Sarebbe pure servito anticipare per queste coorti limitate di lavoratori la riforma degli ammortizzatori sociali, offrendo a chi è povero in famiglia, non trova un lavoro alternativo e ha esaurito le indennità di mobilità e i sussidi di disoccupazione, un reddito minimo garantito fino, e se necessario oltre, l´andata in pensione. Sarebbe stata un´utile sperimentazione di una riforma da estendere gradualmente a tutti e un primo passo verso quella separazione fra previdenza e assistenza che tutti, a parole, dicono di volere.
Speriamo che i protagonisti dei tavoli sul mercato del lavoro (virtuali o di legno che siano) abbiano trovato il tempo nel fine settimana di leggere i risultati dell´ultima indagine sui bilanci delle famiglie italiane, resi disponibili da Bankitalia nei giorni scorsi. Ci dicono che dal 2006 al 2010 la povertà è aumentata di 6 punti percentuali fra chi ha meno di 45 anni, è cresciuta di poco tra i 45 e i 65 anni e si è ridotta al di sopra di questa età.
È un profilo per età che corrisponde perfettamente a quello del precariato: la povertà aumenta perché non si riesce ad entrare nel mercato del lavoro, perché ci sono molti lavoratori poco qualificati con lavori temporanei con bassi salari che non tengono il passo con l´inflazione e perché chi non è tutelato perde il posto di lavoro. Tutto questo spiega anche perché in questi anni si è invertita la tendenza, che sembrava sin qui inarrestabile, alla riduzione della dimensione media dei nuclei famigliari. Il fatto è che giovani tornano a casa perché per loro la famiglia rappresenta l´unico ammortizzatore sociale. È una scelta costosa perché comporta la rinuncia a fare progetti di vita, fare figli, e impedisce la mobilità sociale. Il vice-ministro Martone, che ha ricevuto l´idoneità in uno di quei concorsi in cui si vince perché tutti gli altri candidati si ritirano, li potrà pure chiamare “sfigati”, ma i laureati di lungo fuori corso sono principalmente persone che vivono in famiglia con genitori che hanno solo la licenza elementare.
Le disuguaglianze prodotte sul lavoro e fuori dal lavoro non servono, come in altri paesi, a farne crescere la produttività. Al contrario, il divario nella produttività del lavoro, dunque nella competitività delle nostre imprese, si è ulteriormente accentuato. Abbiamo perso quasi 30 punti di competitività al cospetto della Germania nel giro di 10 anni. Il fatto è che chi viene espulso dal mercato e chi fatica ad entrare è spesso chi ha maggiore capitale umano e potrebbe grandemente contribuire a rendere più competitive le nostre imprese.
Ci sono perciò ragioni tanto “di sinistra” (le disuguaglianze crescenti) che “di destra” (la produttività in calo) per riformare il mercato del lavoro, i cui nodi strutturali sono stati solo esacerbati dalla recessione. Bisogna riformarlo sul serio. Far finta di cambiare per non cambiare nulla non servirà neanche a rassicurare i mercati finanziari che hanno perfettamente capito che i problemi del nostro paese sono legati alla bassa crescita. Il contratto di apprendistato c´è già in Italia, c´era già prima della recessione. È uno strumento utile, ma non può contrastare il precariato che ormai riguarda persone con più di 40 anni, tra cui molte donne che rientrano dopo periodi di maternità. Oggi il contratto di apprendistato coinvolge circa 250.000 persone, con livelli di istruzione più alti della media e riguarda in 7 casi su 10 chi ha meno di 24 anni. Non potrà mai riguardare milioni di lavoratori di tutte le età. Bene, in ogni caso, accertarsi che ci sia effettivamente contenuto formativo e non solo sconto retributivo in questi contratti, che possono oggi essere rescissi dal datore di lavoro, senza costi, al termine del periodo di formazione.
Gli incentivi fiscali alla conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato sono costosissimi (come prova l´esperienza dei bonus-Sud e bonus assunzioni introdotti nel 2000 e poi rimossi in fretta e furia perché erano costati 10 volte di più di quanto preventivato) e non servono minimamente a ridurre il dualismo. I datori di lavoro assumono i lavoratori fin quando dura il sussidio per poi licenziarli subito dopo. In Spagna sono stati ampiamente sperimentati per concludere che “il loro ampio utilizzo ne ha compromesso pesantemente l´efficacia”, come recita un documento ufficiale del Governo spagnolo, basato sulle conclusioni di commissione parlamentare e del Consejo Economico y Social, con tutte le forze sociali rappresentate. Hanno raggiunto questa conclusione perché si sono accorti che i lavoratori delle regioni coinvolte avevano subito un incremento della probabilità di essere licenziati rispetto a quelli delle regioni non coperte dagli incentivi fiscali.
Un salario minimo orario non costerebbe nulla alle casse dello Stato. Servirebbe molto a proteggere i lavoratori più deboli negli anni ad alta inflazione che presumibilmente ci stanno di fronte. In Italia il salario minimo favorisce anche il decentramento della contrattazione, che permette di stabilire un legame più stretto fra salari e produttività, motivando di più i lavoratori che hanno già un contratto a tempo indeterminato e che continueranno ad essere protetti dalle tutele attuali. Prospettare un percorso di ingresso nel mercato del lavoro che non comporti in partenza una data di scadenza stimola, questo sì, gli investimenti in formazione: la percentuale di lavoratori formati in azienda cresce con la durata potenziale dei contratti. Avere nei primi anni di assunzione risarcimenti monetari in caso di licenziamento senza giusta causa, crescenti col tempo passato in azienda, offre tutele a chi oggi non ne ha e non ne toglie a chi le ha già. Al contempo serve a permettere ai datori di lavoro di scegliere meglio chi assumere, su chi investire, migliora il clima in azienda scoraggiando i comportamenti opportunistici. Questo percorso di ingresso va peraltro offerto a tutte le età, a 20 anni come a 55. Come dimostrano l´esperienza dell´Austria e della Francia, la scelta di far crescere i costi di licenziamento con l´età (anziché con la durata del posto di lavoro) fa aumentare la disoccupazione fra i lavoratori più anziani. Perché datori di lavoro già diffidenti sulla produttività di questi lavoratori, non sono in genere propensi a prendere impegni di lungo periodo con lavoratori vicini all´età di pensionamento. Il contratto di ingresso servirà così anche a dare opportunità e tutele ai lavoratori bloccati dalla riforma delle pensioni varata dal Governo in dicembre. Sarebbe pure servito anticipare per queste coorti limitate di lavoratori la riforma degli ammortizzatori sociali, offrendo a chi è povero in famiglia, non trova un lavoro alternativo e ha esaurito le indennità di mobilità e i sussidi di disoccupazione, un reddito minimo garantito fino, e se necessario oltre, l´andata in pensione. Sarebbe stata un´utile sperimentazione di una riforma da estendere gradualmente a tutti e un primo passo verso quella separazione fra previdenza e assistenza che tutti, a parole, dicono di volere. Invece si è scelta la strada degli interventi ad hoc per i lavoratori “esodati” e “precoci”, una strada inevitabilmente iniqua perché crea asimmetrie nei trattamenti a seconda del periodo in cui si è entrati nelle liste di mobilità.
Tratto da La Repubblica 30 gennaio 2012