Contributo al dibattito, dopo l’appello del Bin Italia a prendere parola per un reddito garantito.
Il tema del reddito minimo di cittadinanza è entrato nel dibattito politico nazionale da quando la Ministra Fornero ha espressamente prospettato la possibilità di introdurlo nel nostro ordinamento. Sollecitazioni a muoversi in tal senso giungono anche dall’Unione europea. Non solo il Parlamento ne auspica la diffusione come misura generalizzata di protezione e inclusione sociale in tutti gli Stati Membri, ma negli specifici documenti rivolti all’Italia nell’ambito della governance economica se ne suggerisce l’adozione (più o meno esplicitamente), come misura atta a superare le attuali asimmetrie che caratterizzano il nostro sistema di ammortizzatori sociali.
Nell’ottica delle istituzioni europee ciò dovrebbe accompagnarsi ad una riforma strutturale del mercato del lavoro tesa a ridurne la segmentazione. E’ su questo piano che il tema del reddito minimo come misura universale di tutela del reddito si incrocia con la vexata quaestio della flessibilità in uscita. Il reddito minimo garantito si configura così come una sorta di merce di scambio funzionale a compensare la riduzione di tutele nel rapporto di lavoro, secondo la nota logica ispirata all’idea di flexicurity. Non è un caso che le aperture nei suoi confronti giungano da un Governo che propone al contempo di superare la Cassa integrazione straordinaria e le attuali garanzie contro il licenziamento illegittimo assicurate dall’art.18 dello Statuto.
E’ evidente allora che il tema si presta ad un utilizzo strumentale, non condivisibile (ed infatti non condiviso) dal fronte sindacale. E’ necessario perciò fugare alcune ambiguità che accompagnano il dibattito in corso, onde evitare che il reddito minimo garantito, da misura di inclusione sociale capace di dare forza contrattuale nel mercato a chi oggi ne è totalmente privo (nella logica di secur-flexibility piuttosto che di flex-security, suggerita da Fumagalli sulle pagine de il Manifesto), si traduca in una forma di redistribuzione a somma zero tra i lavoratori delle risorse oggi utilizzate per gli ammortizzatori esistenti; ciò nella solita ottica di contrapposizione tra (supposti) garantiti e non, che impone ai primi i sacrifici per sostenere i costi delle tutele da estendere ai secondi.
Questi i punti chiave sui quali, per chi scrive, è necessario far chiarezza al fine di sviluppare un confronto sul tema scevro da ambiguità.
Primo: non c’è nessuna relazione tra flessibilità in uscita e reddito minimo. I due temi vanno disgiunti, contrastando l’ottica proposta/imposta dalle istituzioni dell’UE (o meglio dalla Troika). Sia perché non è privando i lavoratori del diritto al lavoro in caso di licenziamento arbitrario (di ciò si tratta quando si parla di art.18) che si agevola il problema del sostegno del reddito; piuttosto si aggrava, deresponsabilizzando le imprese. Sia perché il reddito di cittadinanza non dovrebbe essere destinato a chi perde il lavoro per ragioni economiche ma a chi è fuori dal sistema produttivo, configurandosi appunto come misura di inclusione sociale.
D’altra parte non è affatto vero che nei paesi dove più forti ed estese sono le misure di tutela del reddito “nel mercato”, minori sono le garanzie “nel rapporto” contro il licenziamento (come insegna il caso svedese).
Secondo: reddito di cittadinanza non significa salario minimo imposto per legge. Il primo è una forma di sostegno del reddito per chi è in cerca di lavoro o lo ha perso, il secondo serve ad assicurare uniformità di trattamento economico tra i lavoratori per evitare il dumping interno al mercato nazionale. Questo secondo obiettivo è stato fino ad oggi garantito riconoscendo i minimi stabiliti dal contratto collettivo di categoria come vincolanti per tutte le aziende. E’ opportuno che tale prospettiva non sia superata, perché funzionale a rafforzare il ruolo del sindacato (per questo contrario ai minimi ex lege). E’ invece necessario far sì che l’applicazione del contratto nazionale come strumento di garanzia dei minimi retributivi sia estesa a chi oggi ne è escluso (in primo luogo i lavoratori parasubordinati e falsi autonomi). Discorso che si associa ad una riforma del mercato del lavoro che superi l’attuale proliferazione di contratti atipici e contrasti il ricorso al falso lavoro autonomo.
Terzo: non gettare il bambino con l’acqua sporca, ovvero perfezionare e non distruggere gli ammortizzatori esistenti. La Cassa integrazione ha dato prova di reggere anche in situazioni di crisi economica come la presente. Abrogarla, o mantenere solo quella ordinaria, rappresenterebbe un salto nel vuoto al momento ingiustificabile. D’altra parte la pensano così tutte le parti sociali. Si tratta piuttosto di migliorarne il funzionamento, estenderla strutturalmente alle aziende che ne sono prive, con una riforma non emergenziale (com’è quella che ha introdotto la cassa in deroga). Migliorarne il funzionamento significa anche riportarla alla sua logica originaria, di strumento funzionale ad evitare i licenziamenti quando è possibile farlo attraverso un riassetto dell’organizzazione produttiva. Dunque, certo, è necessario che il suo utilizzo implichi precisi obblighi per le imprese, sia limitato nel tempo e non prorogabile all’infinito, secondo quanto già prevede la l.223/91.
Quarto: inquadrato in questa prospettiva, il reddito minimo dovrebbe configurarsi come una misura di sicurezza sociale di natura universalistica, finanziato dalla fiscalità generale e destinato a quanti restano fuori dal sistema degli ammortizzatori sociali, a base assicurativa. Un reddito minimo non legato alla precedente attività lavorativa e per questo configurabile come diritto di cittadinanza. Il vero nodo da affrontare è ovviamente quello del finanziamento di una simile misura, che richiede scelte chiare di redistribuzione del reddito (quindi fiscali). Scelte che chiamano in causa sia lo Stato che le regioni, posto che la materia è necessariamente di competenza anche di queste ultime, come ribadito dalla Corte costituzionale. Il problema del finanziamento del reddito di cittadinanza si intreccia quindi con quello delle risorse di cui dispongono gli enti locali per finanziare la spesa sociale e non può prescindere da un ripensamento complessivo delle linee di politica economica sin qui perseguite dall’attuale (e dal precedente) governo.
Giovanni Orlandini
Università di Siena