Riflessioni sulla proposta Ichino della riforma del mercato del lavoro e la questione del reddito garantito.
La strada imboccata con decisione dall’Esecutivo Monti verso la riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali non mancherà a breve di tradursi in proposte e articolati di legge concretamente valutabili. Ad oggi possiamo confrontarci con semplici dichiarazioni alla stampa, allusioni in trasmissioni televisive, generici programmi di riforma. La concentrazione del dibattito sul “superamento” della tutela reale prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, nonché la forte esposizione mediatica recentemente rafforzata del Senatore PD Pietro Ichino, lascerebbero però pensare che la vera bozza legislativa allo studio del Governo sia modellata sulla proposta di legge n. 1481 depositata in Senato (a firma Ichino + altri), intitolata “disposizioni per il superamento del dualismo del mercato del lavoro, la promozione del lavoro stabile in strutture produttive flessibili e la garanzia di pari opportunità nel lavoro per le nuove generazioni”.
Una riflessione un poco più ravvicinata su questo disegno di riforma sarà quindi utile per contribuire criticamente allo sviluppo del dibattito. La decisione del Governo di intervenire sulla materia spinosa e magmatica del mercato del lavoro non può giustificare, infatti, una levata di scudi a difesa dell’esistente. Occorre prendere atto la via su cui lo sviluppo dei rapporti sociali pare già incamminato condurrà naturaliter all’esaurimento delle garanzie consolidate del diritto del lavoro (e in primis della tutela reale contro il licenziamento), nonché anche al progressivo estinguersi della tutela pensionistica come forma specifica di assicurazione contro la vecchiaia. Rispetto alla condizione sociale di milioni di lavoratori (non più così giovani, ormai) dispersi in micro-imprese in appalto, cooperative, datori di lavoro capaci di offrire soltanto contratti a termine o a progetto, non ha più un significato concreto il richiamo all’articolo 18; e lo stesso può già dirsi per la previdenza pubblica, resa incapace dalle riforme degli ultimi anni di fungere da garanzia tangibile per la dignità della persona nella fase di riposo dalla vita lavorativa. Non c’è spazio dunque per la difesa dell’esistente, c’è un bisogno pressante, al contrario, di nuovi diritti e nuove tutele. Da questo punto di vista il ddl menzionato, sicura fonte di ispirazione per l’azione del Governo, merita di essere valutato attentamente quanto meno per l’effetto di rottura dall’inerzia che promette di produrre.
Il puto cruciale della nuova disciplina proposta sta nel superamento dei vincoli alla cosiddetta flessibilità in uscita (licenziamenti più “facili”, dunque), in cambio di una sostanziosa indennità di disoccupazione della durata di quattro anni, pari al 90% dell’ultimo salario percepito nel corso del primo anno, e poi a scalare pari all’80, al 70 e al 60 per cento negli anni successivi al primo. Inoltre il lavoratore licenziato gode al momento dell’interruzione del rapporto lavorativo di una buonuscita una tantum pari a una mensilità di salario per ogni anno di anzianità aziendale. Questo nuovo regime caratterizzato da ammortizzatori sociali sensibilmente più generosi di quelli oggi disponibili si applica solo ai lavoratori che siano riusciti a superare un anno di anzianità di servizio all’interno di una stessa azienda. In cambio di questa maggiore generosità nell’accesso al sussidio il disoccupato deve acconsentire a stipulare un accordo di ricollocazione con una apposita agenzia privata, che gli eroga il sussidio (anche con proprie risorse, aggiuntivamente alle risorse provenienti dal sussidio oggi a carico dell’INPS) e che ha un interesse economico a situare velocemente il lavoratore in un nuovo contesto produttivo.
Su questo disegno di riforma, qui velocemente tratteggiato, si rassegnano di seguito alcune brevi osservazioni.
1) Il progetto di legge in oggetto mira ad introdurre una semplificazione del mercato del lavoro mediante una drastica riduzione delle forme contrattuali esistenti. Sia le forme contrattuali subordinate che quelle parasubordinate dovrebbero confluire nel nuovo “contratto di transizione” destinato a diventare forma contrattuale tendenzialmente unica per tutta la popolazione attiva e in posizione economicamente dipendente. Resterebbero in vigore soltanto i contratti a termine (ma ridotti nel numero perché ricondotti alla presenza di esigenze produttive realmente temporanee), alcune forme di lavoro interinale e forse l’apprendistato. La proposta di un “contratto unico” è stata avanzata anche da altri commentatori (primi fra tutti Boeri e Garibaldi) ed apre una prospettiva interessante e da discutere in modo costruttivo. Il rischio sotteso a simili progetti è quello di una eccessiva astrazione dai reali rapporti produttivi, poiché se è vero che negli ultimi anni il legislatore si è spinto decisamente troppo in là nell’invenzione di tipologie contrattuali sempre nuove, è vero anche che imporre a forza un unico modello contrattuale a un mercato del lavoro che comunque esprime un’esigenza di flessibilità potrebbe non essere rispondente alle reali esigenze dei produttori. Forse perché consapevole di questi rischi la proposta Ichino (diversamente da quella Boeri-Garibaldi che impone il “contratto unico” ope legis a partire da una certa data e per le nuove assunzioni) lascia alla contrattazione collettiva (e individuale) la scelta per il nuovo “contratto di transizione”, scommettendo sulla sua convenienza per imprese e lavoratori.
2) Il disegno di riforma prevede dunque un progressivo ampliamento del nuovo strumento contrattuale, una sua applicazione a macchia d’olio, fino all’integrale sostituzione di tutte le forme contrattuali vigenti. Anche qui si vede una certa astrattezza di impostazione, che non tiene conto delle specificità talora spiccate dei vari contesti produttivi. In particolare non è ben chiara la convenienza per le piccole imprese (sotto i 15 dipendenti) a entrare nel nuovo regime. Se infatti per le grandi imprese l’interesse sta nel superamento della tutela reale contro i licenziamenti prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, lo stesso non può dirsi per le unità produttive più piccole. Il ddl prevede infatti, a vantaggio delle sole imprese sotto i 15 dipendenti, il versamento di un contributo statale in favore dell’agenzia di ricollocamento – vi è dunque un trasferimento di risorse pubbliche per incentivare l’attivazione di uno speciale rapporto contrattuale di natura privatistica tra il dipendente licenziato e l’agenzia di ricollocamento. Ma pur con questo incentivo non è per nulla certo che la piccola impresa trovi conveniente abbandonare il regime esistente fondato su contratti a termine, forme parasubordinate, precariato. E’ dunque assai probabile che il nuovo “contratto di transizione” non riesca a raggiungere la semplificazione sperata, ma che al contrario finisca per un creare un’ennesima figura contrattuale – modulata sugli interessi della grande impresa – da affiancare a tutte le altre oggi esistenti.
3) Il proposito della riforma è quello di superare il dualismo del mercato del lavoro, caratterizzato – secondo quanto si dice nella relazione introduttiva – da una vera e propria apartheid tra lavoratori protetti e lavoratori precari che portano da soli tutto il peso della flessibilità. La risposta che si tenta di dare a questa condizione sta nella creazione di una forma di tutela uniforme, che si colloca a un livello “mediano” rispetto alla polarizzazione oggi esistente. Rispetto a questa analisi, ancora una volta, è forse il caso di delineare un’immagine più realistica della realtà del lavoro nel nostro paese, che non è tanto caratterizzato da un dualismo, quanto piuttosto da una moltiplicazione indefinita delle posizioni, fino quasi a un’individualizzazione della situazione di ciascuno. E anche qui: se in parte vi è stata una cedevolezza eccessiva da parte del legislatore alle esigenze dell’impresa, in parte questa situazione è anche lo specchio fedele di una produzione che si è fatta “liquida”, non catalogabile, irriducibile a macro schemi unificanti. Non di dualizzazione, dunque, si deve parlare, piuttosto di propagazione indeterminata di rapporti contrattuali sempre diversi e cangianti (forse la condizione singolare di ciascuno è ancora più ricca rispetto alla pur abbondantissima offerta legislativa di ben 44 forme contrattuali ammesse). Mettere un programmatore di computer nella stessa casella del fattorino ed entrambi loro in quella della colf o dell’operaio edile rischia di essere un’iniziativa velleitaria e disperata. Siamo dunque destinati alla balcanizzazione delle tutele e delle società? Niente affatto, il punto sta nell’accordare un livello universale di tutele che faccia da contraltare alla molteplicità delle esperienze contrattuali individuali. Con alcune garanzie forti, valide per tutti e introdotte per legge (e non con la sempre più fragile contrattazione collettiva), si potrebbe guardare alla segmentazione esistente con meno allarme, perché sarebbero esclusi alla radice i rischi di dualizzazione.
4) Le tutele universalistiche da introdurre per legge sono la previsione di un salario minimo orario (che il ddl S1481 non contempla, ma che è oggetto di altro ddl degli stessi proponenti), di sostegni formativi e in generale welfaristici per i lavoratori in fase di transizione occupazionale, di una tutela compiuta ed efficace del reddito in tutte le fasi della vita produttiva e non. Solo quando sarà realizzato questo obiettivo di “dare forza” al cittadino produttivo anche fuori e oltre la sfera lavorativa, si potrà dire superata la condizione di precarietà esistenziale che oggi affligge gran parte della popolazione più o meno giovane. Occorre insomma rendere garantito per il lavoratore, anche fuori dal rapporto contrattuale con l’impresa, un livello minimo e intangibile di diritti, così da portarlo a un livello di sostanziale parità con l’imprenditore nel momento della contrattazione delle condizioni di lavoro (e senza più timori, a questo punto, per la fioritura esasperata di modelli contrattuali diversi). Un incontro finalmente alla pari tra domanda e offerta di lavoro potrebbe dare luogo a dinamiche sociali fortemente innovative, capaci di coniugare le esigenze di flessibilità delle imprese con le incomprimibili (e rigide) esigenze vitali dei cittadini lavoratori.
5) Il ddl in questione, occorre dirlo, è totalmente refrattario rispetto a questo nuovo e urgente obiettivo di crescita civile e sociale. Nonostante il richiamo alla flexicurity scandinava, la riforma è saldamente ancorata alla concezione – prevalentemente diffusa nei paesi anglosassoni – del welfare to work, che viene peraltro proposta in una forma coercitiva raramente riscontrabile nei paesi europei. Siamo qui assai distanti da quell’ipotesi patrocinata dai giuslavoristi più avvertiti (il più eminente dei quali è forse Alain Supiot, ma qui da noi si veda pure Massimo Paci o anche Massimo D’Antona) di rispondere alla crisi del lavoro, andando “al di là del lavoro”, cioè fornendo riconoscimento e garanzie alle attività oggi considerate extramercantili ed extralavorative. Al contrario la proposta in commento mira a stringere i vincoli sul lavoro mediante una più intensa mercificazione e un più veloce turnover della forza lavoro da un settore all’altro o da un impiego all’altro. In cambio di una relativa sicurezza in termini di reddito e in termini sociali, il lavoratore si presta a una totale disponibilità nei confronti del datore di lavoro (che può licenziarlo senza giusta causa monetizzando la sua uscita dall’impresa) o dell’agenzia di ricollocamento (che può a sua volta allontanarlo se non viene accettata una proposta di impiego). Occorre infatti chiarire che l’agenzia di collocamento (pur avocando a sé la funzione finora di natura pubblicistica svolta dai Centri per l’Impiego) agisce con strumenti senz’altro privatistici ed è orientata al profitto (prima riesce a ricollocare il lavoratore e più guadagna); il rapporto che la lega al lavoratore licenziato è di diritto privato, esercita su di lui un potere direttivo e può licenziarlo a sua volta se il lavoratore non si mostra abbastanza disponibile. Non è preso in considerazione nel progetto di legge alcun parametro idoneo a definire la “congruità” della proposta di impiego offerta al lavoratore dall’agenzia (anche se su questo aspetto non è da escludere lo svilupparsi di una contrattazione collettiva di un certo interesse), e ciò perché se il lavoratore lo desidera può sottrarsi dal rapporto che lo lega con l’agenzia (e in tal caso, se ne ha diritto, continuerebbe a percepire il sussidio di disoccupazione pubblico). L’effetto finale della riforma sarebbe però di fatto quello di consegnare anche i sussidi esistenti (magri certo, ma pur sempre a carattere pubblico) nelle mani dell’agenzia privata. Di fatto, anche se il “contratto di transizione” prevede tutele crescenti al protrarsi del rapporto, è facile ipotizzare un uso strumentale e distorto nel nuovo potere di licenziamento offerto alle imprese, che risulterebbero incentivate a modificare continuamente la composizione della forza lavoro per eludere i maggiori oneri conseguenti all’allungamento del periodo di presenza del lavoratore all’interno dell’azienda. Non sembra peregrina l’eventualità di una strategia aziendale improntata a una gestione “duale” della manodopera, con un nucleo di lavoratori fissi e di fatto inamovibili, da affiancare a un segmento in continua fuoriuscita dopo brevi esperienze occupazionali.
6) Comprensibilmente in questo disegno non c’è spazio per un’idea esigente di reddito minimo – e questo non perché, banalmente, un tale proposito sarebbe fuori tema rispetto all’oggetto specifico del ddl in questione. Il tema del reddito minimo come diritto soggettivo (e in generale quello dei diritti sociali di cittadinanza) non c’è perché scardinerebbe tutta la filosofia dell’intervento: se il disoccupato potesse svicolarsi dal rapporto contrattuale con l’agenzia e transitare in un sistema di garanzia pubblico più liberale e adeguatamente generoso, non vi sarebbero margini plausibili per l’accettazione e la diffusione del “contratto di transizione”.
In definitiva l’elemento di criticità che più vistosamente emerge dalla lettura della proposta risiede nel feticcio della ricollocazione a tutti i costi, rapida ed efficiente del lavoratore disoccupato, come se la mera introduzione di incentivi economici e di criteri d’azione imprenditoriali in luogo di quelli pubblicistici potesse da sola tenere luogo a una politica industriale degna di questo nome. La risposta alla crisi produttiva e alla conseguente moria di posti lavoro sta dunque nella mera attivazione, su un piano volontaristico, dell’attitudine del lavoratore a rendersi disponibile a nuove esperienze formative e/o di impiego. Si dovrebbe vedere abbastanza chiaramente l’insufficienza di tale impostazione. Di fronte alle minacce di una povertà di massa, esposti ai venti di una crisi galoppante, nella spirale di provvedimenti che conducono allo smantellamento della tutela pensionistica, la prima e irrinunciabile esigenza per la preservazione dei nostri sistemi sociali sta nella garanzia universalistica, di base, tendenzialmente incondizionata dei mezzi di esistenza. Adempiuta questa assoluta priorità si potrà affrontare forse più serenamente il capitolo della riforma del mercato del lavoro.