi ci sono da compiere per avviarsi seriamente su questa strada, ma la rottura di quel dogma che impedisce l’erogazione di un reddito in assenza di una prestazione lavorativa formale potrebbe fungere da detonatore per processi rivendicativi sempre più esigenti.
Nel nuovo contesto i fautori del reddito garantito sono chiamati a uno sforzo di analisi supplementare e a un protagonismo politico ancor più spiccato. Occorrerà comprendere i tempi e i modi dell’iniziativa del Governo, gli scopi attesi, le concezioni di fondo che la animano. Circola infatti come moneta corrente una nozione di flexicurity poco invitante e coercitiva, refrattaria all’idea di rendere il lavoro finalmente adattabile alle esigenze del cittadino, dopo un decennio almeno di politiche di segno opposto. Vi è infatti in certi disegni di riforma degli ammortizzatori sociali la richiesta di una subordinazione alle esigenze dell’impresa, in misura ancora maggiore di quanto non avvenga oggi. La tentazione è quella di proporre uno scambio tra la concessione di una più generosa integrazione del reddito nelle fasi di transizione lavorativa e la disponibilità da parte del lavoratore a essere ricollocato a piacimento in nuovi contesti produttivi, senza tenere conto delle preferenze o delle capacità individuali, dei “gusti” e dell’aspirazione a una mobilità ascendente.
L’introduzione di una misura come il reddito garantito dovrebbe invece ambire a mettere in moto dei reali match tra domanda e offerta di lavoro, tra sfidanti che hanno dotazioni se non pari, almeno proporzionate. Sarà anche per questa esigenza di nuova equità o per la oramai insopportabile incapacità degli attuali sistemi di regolazione dei rapporti tra lavoro e persone che nasce in questi giorni un’importante iniziativa “dal basso”: la raccolta di centomila firme entro il 31 gennaio 2012 per la riattivazione della più significativa esperienza politico-amministrativa in tema di reddito minimo garantito, quella avviata nel 2009 nella Regione Lazio e subito bloccata e definanziata nel 2010 dalla Polverini e dalla sua nuova giunta regionale di centro-destra.
Ancora un altro segnale, se mai ce ne fosse ancora bisogno, di quanto questo strumento sia urgente e un punto di partenza irrinunciabile per un intervento che voglia adeguare le tutele sociali del nostro paese agli standard generalmente vigenti in Europa.