Le politiche degli ultimi anni invece di combattere la povertà l’hanno accresciuta. Un assegno di sussistenza a 660.000 persone allevierebbe la condizione di 2 milioni di famiglie, con una spesa contenibile in meno di 5 miliardi e coperture plausibili per questo primo passo verso un sistema universalistico.
Le disuguaglianze in Italia
La povertà in Italia è un problema serio. Cresce il numero di famiglie in situazione di povertà e la distribuzione della ricchezza nazionale è sempre più squilibrata. Per la sinistra dovrebbe rappresentare la questione centrale ma non è affatto in cima alla lista delle priorità.
Guardiamo all’andamento dell’indice di Gini, il coefficiente comunemente usato per misurare la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi: nel dopoguerra era diminuito fino alla fine degli anni Settanta poi (dopo un aumento a metà degli anni Ottanta) aveva toccato il minimo all’inizio degli anni Novanta. Ha però avuto un’impennata con la crisi monetaria del ’92 e, dopo un periodo di stabilità, un’ulteriore crescita negli ultimi anni di crisi. Sta di fatto che oggi l’Italia è, tra i maggiori paesi OCSE, quello con il più alto indice di disuguaglianza dopo gli USA. Nella UE è superata da Grecia e Spagna, che più dell’Italia hanno risentito della crisi, e da alcuni Stati dell’Est (Bulgaria, Romania e Paesi Baltici) che tardano a attutire gli effetti del passaggio a un’economia di mercato
Le politiche adottate e gli effetti sulle disuguaglianze
Del resto, le politiche adottate dai governi italiani durante la crisi, dall’ultimo Berlusconi a quelli di “larghe intese” di Monti, Letta e Renzi, pur con una presenza determinante del PD, sono andate in direzione opposta a quella necessaria per contrastare la crescita delle disuguaglianze. Se prendiamo a riferimento il Rapporto Gini finanziato dalla UE nell’ambito del Programma Horizon 2020, pubblicato a inizio 2014, che nelle conclusioni espone le condizioni necessarie per contrastare la povertà e le disuguaglianze con misure efficaci, ne abbiamo una dmostrazione: quello che serve è “un welfare ampio che investa sulle persone, stimolandole all’attività e proteggendole se necessario con i loro figli… offrire nuove occasioni di impiego e misure di politica attiva del lavoro in genere affiancate, per i profili a più bassa scolarità, esperienza e capacità, da un rafforzamento delle reti di protezione sociale; contrastare all’origine i processi di esclusione, bassi guadagni e limitata mobilità verticale, evitando che l’insieme delle misure di carattere strutturale siano finanziate a spese degli interventi per alleviare direttamente povertà e disuguaglianze quali i sussidi, nonché la rete dei servizi (cura dell’infanzia, istruzione, alloggi, sanità, assistenza alle persone)… estendere l’età dell’obbligo e per promuovere economicamente l’accesso all’istruzione di terzo grado… ridurre la stratificazione in base alla provenienza sociale della partecipazione al voto.”
L’elenco delle misure degli ultimi anni che vanno in direzione diametralmente opposta è ben noto:
– tagli ai trasferimenti alle istituzioni decentrate titolari della spesa per il welfare e i servizi
– “riforme” della scuola caratterizzate da un taglio dei finanziamenti alla scuola pubblica, un aumento del finanziamento pubblico all’istruzione privata e di quello privato per parti selezionata dell’istruzione pubblica
– “riforme del lavoro” mirate a comprimere i redditi dei lavoratori dipendenti attraverso la diffusione dei rapporti precari e la liberalizzazione dei licenziamenti e di conseguenza ad estendere la disoccupazione, specialmente dei più giovani,
– misure di carattere fiscale (bonus e incentivi) di cui non beneficia chi è sotto la soglia di povertà senza che siano esclusi alcuni appartenenti a nuclei familiari a reddito elevato;
– riforme istituzionali e elettorali tese a ridurre la partecipazione e la rappresentanza.
A questo elenco si dovrebbe aggiungere quello, ancora più lungo, delle misure che dovrebbero essere adottate ma non lo sono: dall’assenza di una politica di sviluppo per orientare gli investimenti verso le produzioni di beni e servizi (nonché processi) suscettibili di creare maggiore ricchezza all’assenza di misure “per alleviare direttamente povertà e disuguaglianze” (sussidi). Più in particolare l’assenza di un reddito minimo garantito, che l’UE raccomandava di adottare, fin dal ’92!
La questione del reddito minimo garantito
In questa legislatura il tema è stato affrontato con due proposte di legge dai gruppi M5S e SEL. E’ stato anche oggetto di attenzione, a fasi alterne, da parte degli organi di informazione, confondendo tuttavia tra le diverse accezioni dell’istituto (reddito di cittadinanza, reddito di inserimento sociale, sussidio di inclusione attiva, reddito minimo garantito in senso stretto), senza riferimenti puntuali alla sostanza delle proposte e con un’estrema imprecisione riguardo agli oneri finanziari. Per un tema di questa portata sarebbe invece necessaria la massima chiarezza.
Le proposte di cui si tratta riguardano tutte l’istituzione di un sussidio destinato ai maggiorenni il cui nucleo familiare sia in condizioni di bisogno, a condizione che partecipino attivamente a programmi di inserimento lavorativo. Con queste precise caratteristiche è già in vigore nella Provincia Autonoma di Trento ed è in discussione nelle Regioni Friuli V. G. e Valle d’Aosta. Si rivolgono dunque tutte a una medesima platea, costituita (2013) da 1.981.291 famiglie senza reddito da lavoro o da pensione (7,7% del totale, in crescita rispetto al 6,9% del 2012), esposte pertanto alle maggiori criticità sul mercato del lavoro e al rischio di trovarsi in una condizione di povertà relativa.
In circa un terzo di queste famiglie senza occupati adulti vi è una persona in cerca di lavoro: 660 mila persone sui 3,2 milioni di disoccupati censiti dall’ISTAT nel 2014. Rapportati agli 1,8 milioni di disoccupati attualmente privi di qualunque sussidio al reddito, questi soggetti, in condizione di povertà relativa, rappresentano poco meno del 40% mentre l’incidenza generale delle famiglie in condizione di povertà relativa è calcolata attualmente al 12,6% del totale.
In sintesi secondo queste stime, come era lecito attendersi, la condizione di bisogno (in termini di povertà relativa) affligge chi cerca lavoro senza godere di alcun sussidio in misura più che tripla (40% contro 12,6%) rispetto alla media delle famiglie italiane.
L’onere per lo Stato e le coperture
Secondo questa stima, l’onere relativo a un sussidio di 600 € mensili per un anno corrisposto a 660.000 persone è pari al massimo (importo intero per tutto l’anno) a 4,752 mld. Una parte del mondo politico (nonché degli opinionisti e dei tecnici a sostegno) ipotizza cifre molto superiori ma si basa su un’ipotesi di sussidio “di cittadinanza”, corrisposto a tutti, indipendentemente dal reddito familiare. Altre stime riguardano una platea che comprenda anche i destinatari attuali delle misure di sostegno per i disoccupati (Assicurazione Sociale per l’Impiego e simili), che potrebbe in effetti rappresentare il punto di arrivo di una più generale riforma del welfare lavoristico: il fabbisogno salirebbe a circa 17 miliardi ma implichebbe la conversione delle risorse attualmente destinate alle politiche passive (sussidi ai disoccupati), che si aggirano intorno ai 12 mld € (dato 2013): una cifra che rappresenta proprio il fabbisogno aggiuntivo rispetto alle ipotesi in discussione (che escludono gli attuali beneficiari) per un sistema a regime, fino in fondo universalistico.
Un’ulteriore verifica della congruità della stima si ottiene dall’esperienza in corso nella Provincia Autonoma di Trento. L’onere a consuntivo è lo 0,1% ca. del PIL provinciale. Fatte le proporzioni tra l’incidenza della povertà relativa (4,9% TN, 12,6% Italia) si può ipotizzare che il fabbisogno sia pari allo 0,25-0,3% del PIL nazionale e che sia dunque realistica una stima attorno ai 5mld €.
Le ipotesi di copertura per questa cifra non devono dunque spaventare e possono essere svariate. Tra tutte vanno segnalate quelle maggiormente coerenti con l’ispirazione alla base della misura.
Si può ricorrere, da un lato, all’abrogazione del finanziamento della Cassa in deroga (sussidio per perdita di lavoro a carico del fisco, non coperto da contribuzione delle imprese) che non sarebbe più necessario e che il decreto legge approvato in questi giorni dal Consiglio dei Ministri fissa in 1 mld. Dall’altro, alla revisione della platea dei beneficiari del “bonus Renzi” di 80 € mensili condizionando l’erogazione a un limite di reddito del nucleo familiare di appartenenza. Il risparmio conseguibile può essere stimato considerando che tra le famiglie, con più di un componente, in cui sia presente almeno un lavoratore dipendente, quelle che non si trovano in situazione di criticità per entità del reddito da lavoro e tipologia del rapporto (precario) sono stimate da Italia Lavoro (rapporto 2014) nel 29% del totale. Se si ipotizza che condizionando il bonus al reddito ISEE si verifichi una riduzione di questa entità della platea dei destinatari del bonus si risparmierebbero poco meno di 3 miliardi €. Infine, per l’ulteriore miliardo di copertura mancante, tra le varie ipotesi in campo si potrebbe scegliere di estendere all’intera platea dei contribuenti sopra i 90.000 € di reddito annuo il “contributo di solidarietà” applicato ai soli pensoinati, sotto forma di aumento dai 2 ai 6 punti (per lo scaglione più alto di redditi, sopra i 300.000 €) dell’aliquota IRPEF.
Conclusione
In Parlamento è in corso l’esame delle proposte di legge in materia di reddito minimo garantito. E’ possibile, in quanto ne sono date tutte le condizioni di fattibilità, decidere una volta per tutte che anche in Italia si può compiere un passo concreto in direzione della lotta alla povertà e all’emarginazione sociale.
Articolo tratto da Eguaglianza e Libertà.it del 25 maggio 2015