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basta lavoro reddito

Securflexibility, non flexsecurity.

di Andrea Fumagalli

L’articolo analizza criticamente l’editoriale di Alesina e Giavazzi (clicca qui per leggerlo) che imputa l’elevata precarietà italiana all’esistenza dell’art. 18. Il punto di vista viene rovesciato. La precarietà viene alimentata proprio da un’eccessiva libertà nell’uscita dal mercato del lavoro, grazie alla possibilità di fare licenziamenti collettivi e ad una struttura produttiva che consente solo ad un terzo della forza-lavoro di essere protetta dai licenziamenti senza giusta causa. L’art. 18 è quindi un falso problema, soprattutto in un contesto dove non esistono forme di sicurezza sociale (ad esempio un reddito minimo incondizionato) adeguate alla flessibilità del mercato del lavoro. Ed è proprio una riforma strutturale degli ammortizzatori sociali che metta al primo piano lasicutrezza sociale che si potrà poi discutere in un secondo momento lariforma del mercato del lavoro.

 

A leggere l’editoriale di Alesina e Giavazzi pubblicato sul CdS di domenica, uno spettro si aggira per l’Italia. E’ lo spettro dell’art. 18., causa di ogni male, in particolare della precarietà.  Dopo anni di occultamento della realtà, Alesina e Giavazzi sono costretti ad ammettere che il numero di precari, prima della crisi (chissà dopo) ammonterebbe a 4 milioni (circa il 20% della forza-lavoro). E’ un dato sottostimato. Stime più complete (sulla base dei dati Isfol) arrivano, infatti, a ipotizzare, comprendendo anche tutte quelle situazioni di lavoro autonomo che nascondono in realtà forme di subalternità e eterodirezione, un numero di precari di poco inferiore ai 7 milioni (un terzo della forza lavoro), che arriva a superare  il 50% per chi ha meno di 35 anni. Il numero è destinato ad aumentare, se si considera che, secondo l’Osservatorio   Provinciale di un’area comunque ricca come quella di Miano, nel corso del 2010, su 10 nuovi entrati nel mercato del lavoro solo uno era con un contratto standard di lavoro (9,8%) e solo uno su tre riesce a stabilizzarsi.

Se non si può negare l’evidenza, allora è necessario trovare le ragioni. Scrivono infatti Alesina e Giavazzi: “per un’impresa, passare un lavoratore dalla precarietà ad un contratto a tempo indeterminato significa renderlo illicenziabile, a causa appunto dell’art. 18 e questo comporta un rischio troppo elevato per l’impresa stessa”.  E aggiungono: “Non solo, ma un impresa non investe nella formazione di un lavoratore che dopo pochi mesi perderà (!!): quindi la produttività dei giovani precari rimane bassa, non imparano nulla e più l’età avanza meno diventano impiegabili”.

E’ necessario fare un minimo di chiarezza e fare un bagno di realtà. In Italia, il numero dei lavoratori formalmente protetti dall’art. 18 in imprese private con più di 15 dipendenti sono poco più di 7,7 milioni (il numero delle imprese è invece poco più di 114.000, un’inezia se paragonato al numero totale delle imprese: dati Istat), poco più del 40% del totale degli addetti privati.  Ciò significa che sei dipendenti privati su 10 non sono tutelati dall’art.18. Tale quota tende poi in realtà ad aumentare, se si considera che la maggior parte delle imprese con più di 15 dipendenti si concentra nella faccia dimensionale tra i 15 e i 25 addetti, laddove la presenza del sindacato è assai scarsa e quindi il controllo dell’applicazione dello Statuto dei Lavoratori più labile. Ciò significa che poco più di un terzo (comunque non la maggioranza, come sembra emergere dagli articoli di molti commentatori e economisti) della forza-lavoro privata italiana è illicenziabile?

Niente di più falso.  Ciò che è impedito è solo il licenziamento individuale. La Legge 223 del 1991 ha infatti introdotto la possibilità di licenziamenti collettivi, anche per ragioni economiche. Al punto che le cronache economiche di questi mesi sono costellate da notizie relativi a licenziamenti. Solo per rimanere in Lombardia, basti pensare alla Jabil, alla Lares, alla Metalli, alla Nokia, all’Eutelia, alla Yamaha, alla Wagon Lits, alla Whirpool, all’Omsa solo per citare i casi più clamorosi. E’ evidente che il licenziamento per ragioni economiche (delocalizzazione, chiusura di stabilimento, ristrutturazione, ecc.) avviene sempre in modo plurimo, non avendo senso licenziare un singolo lavoratore.  E’ quindi pretestuoso e falso affermare che impedire il licenziamento individuale per ragioni economiche obbliga le imprese ad assumere solo tramite contratti precari. Se le imprese con più di 15addetti assumono prevalentemente tramite contratti precari in tempo di crisi (ma non solo) è perché intendono scaricare sulla flessibilità del lavoro l’incertezza e i costi della crisi, non viceversa. ed è proprio questa miope strategia imprenditoriale, tesa ad accrescere illusoriamente competitività via riduzione dei costi piuttosto che via aumento della qualità e della produzione, a incidere negativamente sulla dinamica della produttività. Ancora una volta Alesina e Giavazzi confondono la causa con l’effetto. La produttività in Italia è bassa perché le economie di scala dinamiche che ne stanno alla base (di apprendimento e di rete) richiedono continuita di lavoro e di reddito proprio perché possano  garantire rendimenti crescenti nel tempo. Ciò significa che la scrsa produttività italiana è dovuta proprio ad un eccesso di precarietà e non è certo abrogando l’art. 18 (o introducendo gabbie salariali) che tale problema può essere risolto.

Infine Alesina e Giavazzi chiedono che in cambio della liberalizzazione dei licenziamenti individuali le imprese partecipano in misura maggiore al finanziamento dei sussidi di disoccupazione erogati dall’Inps. E’ utile ricordare che già oggi il sussidio di disoccupazione viene finanziato dai contributi sociali versati dalle imprese e dai lavoratori, allo stesso modo della CIG straordinaria e delle indennità di mobilità. Si tratta di ben misera cosa in confronto al via libera ai licenziamenti! Nulla viene detto infatti riguardo ai parametri che limitano l’accesso a tali sussidi, ovvero la durata (massimo otto mesi) e l’ammontare  (pari al 60% della retribuzione lorda mensile per i primi 6 mesi, al 50% per il settimo e l’ottavo mese, per un livello comunque non superiore a 858 euro mensili).

E’ necessario invece rovesciare il ragionamento di Alesina e Giavazzi (e anche dell’attuale governo): prima di intervenire su qualsiasi processo di riforma del mercato del lavoro, sarebbe più utile e produttivo procedere ad una razionalizzazione del sistema degli ammortizzatori sociali tramite due semplici misure:  la separazione tra assistenza (a carico della fiscalità collettiva) e previdenza contributiva (a carico, tramite Inps, dei lavoratori e delle imprese) e l’introduzione di un’unica misura di reddito di base, erogato in modo individuale e incondizionato a tutti coloro che hanno un reddito inferiore ad una determinata soglia (da contrattare), indipendente dalla tipologia contrattuale, condizione professionale, stato di cittadinanza, ecc.

Solo in presenza di sicurezza sociale garantita, il mercato del lavoro potrà acquisire quella mobilità funzionale al diritto di scelta del lavoro e non all’obbligo del lavoro.  Solo se sarà operativo un effettivo regime di secur-flexibility (e non flex-security), allora il problema del mantenere in vigore l’art. 18 diventerà un falso problema e avrà  esclusivamente la funzione di proteggere i lavoratori da forme di discriminazione.

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