Si parla molto di reddito di cittadinanza ultimamente: discutiamone con l’ideatore della proposta di reddito di base, il prof. Andrea Fumagalli.
In questo periodo, a seguito della marcia da Perugia ad Assisi che il Movimento 5 Stelle ha organizzato per fare pressione affinché si discuta della possibilità di istituire un reddito di cittadinanza a favore dei più poveri e della campagna analoga promossa dall’associazione Libera, il tema degli strumenti politici per la lotta contro la povertà è tornato al centro del dibattito pubblico.
Uno degli economisti italiani che più si sono impegnati sul tema è Andrea Fumagalli, docente di Economia Politica all’Università di Pavia. Il professor Fumagalli è stato ascoltato da esponenti del Movimento 5 Stelle, i quali hanno raccolto alcune delle sue proposte nella stesura della loro proposta di legge relativa; per esempio, il M5S propone un reddito garantito di 780 euro per coloro i quali non arrivano a questa soglia, calcolato considerando come soglia di povertà il 60% del reddito mediano della distribuzione dei redditi.Ma né il M5S né le altre formazioni politiche che si sono interessate al tema hanno accettato un punto cardine della proposta di Fumagalli: l’assenza di condizioni da rispettare per il ricevimento del reddito.
Il professore non ritiene che il reddito di base – così il nome tecnico che attribuisce alla sua proposta – debba essere erogato a condizione che il percettore accetti una proposta di lavoro; il reddito deve essere uno strumento di libera determinazione del proprio destino, deve determinare il diritto alla scelta del lavoro piuttosto che l’accettazione di qualunque impiego, dunque deve essere erogato finché la persona interessata non ha trovato senza alcuna imposizione coattiva da parte dello Stato un modo per farne altrimenti, attraverso la realizzazione personale. Conosciamo meglio il professor Fumagalli e le sue idee.
Professore, in che modo si è strutturata la sua formazione?
Essendo stato coinvolto nelle contestazioni studentesche del 1977, inizialmente pensavo di iscrivermi a filosofia; avendo poi trovato un corso in «Discipline economiche e sociali» all’Università Bocconi di Milano (allora molto diversa da quella che è oggi) dove non vi erano materie di economia aziendale, bensì, ad esempio, di epistemologia, sociologia e storia economica, insieme a materie con indirizzo quantitativo; ho preferito cominciare questo secondo percorso.
La mia successiva formazione si è incentrata sull’economia ad indirizzo eterodosso, fino a laurearmi con una tesi dedicata al circuito monetario di Augusto Graziani, discussa con Giorgio Lunghini; un indirizzo non in linea con l’attuale corso della Bocconi, cosa che ha portato alla chiusura del corso che impartivo sino a 6-7 anni fa.
Le sue idee riguardo la liberazione dal lavoro come costrizione falsamente libera e la lotta per la conquista del diritto alla scelta del lavoro ricordano le posizioni dell’operaismo e del post-operaismo: in che rapporto si colloca lei con questo filone di pensiero?
Io mi considero un esponente del neo-operaismo.
Ho cominciato a collaborare con esponenti operaisti (tra cui Sergio Bologna) scrivendo per la rivista «AltreRagioni» dal ’90: in questo periodo ho cominciato ad interessarmi delle tematiche del reddito di base, fino alla pubblicazioni delle mie «tesi sul reddito» alla fine degli anni ’90, nel libro «Tute bianche».
Con la nascita di UniNomade ho poi approfondito la conoscenza con altri esponenti dell’operaismo e del neo operaismo, da Toni Negri, a Christian Marazzi a Sandro Mezzadra, Carlo Vercellone, Cristina Morini e molti altre/i.
In che modo risponde alle critiche rivolte all’operaismo riguardo un’eccessiva concentrazione di pensiero sul «Frammento sulle macchine» di Marx?
[N.B. Il Frammento sulle macchine è un testo in cui il filosofo tedesco immaginava che nel futuro l’estrazione di valore sarebbe passata maggiormente attraverso le macchine, riducendo la necessità di tempo di lavoro necessario, ma continuando a produrre valore attraverso lavoro superfluo; da qui il pensiero operaista giustifica la necessità di un reddito di base vista la possibilità di liberazione dal lavoro come costrizione.]
Sono critiche strumentali. Noi accettiamo ancora la teoria classica del valore lavoro di Adam Smith, David Ricardo e Karl Marx ma siamo consapevoli, seppur con modalità diverse, che essa debba essere adeguata alle trasformazioni che il processo di accumulazione e valorizzazione ha subito nel passaggio dal capitalismo fordista a quello bio-cognitivo. Io sostengo che in un momento storico in cui la conoscenza non è più scarsa, ma sempre più abbondante attraverso lo scambio, al punto da doverne introdurre delle limitazioni attraverso i diritti di proprietà intellettuale, la teoria neoclassica dominante del valore economico basato sull’utilità personale, basata appunto sulla scarsità delle merci, perde di senso quando applicata ai beni immateriali.
Oggi è inoltre necessario, per via di questi motivi, un nuovo metodo di misurazione del lavoro prodotto attraverso la conoscenza, non più commensurabile con le convenzionali unità di misura quali le ore di lavoro, essendo la conoscenza prodotta in continuazione: la sola produzione materiale in fabbrica è stata superata.
Io e altri colleghi stiamo cercando di trovare nuove forme di misurazione delle attività di cura e della trasmissione di informazioni e conoscenze. Noi parliamo di valore-vita: il nuovo capitalismo bio-cognitivo produce ed estrae valore economico in ogni momento della nostra esistenza, attraverso per esempio la pubblicità ed internet, in una maniera che di solito non viene retribuita. Ne scrivo anche in un nuovo libro di prossima pubblicazione: «La teoria del valore lavoro ai tempi di Google e Facebook», tempi in cui lo sfruttamento diventa maggiore perché coinvolge l’intera vita dei soggetti e avviene anche fuori i normali tempi di lavoro.
Tutta la società è diventata un sistema-fabbrica: il lavoro di cura, di formazione, di svago, non era prima di interesse da parte del capitale ai fini dello sfruttamento dell’uomo, ora invece lo sfruttamento che mette in atto permea ogni aspetto della nostra vita.
Venendo alla questione del reddito di base da lei proposto: in sostanza lei sostiene che essendo noi sottoposti ad un continuo processo di estrazione di valore in ogni momento della nostra vita (es. quando navighiamo su internet, quando ci fanno interviste di mercato, quando guardiamo la pubblicità) quantomeno i più poveri dovrebbero essere retribuiti per stare garantendo profitto a qualcuno?
Esatto! E vorrei sottolineare questo punto: non si tratta di una forma di assistenzialismo, ma come lei sottolinea, la intendo come una vera e propria remunerazione. Necessaria in un momento storico in cui addirittura le persone accettano di lavorare gratuitamente.
Potremmo definirlo come un approccio tendente ad una psicologia del benessere, un reddito che possa garantire la sanità psicofisica completa?
Sì…è un processo storico lungo, prendere coscienza della necessità di un passaggio di questo tipo non è facile.
Come si pone rispetto alle proposte di lavoro garantito dallo Stato quali quelle che avanza il filone della Modern Monetary Theory (MMT)?
Nulla in contrario nella misura in cui non sia una forma di coazione al lavoro, ma piuttosto una libera scelta.
Nel suo libro «Lavoro male comune» lei spiega che il reddito di base dovrebbe essere finanziato con la fiscalità generale, così che rappresenti una redistribuzione della ricchezza prodotta. Saresti disponibile ad accettare un finanziamento anche attraverso emissione di moneta (come necessario per il lavoro garantito proposto dalla MMT)?
Potrei essere favorevole, ma non sono attratto dal concetto di sovranità monetaria che è alla base di questo tipo di finanziamento (mi ricorda l’età imperiale, parlare di sovranità) ed inoltre ricordo che tornare alla lira porterebbe ad un problema col debito pubblico gestito dal fondo salva-Stati e dalle banche straniere e quindi comunque rimborsabile in euro.
Preferirei, al limite, un recupero di autonomia monetaria attraverso forme complementari: per esempio attraverso la creazione sul territorio nazionale di una moneta fiscale parallela all’euro.”
Vista la sua formazione marxiana, le chiedo: secondo lei arriveremo mai ad una crisi definitiva del capitalismo?
«No. Nei momenti di difficoltà avvengono sempre movimenti di forte cambiamento produttivo o prese d’atto da parte soprattutto da chi contesta il capitalismo, che inducono maggiori riforme sociali. Il reddito di base può però portare ad uno spostamento di rapporti di forza, togliendo le persone dal ricatto del lavoro a tutti i costi e liberando le potenzialità dei più deboli. Vivere per lavorare, e non lavorare per vivere sotto il comando di qualcuno. Non mi sento però un riformista: sono favorevole ad una società auto-organizzata su base cooperativa, per la riappropriazione del bene comune.»
Il professore sostiene che per l’istituzione del reddito di base siano necessari 32 miliardi di euro; con l’abolizione e sostituzione della cassa integrazione con la nuova misura, occorre trovare, secondo Fumagalli, meno nuove risorse effettive, per il valore di 18 miliardi di euro.
Articolo tratto da Forexinfo.it del 6 giugno 2015