Cesseranno gli insulti a esclusi, disoccupati, giovani precari da parte di ministri di destra, di sinistra e tecnici solo quando il diritto all’esistenza e quindi alla dignità di tutti sarà garantito in forme idonee, come negli altri paesi paesi europei
L’incredibile scivolata del Presidente Monti sulla noiosità del lavoro stabile non credo possa essere così facilmente superata con le vaghissime e confuse rettifiche del giorno dopo. L’illusione che con l’uscita di scena del Governo precedente sarebbero finalmente cessati gli insulti a precari, disoccupati, cittadini che cercano di arrabattarsi da anni in vario modo, tra lavoro nero, contratti effimeri, stage, attività volontarie e di cura simbolicamente retribuite, pur di non cedere alla disperazione di fronte all’approfondirsi della crisi, è durata ben poco. Con amarezza occorre constatare che tra l’ultimo dicastero Prodi con le esternazioni sui bamboccioni del Ministro dell’economia, il Governo Berlusconi con il suggerimento del Premier alle precarie di fidanzarsi con il figlio e l’attuale governo tecnico non c’è stata alcuna soluzione di continuità: una brutale ed arrogante volgarità si abbatte sistematicamente sugli ultimi della società e li dipinge come una nuova sottoclasse di soggetti pericolosi, senza diritti perché indegni di goderne in quanto colpevoli parassiti (sorvoliamo sulle tante, ulteriori, cadute di stile, da Brunetta a Martone..). Non può esserci solo irresponsabilità in questo turpe andazzo, ci sono potenti interessi in gioco ed il riflesso profondo di regole sociali che in questo paese non sono mai state aggiornate alla luce degli standard europei: il ceto politico (il linguaggio qualunquista in questa caso è totalmente giustificato dalla persistenza bipartisan della violenza verbale contro i poveri) riflette perfettamente nelle sue esternazioni inaccorte il nucleo normativo più profondo del nostro welfare, che destina praticamente solo le briciole a chi è più svantaggiato. Il nostro paese è agli ultimi posti nell’Unione a 27 nelle spese per contrastare l’esclusione sociale, circa un decimo di quanto destina la Francia a questo scopo, che pur non è tra i paesi più virtuosi (cfr. M. Revelli, Poveri noi, Einaudi 2010), diritti come quelli ad una formazione permanente e continua o all’accesso ad efficienti servizi all’impiego (pur riconosciuti come diritti sociali fondamentali dalla Carta di Nizza) sono universalmente considerati come privi di effettività. Il nostro paese, unico insieme alla Grecia nell’Unione europea non prevede alcuno schema universalistico di tutela dei bisogni primari della vita ( ius existentiae); un reddito minimo garantito è stato assicurato nella sola Regione Lazio, per una parte molto limitata di chi l’aveva richiesto e solo per un anno, prima dell’investitura del nuovo Governatore Polverini che ha immediatamente definanziato la legge.
Per chi si trova in situazioni di estrema difficoltà ed è a rischio di emarginazione non c’è letteralmente niente, se non un pacco di pasta al giorno attraverso la social card, che il governo tecnico ha ora addirittura rilanciato come misura di lotta alla povertà. Insomma a non essere protetta è la dignità essenziale della persona, anche perché la Repubblica non si fonda, come la Carta di Nizza o la Costituzione tedesca su questo meta-principio, ma ha come fondamento il ” lavoro”. Per chi dall’accesso a questo lavoro, sempre più scarso ed instabile, viene escluso o per chi ( cfr. la disoccupazione giovanile al 31% e quella al sud ad oltre il 50%) non riesce ad afferrarlo, solo insulti o, nel migliore dei casi, prediche insolenti; gli scarsi fondi investiti nel sistema degli ammortizzatori sociali vanno solo a chi ha potuto godere di un impiego stabile, in aziende di una certa consistenza, secondo una logica corporativa, priva di razionalità e che calpesta i principi di eguaglianza e di parità di trattamento rispetto a diritti fondamentali di natura sociale, come dovrebbe essere considerato anche quello ad un reddito minimo, alla luce della Carta di Nizza ( art. 34) che anche il nostro paese ha approvato con maggioranze parlamentari di tipo bulgaro. Proprio il carattere balcanico ed irrazionale delle misure di questa natura portano ad una loro scarsissima efficacia riequilibratrice; negli altri paesi la spesa sociale allenta le disuguaglianze, mentre in Italia ciò avviene in modo molto più ridotto. La Corte costituzionale tedesca con una formidabile sentenza del 9.2.2010 ha sacralmente stabilito (proprio in relazione al reddito minimo) che le difficoltà di bilancio o la crisi economica non possono costituire ragioni per limare prestazioni sociali che sono indispensabili per garantire la dignità della persona e cioè la piena partecipazione di ognuno alla vita sociale, politica e culturale della comunità politica cui appartiene. Lo ius existentiae è un presupposto ineliminabile del gioco democratico, calpestarlo vuol dire minare le fondamenta stessa della legittimità del potere politico. E in effetti chi può dire di rispettare davvero un ceto politico che in decenni non ha saputo istituire neppure questa tassello essenziale della convivenza civile, neppure quando le casse dello stato non erano così vuote? E’ questa la più urgente delle urgenze, la prima delle riforme ed anche la più produttiva perché valorizzare il capitale umano non può che essere la base di un progetto di riscatto del nostro paese. Il nuovo Ministro del welfare, Fornero, era sembrata voler interrompere il tristissimo primato italiano, parlando delle necessità di introdurre un reddito minimo di cittadinanza; ma con il passare dei giorni il tema sta lentamente sparendo dall’agenda e suona in modo sinistro la reintroduzione della social card. Forse i giochi sono ancora aperti, ma occorre ribadire un punto. Serve una legge che garantisca la dignità delle persone, di tutti i cittadini; questa misure servirebbe indirettamente anche a combattere la precarietà ed a migliorare le condizioni retributive di tanti lavori, ma sarebbe un effetto indiretto. Non si deve insomma strumentalizzare il reddito minimo al perseguimento di confusi obiettivi occupazionali, erogandolo in forme e modalità che possano offendere quella dignità dei soggetti in difficoltà che pur si vorrebbe proteggere. Dispositivi disciplinari e di controllo che possano umiliare e mortificare chi riceve un reddito di base, obbligandolo comunque ad accettare prestazioni lavorative di qualsiasi natura e non coerenti con il proprio bagaglio professionale o il proprio curriculum di studio, sono logicamente incompatibili con lo ius existenatiae: chi può decidere l’equo lavoro che si dovrebbe svolgere in attività che peraltro il mercato non offre? L’esperienza infelice dei cosiddetti lavori socialmente utili dovrebbe aver insegnato qualcosa. Se un’idea di reddito minimo venisse a delinearsi in quest’ottica di forte condizionamento, temo che le intemperanze verso i più svantaggiati non cesserebbero.
Tratto da Gli Altri 10 febbraio 2012