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Proposta per il reddito minimo

di Raffaele Cimmino

Paradossalmente dobbiamo al governo Monti – oltre che alle dubbie capacità comunicative della ministra Fornero- l’inizio di un dibattito più ampio sul tema del reddito minimo e di una riforma del welfare rivolta al bacino sempre più grande del precariato. Il governo, però, gettata assai presto la maschera riformista, si è risolto per la facile e non inaspettata strada dei tagli delle pensioni e degli ammortizzatori sociali e del tentativo di manomissione dell’art. 18. Non poteva mancare ovviamente, ed è stata distribuita a piene mani, la retorica ormai abusata sulla contrapposizione tra vecchi e giovani, tra insiders e outsiders che da un paio di decenni almeno funziona da impianto discorsivo di qualunque proposta di matrice neoliberista sulle politiche del lavoro.

Diventa dunque forte la necessità di contrastare anche sul piano immediato della proposta, oltre che della mobilitazione, le “ineluttabili” misure che da questo governo sono state o sono in procinto di essere adottate. In questo senso la difesa dell’art. 18 segna il terreno di una battaglia da condurre fino in fondo insieme al sindacato, proprio perché attiene allo statuto simbolico della condizione del lavoro oltre che alla difesa concreta dei lavoratori (basta chiedere ai tre operai di Melfi licenziati e reintegrati dal giudice). Ma soprattutto perché quella norma è parte integrante, insieme al contratto nazionale e a al welfare, di un modello sociale, quello europeo, che si vorrebbe definitivamente consegnare al passato, perché – si dice – non possiamo più permettercelo.

Siamo del resto al giro di boa di una crisi sistemica che è un prodotto del neoliberismo ma che il neoliberismo, inteso come dispositivo politico prima ancora che organizzazione (sempre di meno) della produzione e della distribuzione (soprattutto delle rendite), sta volgendo in una straordinaria occasione di ristrutturazione e riorganizzazione di sé stesso. Non sorprende dunque che si stiano incistando in Europa forme nuove di autoritarismo che consentiranno di portare a termine quell’accumulazione per espropriazione di cui la crisi è la leva e che in Grecia ha impiantato il suo primo laboratorio, al punto che la natura della democrazia europea diventa in tutta evidenza la vera posta in gioco. La stessa stretta sul modello sociale europeo vorrebbe segnare compiutamente il passaggio dei paesi della UE alla democrazia di mercato. Un modello di società, di cui il Fiscal compact vuole essere costituzione materiale, a cui stanno lavorando intensamente le classi dirigenti europee nelle loro diverse articolazioni nazionali (di questo disegno il montismo rappresenta appunto la variante domestica).

La risposta all’attacco dispiegato alla società europea non può che essere all’altezza della sfida e collocata sulla stessa scala. Per questo vanno esplorate le potenzialità politiche di nuove forme di democrazia partecipata, del governo dei beni comuni e del reddito minimo contro il paradigma dell’economia del debito e della precarietà. Ma se il piano nazionale resta la cornice dentro cui costruire alleanze sociali e mobilitazione immediata, non si può perdere di vista la dimensione, pure quasi tutta ancora da costruire, di un’Europa federale finalmente democratizzata. Un’ Europa nella cui nella stanza dei bottoni, attraverso una riforma delle istituzioni- dei poteri del Parlamento in primo luogo – facciano irruzione i popoli o, meglio, il demos, il popolo europeo, sfrattando le tecnocrazie a-democratiche.

Un primo per quanto debole strumento per far sentire la voce del popolo europeo c’è già come ci ricorda nel suo ultimo libro Giuseppe Bronzini di BIN Italia: è l’art. 11 del trattato di Lisbona, di cui a febbraio dello scorso anno è stato pubblicato il regolamento, disciplina l’istituto dell’Iniziativa dei cittadini europei (ICE) che consente di richiedere agli organismi europei un intervento legislativo su singoli temi tramite la raccolta di firme a livello continentale (un milione in almeno sette stati della UE).

E’ possibile iniziare da qui, dalla raccolte di firme per chiedere l’istituzione di un reddito minimo su scala europea procedendo nella direzione già auspicata dal Parlamento di Strasburgo con la risoluzione sul ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa approvata nell’ottobre 2010 – anche se va detto che in varie forme il reddito minimo è già in vigore in tutti i paesi della UE tranne che nel nostro, in Grecia e in Ungheria. Si potrebbe agire così una mobilitazione dal basso e una campagna fondata su proposte alternative a quelle che innervano il montismo, tenendo insieme la battaglia per il reddito minimo con quella per i beni comuni, la tutela del lavoro in una logica di riconversione ecologicamente e socialmente sostenibile del modello di sviluppo con una nuova idea di cittadinanza che includa innanzitutto i migranti.

Non si partirebbe da zero: perché, come dimostrano il successo del referendum per l’acqua pubblica e le tante vertenze e resistenze diffuse nel paese, c’è moltissima politica nella società; è la politica reattiva in forme né qualunquistiche né populistiche di cui ha parlato Stefano Rodotà. La sfida, anche attraverso la battaglia per il reddito minimo e la lotta per la tutela del lavoro e il diritto a un welfare dotato di risorse e più inclusivo, è fare diventare questa politica maggioritaria.

Tratto dal sito di Sinistra Ecologia Libertà

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