Alla fine ci si torna sempre. A quella contrapposizione di principio tra reddito di cittadinanza e piena occupazione, impermeabile al mutare delle circostanze e indifferente al corso della storia e cioè, per dirla in una sola parola, squisitamente dottrinaria. Ci ritorna sul manifesto del 15 giugno Giorgio Lunghini a partire dalla sua dichiarata affezione per la seguente formulazione di Adam Smith: «Il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma».
A me sembra che ciò che il mondo contemporaneo consuma in un anno o in un giorno dipenda assai più da ciò che scommette, ipotizza, immagina, proietta che non da ciò che realmente produce. L’alea di un futuro consumabile è ogni giorno sul mercato. Il capitale finanziario e gli effetti che esso determina materialmente sulle nostre vite, non scompaiono semplicemente perché ne decretiamo l’irrealtà. Non si chiamano forse «prodotti» i pacchetti finanziari che il mellifluo funzionario della banca offre alla sua clientela? E ha ancora un senso parlare di «Repubblica fondata sul lavoro» a proposito di un paese in cui il più grande dei sindacati è quello che rappresenta i pensionati, massa crescente di rentiers di cui mi sembrerebbe un po’ efferato reclamare l’eutanasia?
Dovremmo dunque evitare di ricondurre costantemente la discussione sul reddito di cittadinanza iuxta propria principia. Se non per un aspetto più filosofico che economico, ossia la contrapposizione o quantomeno l’attrito tra l’etica del lavoro e l’etica della libertà. Negare questo attrito comporta, come sappiamo, conseguenze assai funeste. Ma una volta messo al sicuro il principio converrà volgere lo sguardo alle condizioni in cui ci troviamo, sottraendo il lavoro a quell’astrattezza sovrastorica che ne maschera le metamorfosi formali e sostanziali, e collocare in questo contesto il tema del reddito incondizionato.
Quel reddito – sostiene Lunghini – «è semplicemente l’eccesso del salario percepito dai lavoratori occupati rispetto al costo di riproduzione di questi». Questa eccedenza, come sappiamo, è inerente al rapporto capitalistico e, più in generale, a ogni processo di accumulazione. Ma può prendere diverse strade, a seconda dei rapporti di forze e delle conseguenti politiche redistributive. Questione che, di fronte all’enorme concentrazione della ricchezza cui assistiamo, non è certo trascurabile. Tuttavia la questione più importante è un’altra.
Secondo Lunghini il reddito di cittadinanza costituirebbe un palliativo incapace di garantire autonomia politica ed economica ai non occupati, suscettibile di accrescerne il numero e l’emarginazione. Tutte queste conseguenze effettivamente negative derivano da un punto di vista che considera il reddito di cittadinanza, come un puro e semplice ammortizzatore sociale, una compensazione in termini di reddito garantito di quanto non offre più il mercato del lavoro salariato. Ed è un presupposto sbagliato. Per rendersene conto bisogna porsi almeno due domande: di cosa si occupano i non occupati? E cosa se ne fa il capitale delle loro vite? I cosiddetti non occupati, tra cui bisogna annoverare un gran numero di lavoratori intermittenti, temporanei, occasionali, costituiscono il più grande se non l’unico laboratorio di sperimentazione e progettazione di nuovi servizi e attività culturali, sociali, politiche, nonché di attività produttive minori, in perenne conflitto con norme e regolamentazioni imposte da burocrazie nazionali ed europee che operano al servizio di corporazioni e poteri forti. Il tutto fiscalmente penalizzato nell’illusione, di incrementare il mercato del posto fisso. Per tornare a una formula più volte ribadita esiste una vasta cooperazione sociale produttrice di ricchezza, non riconosciuta in termini di reddito e di garanzie. Quanto alla seconda domanda, il capitale cattura a piene mani, trasformando in sua proprietà o in suo prodotto, procedimenti e risultati di questo insieme complesso di attività, avvalendosi anche di un apparato giuridico e contrattuale che spudoratamente lo agevola. Volendo dirla in maniera un po’ sfacciatamente provocatoria, tutti i discorsi sulla piena occupazione non fanno i conti con il fatto che la piena occupazione esiste già e si dà appunto in questa forma e con queste modalità. Si potrà certo obiettare che siccome i singoli e le collettività cercano sempre di tirare a campare, messa così la piena occupazione c’è sempre stata, ragion per cui questo discorso sarebbe privo di senso. Tuttavia mi sentirei di controbattere che in altre epoche e in altri contesti la massa degli esclusi vegetava in condizioni soggettive e oggettive di sostanziale passività. Non è certo questo il caso della “inoccupazione” contemporanea segnata da un attivismo evoluto e inventivo che produce indirettamente profitti, ma non riceve direttamente alcun reddito. Considerare dunque il reddito di cittadinanza, non come un ammortizzatore sociale, ma come retribuzione della partecipazione a questo processo di produzione della ricchezza costituirebbe la base dell’autonomia economica e politica dei singoli e non la sua negazione. La possibilità di sottrarre il proprio agire a una condizione di ricatto.
Ma proprio qui si manifesta il punto decisivo del conflitto e cioè il controllo sulla cooperazione sociale e sull’attività dei singoli. Se, infatti, attraverso il reddito di cittadinanza retribuiamo, senza la sacra mediazione del mercato, un insieme di interazioni sociali e di scelte produttive a prescindere dalla forma o direzione che esse prenderanno, o dal genere di bisogni e di desideri che intendono soddisfare, allora, e qui torniamo ai principi, il lavoro sarà subordinato a un’etica della libertà. E ci troveremmo più dalle parti della costituzione americana che di quella italiana, il che non significa viaggiare verso la legittimazione del capitalismo selvaggio. Il feticismo del reddito da lavoro come unico fondamento dell’autonomia del singolo deriva dal fatto che il lavoro presuppone sempre un datore di lavoro o un committente, un comando, un controllo e dunque, in ultima analisi, una eteronomia.
Il presupposto da cui muove Lunghini non può che essere pienamente condiviso: «Il livello della produzione capitalistica non viene deciso in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di una umanità socialmente sviluppata, bensì in base al saggio dei profitti». Se si vuole sostenere una crescita dell’occupazione che poggi sulla soddisfazione dei bisogni insoddisfatti, e in quanto tali inesauribili, bisognerà avventurarsi «fuori dalla dimensione capitalistica e mercantile della società», agendo negli spazi, se ve ne sono, che essa non intende occupare. Tutto il problema sta nella natura di quel «fuori». Ossia nella scelta e nella forme di esecuzione di quei lavori concreti strettamente vincolati ai valori d’uso, e soprattutto nel soggetto investito di questa scelta. Che per Lunghini è ancora una volta lo stato, sia pure attraverso «istituzioni tutte da inventare», che quelle già inventate a questo scopo sono piuttosto agghiaccianti. Chi deciderà se gli ausiliari del traffico siano lavoro socialmente utile? Se la street art risponda o meno a un bisogno sociale? In quali quantità e con quali modalità dovremo distribuire il nostro tempo nel mosaico di attività che compongono la vita precaria? E soprattutto quale sarà il livello di reddito equo per il nostro operare a favore dei bisogni sociali ossia per il “lavoro socialmente utile”, certificato da qualcuno come tale? E anche, una volta usciti dall’economia di mercato continuerà ad imporsi una qualche forma di calcolo costi-benefici e con quali parametri? Le risposte che sono state date a questi quesiti non possono certo dirsi soddisfacenti.
Se è vero che i “lavori concreti” contribuirebbero, attraverso il soddisfacimento di bisogni sociali, anche alla produttività del lavoro astratto impegnato nella produzione di valori di scambio, e magari al contenimento del suo costo, non è altrettanto vero che contribuirebbero ad accrescere l’autonomia della comunità operosa del precariato. Il reddito di cittadinanza non è che la possibilità di agire, avendo garantite dignitose condizioni di vita, fuori dal mercato senza per questo dover sottostare all’esame di uno “stato etico”, alla sua idea di “concretezza” e “utilità”. È, al tempo stesso, un mezzo di produzione e uno strumento di libertà. Un investimento al buio sulle soggettività e sulla potenza della loro interazione. Bisogna fidarsi di questi “spiriti animali” senza scopo di lucro? Forse. Dello stato è abbastanza assodato che no. Tra le tante definizioni che del reddito di base sono state date se ne potrebbe allora aggiungere un’altra: reddito di libertà.
Articolo di Marco Bascetta pubblicato su Il Manifesto del 19 giugno 2013.