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colpa poverta

Reddito minimo: un po’ di chiarezza

di Giovanni Perazzoli

Da qualche tempo nel dibattito politico italiano ha fatto il suo ingresso il reddito minimo garantito. Ma la confusione regna sovrana, anche tra i giornalisti e gli ‘addetti ai lavori’.

Fiat lux: anche in Italia si è scoperto il reddito minimo garantito. Però, non c’è un articolo, dei tanti che mi è capitato di leggere sui giornali, che riporti fedelmente la realtà. Certo, bisogna colmare un vuoto d’informazione decennale, e non è semplice. Un vuoto che sarebbe un errore ritenere marginale. Ma per rendersene conto, più che frequentare la sezione di partito o prepararsi un curriculum da intellettuale impegnato laureato, bisognerebbe aver lavorato come lavapiatti a Bristol, a Berlino, aver mandato i figli negli asili della Ruhr o di Lione, aver conosciuto qualche operaio della Volkswagen, o qualche madre disoccupata tedesca, sola con figli, che mensilmente, sommando i vari sussidi, può contare su un reddito di quasi 2000 euro più una casa adeguata.

Diciamo subito una cosa: il reddito minimo garantito non è, come tutti scrivono, “a tempo” in Europa. Si confonde, forse, l’indennità di disoccupazione (generalmente è un’assicurazione su base contributiva) e il reddito minimo che è finanziato dalla fiscalità generale e al quale hanno accesso tutti, sia quelli che hanno perso un lavoro, sia quelli che non lo hanno ancora trovato. Quest’ultimo sussidio non ha un limite di tempo.

Questa confusione però è strana perché, se si tratta della durata, nei giornali si prende ad esempio di reddito minimo europeo l’indennità di disoccupazione (che è limitata), mentre per la consistenza economica (più povera), si prende ad esempio il reddito minimo (che però non ha un limite).
Forse la realtà è così incredibile in Italia da produrre una sorta di inganno cognitivo.

Comunque, la ministra Fornero sembra avere le idee chiare sul tema, visto che nota come proprio i paesi che non hanno una forma di reddito minimo garantito sono quelli maggiormente in crisi. Non è infatti assolutamente un caso che sia così. Purtroppo mi pare però che le resistenze politiche che la Fornero incontra sull’introduzione del reddito minimo garantito siano molte. Del resto, non si spiegherebbe il silenzio totale del passato. Per diverse ragioni, destra, sinistra e sindacati non amano il reddito minimo garantito.

Ci sono dunque tutte le premesse perché alla fine si arrivi a una legge inutile e mediocre. Tanto più che neanche gli studiosi cercano di diradare la confusione. Al contrario, in modo ecumenico, la accrescono.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, nel loro intervento sul CorriereDieci proposte (a costo zero) ecc. proponevano di “sostituire la cassa integrazione con sussidi di disoccupazione temporanei, ispirandosi alla flex security dei Paesi nordici”. Però la dicitura “paesi nordici” è troppo vaga. Il lettore potrebbe essere indotto a credere che si proponga il massimo della protezione sociale nord-europea, addirittura scandinava, mentre in realtà non è così. Nell'”Europa del Nord”, tolta (in parte) la Danimarca, i sussidi di disoccupazione non sono temporanei. Del resto, a questa verità si arriverebbe facilmente riflettendo su quello che ripetono da anni i leader politici europei. A sentire i Cameron, ma anche gli Schröder, parrebbe che il problema principale delle economie dei “paesi nordici” sia quello di far lavorare le persone, strappandole ai loro comodi sussidi di disoccupazione.

Se i sussidi fossero temporanei, non si capirebbe una parola (e infatti non si capisce una parola) della riforma di Cameron in Gran Bretagna (e delle relative proteste di piazza). Questa riforma non si propone certo di limitare la durata, ma di rendere la qualifica professionale un criterio meno stretto per rifiutare un lavoro proposto degli uffici di collocamento. Se, invece, per “paesi nordici” s’intende la sola, e, peraltro piccola, Danimarca, allora bisognerebbe anche aggiungere che in Danimarca è davvero difficile non trovare un lavoro. In un paese nel quale persino gli scrittori, o quasi tali, sono sovvenzionati, dove i traduttori guadagnano dieci volte quanto guadagna un traduttore italiano, lavorare ha un significato diverso da quello usuale. Insomma, un altro mondo.

Luciano Gallino nel suo Finanzcapitalismo scrive che i “lavoratori poveri” (secondo la definizione dell’Ocse) sono molti meno in Francia rispetto ad altri paesi europei solo “grazie al reddito minimo (ridenominato dal 2009 Revenu de solidarité active) che viene erogato a soggetti inoccupati, disoccupati privi di altre fonti di reddito e occupati a basso salario”.

Solo in Francia esiste dunque il reddito minimo? È solo per questa peculiarità francese che i lavoratori poveri sarebbero largamente meno numerosi che in Gran Bretagna o in Germania? In realtà, la Francia è stata l’ultimo paese europeo ad adottare una forma di sostegno del reddito “erogato a soggetti inoccupati, disoccupati privi di altre fonti di reddito e occupati a passo salario”. Il Revenu de solidarité active (RSA) sostituisce da pochissimi anni il ben noto, almeno nel senso che qualche milione di francesi sa che cosa sia, RMI, che è stato introdotto, dopo un grande dibattito, 20 anni fa, e che ha adeguato la Francia al resto d’Europa. Tedeschi, olandesi, britannici ecc. avevano già i sussidi di disoccupazione e in molti casi, come in Germania, anche più generosi di quelli francesi. In Gran Bretagna esistono da decenni due specifici sussidi, uno rivolto ai disoccupati, l’altro all’integrazione del reddito.

Comunque, visto il disorientamento che appare sui giornali nel dar conto del reddito minimo in Europa, è utile chiarire alcuni aspetti chiave.

È sviante quantificare il reddito minimo europeo. Esso in realtà si compone di diverse voci, che possono includere il numero dei figli, le spese di gestione di una casa, le esenzioni sulle spese per i trasporti, il telefono, il riscaldamento, le scuole, la sanità, il cinema, il teatro ecc. Ho letto su un grande giornale nazionale, ad esempio, che in Germania un disoccupato percepirebbe meno di 400 euro di reddito minimo. È inesatto. Forse l’errore nasce dall’aver considerato solo una voce. Prendo il caso fatto da un programma televisivo della prima rete nazionale tedesca, che ha mostrato come una commessa con due figli percepirebbe, sommando tutti i sussidi a cui avrebbe diritto se venisse licenziata, solo 100 euro in meno rispetto al suo reddito da lavoro, ovvero qualcosa come (cito con qualche approssimazione) 1700 euro.

Ci si potrebbe chiede se conviene lavorare. Ma questo è appunto l’argomento che cavalca la destra in Europa: i sussidi, si sostiene, creano la disoccupazione, chi lavora dalla mattina alla sera guadagna poco di più di quanto percepirebbe come disoccupato. Argomento che ha qualche presa sull’elettorato, specialmente se combinato con l’argomento che a non lavorare sono gli immigrati. Poiché però il rischio di perdere il lavoro esiste per tutti, questo tipo di argomenti assume il senso di limitare l’abuso del sussidio da parte dei fannulloni intenzionali.

E qui c’è il secondo aspetto da tenere ben presente quando si parla di reddito minimo garantito in Europa. La condizione per riceverlo è dimostrare di cercare un lavoro. Ma quale tipo di lavoro? Non si è chiesto fino ad oggi di svolgere un lavoro per il quale non si sia qualificati o che sia troppo lontano da casa (si noti che in Gran Bretagna gli uffici di collocamento, che peraltro funzionano, offrivano l’uso di un’automobile al disoccupato che avesse accettato un lavoro a una distanza di 100 km dalla sua abitazione). Per ridurre la “trappola assistenziale” (vera o presunta che sia) si cerca oggi di spingere il disoccupato all’accettazione di un lavoro vicino alla propria qualifica, ma non del tutto coincidente con essa. È importante conoscere questi aspetti, perché è su questi temi che si discute di riforme del welfare in Europa. Da più di un decennio.

Tratto da MicroMega

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