L’articolo analizza come nell’evoluzione delle trasformazioni del lavoro e della società, a fronte di una commistione sempre più profonda tra lavoro e vita, per la donna risulta sempre più difficile coniugare attività di produzione e riproduzione. I processi di liberazione femminile devono quindi essere vagliati e analizzati criticamente alla luce dei cambiamenti strutturali che hanno portato alla crisi il paradigma industriale-fordista, basato sulla separazione di genere e una divisione sessista del lavoro. Il reddito di cittadinanza viene quindi indagato come potenziale strumento di liberazione. Uno dei primi articoli che analizza il tema del reddito con uno sguardo di genere.
Il 12 dicembre 1958 Sylvia Plath scriveva, ragionando sulle proprie scelte esistenziali e sulla situazione finanziaria, sua e del marito, poeta come lei: “Per adesso non riusciamo, e forse non riusciremo mai, a guadagnare da vivere come scrittori, ma è il mestiere che ci piace. Come riusciremo a fare soldi senza sacrificare energie e tempo e danneggiare il nostro lavoro? (…) Madri e bottegai, avevano ragione? Non sarebbe stato meglio risparmiarci questi interrogativi inquietanti, trovare un buon lavoro e assicurare un futuro ai piccoli?”. E più avanti: “Abbiamo bisogno di soldi per mangiare e per avere un posto dove vivere e dei figli, e la scrittura forse non ci darà mai abbastanza, proprio come adesso. La società ci fa le linguacce e ci dice “ben vi sta””[i].
Sembra strano partire da qui, dalle riflessioni di una poetessa. Che cosa c’entra lei con noi, persone comuni? Per il lavoro di artisti e scrittori perfino Marx fa un’eccezione. Sono produttori di attività immateriali che riescono a vivere di vita propria, che godono di un’esistenza indipendente dal produttore. Gli unici, tra le varie categorie del lavoro intellettuale, che possono vantare per il loro lavoro la definizione di “lavoro produttivo”[ii]. Gli unici, per il cui tempo il capitale non preveda misura.
Delle annotazioni della Plath mi sembra perfetta la sostanza, la natura più immediata e perfino banale. C’è una donna, qui, che spera e desidera poter fare delle cose per sé. E’ questo il suo lavoro, il suo obiettivo. E’ questo che deve e vuole riuscire a estrarre da se stessa. Che sia scrivere o altro, in fondo ha poca importanza. Poi ci sono i disagi che questa scelta comporta. Molte volte, soprattutto se non si è una scrittrice ma un’impiegata o una sarta, la scelta non si pone nemmeno. E resta, questa sì, l’insoddisfazione. Quante di noi possono dire di non aver mai sperimentato questa forma di lacerazione? Magari solo per un periodo, durante una fase precisa e particolare della vita. Non a caso, anche colei che abbiamo preso ad esempio morirà suicida a trent’anni, cinque anni dopo aver scritto queste pagine. Dopo aver vissuto drammaticamente le frustrazioni della vita domestica, il peso del menage familiare, dei problemi economici, la fatica dell’occuparsi, da sola, di due figli piccolissimi. Tutto ciò la soffocava e si contrapponeva, disperatamente, alla “dirompente ispirazione poetica”.
Arbeit macht frei
La realtà, dunque. Che ci lega tutti ai rapporti economici, regno della necessità. Rapporti “naturali”, sessuali e gerarchici, che per secoli hanno confinato le donne nell’ambito dell’oikos, il “focolare domestico”, dove i legami di necessità si basavano sul sangue e sulla schiavitù. Il primo passo obbligato è stato, perciò, quello di uscire di casa. Acquistare visibilità, guadagnarsi la possibilità di venire nominata, maggioranza relegata al ruolo di minoranza, la cui enorme mole di lavoro non entrava neppure a far parte, nella teorie di Marx, della riproduzione sociale. Proprio le donne, i principali soggetti che erogano lavoro di riproduzione, nella forma concreta del “lavoro domestico”, venivano dimenticate da Marx per il quale la generazione del plusvalore era ristretta al solo ambito del rapporto di sfruttamento tra capitalista e lavoratore salariato[iii]. Il movimento femminista ha integrato la visione marxiana assumendo che il plusvalore non era generato solo dalla produzione di merci ma anche dal lavoro di produzione e di riproduzione della forza lavoro[iv].
Non vogliamo prenderla troppo alla lontana. Vogliamo ricordare che il processo di femminilizzazione del lavoro è stata una costante degli ultimi decenni. Uno dei fenomeni più importanti degli ultimi trent’anni. Frutto di un’attrazione fatale tra domanda e offerta, che vede combaciare le necessità del mercato, a cui le donne da un certo punto della storia in poi servono per il lavoro extradomestico, e la volontà femminile di guadagnare campi di maggior autonomia rispetto al passato. I rapporti di forza in questo contesto, restano, sia chiaro, gerarchici e sessisti, capitalistici. Ma il processo è innegabile e dirompente, come innegabile e importante continua ad essere lo svantaggio in termini di disoccupazione con il quale ancora oggi le donne italiane si devono confrontare. Ancora nel 1997 il 16,8 dei disoccupati è donna, contro il 9,5 di uomini[v]. Nel 1996 su 100 neolaureate 32 non hanno trovato lavoro al nord e 45 al sud[vi]. Il processo in atto mantiene cioè tutte le lacune di tipo quantitativo. Ma, soprattutto, ed è quello che ci interessa di più, di tipo qualitativo. Quali sono gli spazi veri per le donne, in questo agognato, perché necessario e obbligato, passaggio verso la visibilità? Guadagnano meno degli uomini (nella metà degli anni Ottanta, il 24% in meno degli uomini, ma il gap si allarga)[vii], fanno più fatica a fare carriera (nell’industria privata c’è una dirigente donna ogni 101 impiegate) e spesso, l’atavica e inconscia abitudine a confrontarsi con la sfera del “non produttivo” fa delle donne i soggetti predestinati della precarietà più dura, più nera. Che poco ha a che vedere con la sfera del loro desiderio. Alla Conferenza di Pechino, nel 1995, fece scalpore la scoperta che con punte di 70 ore alla settimana, tra casa e lavoro, e una media di 60 ore per il 54% di loro, le donne italiane erano quelle che lavoravano di più al mondo[viii]. Intanto, in mancanza di analisi forti sulla realtà, si è diffuso un singolare ottimismo che tende a enfatizzare tutto quello che di positivo succede alle donne. Qualcuno ha definito il fenomeno “enfasi di genere”[ix]. Guardare l’altra faccia della medaglia, occuparsi del lavoro salariato delle donne, della “femminilizzazione della povertà”, viene considerato superato, addirittura retrò.
Ma voglio fare un esempio concreto e a suo modo paradigmatico di quanto sostenuto sopra. Si potrebbe elencare un lungo elenco di articoli volti a dimostrare l’inarrestabile tendenza delle donne italiane a fare di se stesse delle imprenditrici. Il self-employment è diventato lo sport più popolare d’Italia. Se non hai lavoro, se sei stanco di quello che hai, se hai perso quello che avevi, impiega te stesso. Meglio ancora se sei donna. Meglio ancora se sei giovane e donna. Meglio ancora se sei giovane, donna e hai il coraggio di metterti in gioco. E via di seguito.
Alla creazione di imprese al femminile è dedicata la legge 215, attiva dal 1997 e che ha previsto un primo finanziamento di 48 miliardi per le imprese al femminile. Ultimo nato di una popolosa famiglia di interventi pubblici che si sono posti l’obiettivo di sostenere la nascita di nuove imprese tra i giovani e le donne. Soggetti deboli. A volo d’uccello raccontiamo che nel primo semestre dell’anno sono state migliaia le domande presentate, poche centinaia le imprese avviate. Una miriade di asteroidi dalla vita breve. Il 70 per cento di queste entra in rotta di collisione con il mercato entro il primo anno d’attività. E si spegne senza lasciare traccia di se nel grande universo della libera impresa. Di queste morti annunciate, nessuno parla.
Due ricerche recenti dedicate al fenomeno dell’imprenditoria femminile possono aiutarci a scandagliare il fenomeno. Il rapporto di Antonella Rosso e Anna Soru, del Formaper, Camera di commercio di Milano[x], si addentra nel magma del lavoro indipendente femminile cercando di chiarirne i contorni: non tutto ciò che è lavoro indipendente può mettersi in testa il cappello di impresa, come il pazzo delle barzellette quello di Napoleone. L’imprenditore è figura giuridica assai più complessa della donna di casa che ha voglia di uscire dal suo ruolo tradizionale di moglie di madre a cui si racconta che per inserirsi nel mondo del lavoro, invece di preparare le torte ai bambini, basta aprire una pasticceria sotto casa.
A che conclusione sono arrivate dunque Rosso e Soru? Che c’è un aumento di offerta di lavoro femminile: questo si è tradotto in un aumento dei tassi di attività femminile che peraltro dal 1993 al 1995 è stato accompagnato anche da un aumento della disoccupazione (aumenta la forza lavoro, ma non trova effettivamente lavoro). Che la crescita dell’occupazione è dovuta soprattutto a un incremento del lavoro dipendente (da 3.788.000 a 3.955.000). I nuovi posti di lavoro si sono creati nelle attività dove i processi di razionalizzazione e ristrutturazione (grande distribuzione, terziario) hanno offerto opportunità in mansioni generalmente coperte da donne (cassiere, segretarie). Che c’è una tenuta del lavoro dipendente femminile nell’industria rispetto a quello maschile perché il lavoro femminile è più concentrato nelle funzioni terziarie, meno colpite dai processi di riduzione di manodopera. Che il lavoro indipendente femminile negli ultimi anni è in leggero calo (-7% tra il 1993 e il 1996) e che categorie preponderanti all’interno del panorama del lavoro autonomo femminile sono ancora le coaudiuvanti, figure legate a forme di collaborazione generalmente subordinate di lavoro autonomo (nel 1996 il 28% delle lavoratrici autonome risultavano essere coaudiuvanti). Si pensi al fenomeno vistoso dell’industrualizzazione diffusa del Nord Est, per esempio, e alle sue interpretazioni familiari, vale a dire microimprese nel nome del padre (o del marito) all’interno delle quali le donne debbono sottostare a ferree gerarchie di genere. Infine, che si nota un maggior peso relativo del lavoro indipendente al sud, proprio laddove gli indicatori delle forze di lavoro femminili hanno un accentuato andamento negativo, con un tasso di attività femminile inferiore di 6 punti percentuali alla media nazionale.
Allora, una prima riflessione può essere fatta già qui: come si vede non si può parlare in maniera indistinta e acritica di espansione dell’imprenditorialità femminile. Il lavoro dipendente spesso rappresenta ancora per le donne un punto di arrivo, soprattutto in certi contesti sociali e in certi settori di attività (il Sud ma perfino il Nord Est, il lavoro agricolo). Ricercato, ambito, rivestito di forti aspettative. Laddove manca specializzazione e i livelli scolastici sono bassi il lavoro dipendente per certi versi garantisce l’indipendenza delle donne da forme di lavoro autonomo indirettamente subordinato, magari all’interno dello schema delle piccola impresa familiare che relega le donne a un ruolo prestabilito da relazioni classiche localistico-parentali. In generale, si nota una maggior debolezza del lavoro indipendente femminile rispetto a quello maschile, dove la categoria preponderante, dopo i lavoratori in proprio, sono gli imprenditori (1996, 21,7%).
In altre situazioni, come nel caso del Meridione, il lavoro indipendente diventa l’unica scappatoia alla disoccupazione. Non a caso tale tipologia di lavoro è diffusa nei comparti tradizionali: agricoltura e commercio.
In ogni caso, se pure è vero che il numero delle donne imprenditrici è in ascesa, non sempre questo garantisce condizioni di vita e di lavoro migliori. E capire questo è stato oggetto della ricerca di Elvina Degiarde e Daniela Gregorio, promossa dall’Irer della Lombardia[xi] e riguardante motivazioni e dinamiche dell’imprenditorialità femminile lombarda. Un contesto, a prima vista, privilegiato. Ma proprio la Lombardia è la regione con la minor percentuale di lavoratori indipendenti (24,9% contro il 40,5% del Molise). Inoltre, nel quadro iniziale Degiarde e Gregorio chiariscono che i primi anni Novanta hanno operato una selezione feroce tra le imprese artigiane e gli esercizi commerciali aperti da donne: a partire dal 1993 si registra un calo di notevoli proporzioni, dovuto probabilmente a una sorta di saturazione dell’offerta. Questi due elementi, anche da soli, sono sufficienti a dirci molte cose.
Poi, un equivoco: si chiamano imprese, quelle che in realtà sono società, studi o esercizi commerciali costituiti al massimo da due soci. Nessun dipendente. Il 55,8 delle “imprese” monitorate è costituita da due persone (intervistata compresa). Il 26% da tre.
Detto questo, emerge distintamente che le motivazioni che spingono ad avventurarsi all’interno del lavoro indipendente sono molteplici: c’è la voglia di sperimentarsi, di uscire da un percorso lavorativo precedente frustrante, di affermarsi sul piano professionale, ma ci sono la perdita del posto di lavoro e la ricerca infruttuosa di una nuova occupazione alle dipendenze. Le donne più giovani realizzano una sorta di autoimpiego per concretizzare una opportunità che il mercato del lavoro offre in misura sempre minore. Di mezzo ci sono molti sogni, quello di liberarsi dal lavoro, di interpretare diversamente la compagine del tempo “industriale”, di rivestire “il fuori” delle affettività “del dentro”. Ma in realtà? Il 44% delle intervistate lavora da 41 a 60 ore la settimana. Il 13,4% di loro supera la soglia delle 61 ore. Il 20,8% svolge in contemporanea a questa attività un altro lavoro. Il 60% non ha neppure usufruito dell’indennità di maternità erogata dall’Inps a favore delle lavoratrici autonome.
Dove sta la libertà, in tutto questo? Che fine hanno fatto la nostra identità, la nostra diversità?
Mentre si ragiona sulla presunta libertà del “mettersi in proprio”, rapportato alla grande fabbrica, proprio il decentramento produttivo svela, in tutta la sua concretezza, le reti di intensificazione della produttività
Il lavoro diventa donna
Le donne portano al lavoro la complessità della loro soggettività, della loro storia, dei loro saperi. E’ vero che la sfera dell’affettività, del desiderio, sono fondamentali per le donne. Anche in ambito lavorativo. E’ vero che le donne, potenzialmente, “non si consegnano interamente alla misura del denaro, né a quella della carriera, ma portano al mercato tutto, cioè la qualità delle relazioni sul posto di lavoro, la risposta degli altri e delle altre alla propria presenza, i risultati qualitativi del proprio lavoro. E la compatibilità dell’impegno con le proprie esigenze affettive”[xii]. Ho scritto potenzialmente. La realtà dei rapporti di scambio esistenti, la realtà della necessità, piega la maggioranza assoluta delle donne all’impossibilità di interrogarsi sul “senso” del proprio lavoro. Il primo punto, quello su cui vale la pena insistere è, dunque, certamente, la possibilità di scelta. E’ data? Per tutte?
E, soprattutto, bisogna ragionare sul fatto che il sistema di accumulazione flessibile oggi riesce ad estrarre dal lavoro proprio quella complessità di relazioni, idee, sentimenti che fanno la ricchezza dell’esperienza femminile. La nuova organizzazione del lavoro post-fordista richiede capacità di comunicazione e di cooperazione comunicativa. La flessibilità e il lavoro immateriale sono funzionali allo sviluppo di caratteristiche precipuamente femminili, ma il fine, sia chiaro, è il loro sfruttamento[xiii].
Beppe Caccia in un intervento pubblicato su Via Dogana bene ha fatto a richiamare il concetto deleuziano devenir femme du travail, che illumina “la natura biopolitica delle relazioni di lavoro: diventa sempre più difficile distinguere il confine tra lavoro e vita, tra produzione e emozioni, comunicazione, tra produzione simbolica e produzione materiale di merci”[xiv]. Insomma, il punto di vista va ribaltato: oggi, la nostra soggettività tutta intera viene messa al lavoro. Proprio l’attitudine alla comunicazione, il nostro portato di affettività, le nostre capacità relazionali e di produzione simbolica, diventano lavoro retribuito. Mentre crediamo di poter affermare sul terreno del lavoro la nostra diversità fatta di questi, imprendibili tasselli, non ci accorgiamo che essi sono diventati terreno di conquista.
Secondo l’analisi di Foucault, il capitalismo è un sistema che sviluppa vita, ovvero biopotere: “questo biopotere è stato senza dubbio uno degli elementi indispensabili allo sviluppo del capitalismo; questo non ha potuto consolidarsi che a prezzo dell’inserimento controllato dei corpi nell’apparato di produzione, e grazie a un adattamento dei fenomeni di popolazione ai processi economici. Ma ha richiesto di più: gli è stata necessaria la crescita degli uni e degli altri, il loro rafforzamento così come la loro utilizzabilità e docilità; gli sono stati necessari metodi di potere suscettibili di maggiorare le forze, le attitudini, la vita in generale, senza per altro renderle più difficili da assoggettare”[xv]. I rapporti di scambio economico non sono mai radicati in rapporti di reciprocità ma sono rapporti di potere. In questo contesto, il lavoro tende a sussumere i tempi dell’esistenza, la vita. Sentiamo Jann Moulier-Boutang: “decentramento produttivo, incorporamento del lavoro intellettuale e una socializzazione sempre più grande della forza-lavoro, interiorizzazione della gerarchia sempre più oggettivata nella scienza, dove il macchinismo è concepito prima di tutto come razionalizzazione delle procedure e gestione dell’informazione, tali sono i “fiori” della creatività sbocciati nell’economia “sotterranea” e “concimati” dallo sfruttamento dei dipendenti sottopagati, delle donne, degli immigrati clandestini”[xvi]. In questo senso, al di là del comune sentire o di singole esperienze soggettive che, apparentemente, sembrano andare in tutt’altra direzione, gli spazi per portare al lavoro il valore della propria differenza, competenza, presenza qualificata, sembrano davvero risicati.
Allo stesso modo, il capitalismo ha imparato ad applicare la logica della merce ai bambini, al tempo libero, alle pulizie, all’amore, al sesso. L’estensione di fenomeni come le nuove schiavitù, o la prostituzione, stanno a dimostrare proprio questa tendenza alla generalizzazione della merce. La logica degli oggetti alienabili sempre più viene applicata a tutto quello che faceva parte, fino a ieri, di sfere legalmente o moralmente inalienabili.
Lavorare stanca
C’è un altro aspetto che vorrei sottolineare. I movimenti degli anni Settanta per primi si sono posti il problema del rifiuto del lavoro, vale a dire del lavoro alienato e comandato, nelle diverse forme di lavoro salariato o autonomo[xvii]. Viene rifiutata la costrizione della scelta tra lavoro e quindi reddito (pur minimo) e libertà d’espressione e di agire. Oggi, che il lavoro produttivo ha ampliato a dismisura la sua sfera di sussunzione, la questione assume un’attualità dirompente. Nella società della merce, lavoro e identità sono praticamente sinonimi. Se il lavoro – come è – è precario, occasionale, privo di senso, se la nascita del lavoro moderno porta su di se il segno dell’opus servile degli antichi, non gli si può dare certamente il valore autonomo del fare dell’attività. Chiariamo quindi che cosa si intende con il termine lavoro: il puro mezzo di vendita, lo strumento della sussistenza, l’oggetto dello scambio salariale o qualcosa d’altro? Il lavoro dà funzione, non identificazione. Perfino il lavoro intellettuale non può più dirsi permeato del privilegio dell’identità e dell’espressione, di converso al lavoro manuale, privo di ogni creatività. La crescente destrutturazione del mercato del lavoro, il capitalismo diffuso, le tecnologie, la “formazione permanente” della società del controllo, il controllo sociale del marketing, ecco quello con cui, oggi, ci dobbiamo confrontare[xviii]. La nostra identità di donne deve passare per forza attraverso le gerarchie maschili del lavoro dei maschi, delle regole del potere economico stabilite dall’uomo, per valorizzarsi? Sia chiaro, non sto riecheggiando un ritorno a casa per tutte a cullare i bambini ma mi chiedo se in questo ritrovare stesse e la propria essenza attraverso la formula della “libertà nel lavoro” non ci sia un richiamo forte a forme di lavorismo fordista che credevamo sepolte per sempre. Ritorniamo all’etica del lavoro, al presunto privilegio dell’identità? Ma di che lavoro si tratta? Ripeto, che cosa di intende per lavoro, visto che il lavoro produttivo è lavoro comandato, subordinato e gerarchizzato?
Le donne per secoli non hanno conosciuto il lavoro capitalistico remunerato ma solo il lavoro domestico gratuito al servizio dell’istituzione famiglia. Per liberarsi dall’asservimento economico del lavoro domestico, hanno cercato il lavoro remunerato, quello con la “elle” maiuscola. Hanno cercato l’indipendenza economica, ma ciò non significa che, attraverso questo passaggio necessario abbiano avuto in regalo, automaticamente, la conquista della libertà di scelta e l’indipendenza della propria soggettività. E’ stato necessario ma non sufficiente: le donne sono entrate nel mercato del lavoro senza poterne ricontrattare le regole, sommando lavoro produttivo a lavoro riproduttivo. Qui sta la contraddizione. Qui il potenziale conflitto.
Che fare?
Non lavorare per vivere ma vivere per lavorare. Perfetto. In teoria, mi trovo d’accordo. Riempiamo di senso ciò che facciamo. Rifiutiamoci di fare ciò che non ci piace. Liberiamo ai nostri fini tutte quelle sensibilità che sentiamo spingere dentro. Puntiamo esclusivamente alla nostra personale valorizzazione. Ma come la mettiamo con la nostra Sylvia, che questo proprio cercava, giovane eroina spezzata? E come se la caverà (lo ridico, anche se, lo so, rischio di diventare noiosa) la centralinista della Traco che per otto ore al giorno ripete buongiorno, il suo nome, e si sforza di essere utile al gentile cliente che ha chiamato?
Siamo alla conclusione di questo breve e faticoso percorso. La proposta del reddito di cittadinanza può riuscire a dare una risposta univoca a tutte le anime che abbiamo punzecchiato, che sentiamo diverse ma che vorremmo vedere ricomposte. Può aiutarci a recuperare, almeno in parte, il senso di quello che facciamo. Può diventare un fattore di inclusione sociale per quelle donne che hanno problemi di marginalità. Un fattore di riproposizione del conflitto per quelle donne che subiscono più forte le contraddizioni del sistema e le sue forme di sfruttamento. Lo strumento per poter vivere la nostra diversa identità. Per poter vivere nel lavoro, se così si vuole, o per non lavorare affatto. O per lavorare meno. E diversamente. Tutte facce di un’unica luna.
Pur nelle modificate condizioni e forme della prestazione lavorativa, la necessità del lavoro come fonte di reddito permane. A differenza dell’epoca fordista, siamo di fronte a una differenziazione delle forme del lavoro, non più riconducibile a un’omogeneità. Non è un caso che tale differenziazione si esplichi anche nell’universo femminile, con la comparsa sulla scena economica e sociale di diverse tipologie di donne, tanto più numerose quanto maggiori sono le sfaccettature del lavoro. Si tratta di una flessibilità che per il momento favorisce la riproposizione di gerarchie di genere assai marcate, che assumono forma nuova perché inserite in un contesto organizzativo nuovo. Ma che, nella sostanza, pur nell’apparente liberazione che sembra rappresentare il lavoro femminile, nascondono vecchi elementi di subordinazione di genere, di classe e, aspetto – questo sì nuovo – , di gerarchie tra donne. I lineamenti salariali, le regole e le forme che costituiscono i rapporti di lavoro ancora oggi ci parlano dello svantaggio sofferto dalle donne. Il ricatto del bisogno e del reddito sono impedimenti di sistema, storicamente determinati, che non ci consentono certo di riuscire a rintracciare la liberazione nel lavoro. Per poter parlare di liberazione femminile occorre prima liberarsi da questi vincoli. Andare oltre il lavoro. Il reddito di cittadinanza può essere un utile strumento a questo scopo e può dare un significato compiuto, può cominciare a segnare i contorni di quella irreale realtà del desiderio che, come abbiamo raccontato all’inizio, tanta parte ha nell’esperienza delle donne. In nome di un’effettiva scelta di soggettività e autonomia decisionale. Non solo immaginata. Non solo propagandata.
[i] Vedi S,.Plath, “Diari”, Adelphi, Milano, 1998, pag. 324 e pag. 325.
[ii] Vedi P.Virno, “Mondanità”, Manifestolibri, Roma, 1995, pag. 91.
[iii] Vedi G.C.Caffentzis, “Sulla nozione di crisi della riproduzione sociale: un riesame teorico”, in M.Dalla Costa, G.F. Dalla Costa (a cura di), “Donne, sviluppo e lavoro di riproduzione”, F.Angeli, Milano, 1996, pag. 186.
[iv] Ibidem, pag. 194-95.
[v] La differenza del dato sulla disoccupazione tra donne e uomini è soggetto a diverse interpretazioni e critiche. Il calcolo dei tassi di disoccupazione è ottenuto come rapporto tra due valori assoluti distinti per genere – maschi disoccupati sul totale della forza-lavoro maschile e donne disoccupate sul totale della forza-lavoro femminile. Alcuni (ad esempio
P.Plet, D.Barberis, “I numeri delle donne”, in “Via Dogana”, n, 37, maggio 1998, pagg. 6-8) affermano che tale distinzione di genere “ha l’effetto di schiacciare al ‘ribasso’ la misura della disoccupazione maschile relativamente a quella delle donne” (Ibidem, pag. 6). Per ovviare a ciò viene proposto di calcolare il tasso di disoccupazione di genere facendo riferimento al totale della forza-lavoro (donne più uomini). In tal modo, il tasso di disoccupazione femminile risulterebbe del 6,4% contro il 5,8% di quella maschile. Ma tale revisione statistica appare quantomeno curiosa: ci si dovrebbe domandare infatti perché il tasso di partecipazione femminile, vale a dire la forza lavoro femminile potenzialmente sul mercato, è di gran lunga inferiore a quella maschile piuttosto che nascondere questo dato. La realtà è che molte donne non si presentano neanche sul mercato del lavoro ma rimangono (in modo più o meno coatto) nell’ambito del lavoro domestico. Se si considerasse l’intera popolazione femminile in età di lavoro (con età compresa tra 15 e 60 anni), le donne che si presentano sul mercato del lavoro non raggiungono una soglia superiore al 35%. Tale dato però va scomposto per area territoriale e per età: nel centro-nord, ad esempio, le casalinghe rappresentano solo il 35% delle donne tra i 45 e i 59 anni di età e i tassi di attività delle donne hanno raggiunto livelli paragonabili a quelli riscontrabili in paesi con una ben più lunga tradizione di partecipazione femminile. Ben diversa è la situazione nel mezzogiorno (al riguardo si veda E.Reyneri, “Occupati e disoccupati in Italia”, Il Mulino, Bologna, pag.55). Tuttavia, anche nelle aree a più alta partecipazione femminile, il tasso di disoccupazione femminile risulta quasi il doppio di quello maschile. Infine, se si considerassero disoccupate le donne che non si affacciano del tutto sul mercato del lavoro, il dato sulla disoccupazione femminile schizzerebbe di gran lunga verso l’alto. A fronte di queste considerazioni, il tentativo di correggere il dato della disoccupazione femminile considerando la forza-lavoro totale come variabile di riferimento, appare un maldestro tentativo di occultamento di una realtà purtroppo esisente.
[vi] Dati tratti da: Istat, “Indagine trimestrale sulle forze lavoro in Italia”, Roma, 1996.
[vii] Giovanna Altieri, ricercatrice dell’Ires, ha dimostrato come nel corso degli anni Novanta crescano contemporaneamente l’occupazione femminile e le differenza di stipendio rispetto ai maschi. Vedi G.Altieri, “I redditi da lavoro delle donne: lontano dalla parità”, in Polis, 1992, n.6. Lungi dall’essere un paradosso, questa spiega proprio quella richiesta di flessibilità che il mercato del lavoro italiano, terreno del “capofamiglia” maschio bianco, sta facendo alle donne italiane.
[viii] “Infatti, mentre altrove le donne, sommando il lavoro per il mercato e quello per la famiglia lavorano mediamente un 13% in più di ore rispetto agli uomini, per le donne del nostro paese la differenza sale al 28%. Dal Rapporto si apprende che la giornata lavorativa media della donna italiana è di 470 minuti, pari a otto ore, contro i 429 minuti delle francesi, i 413 minuti delle inglesi, 376 delle israeliane”, vedi C. Valentini, “Le donne fanno paura”, Il Saggiatore, Milano, 1997, pag. 54.
[ix] Ibidem, pag. 95-96. La Valentini cita come esemplare, a rappresentare il fenomeno, “la vicenda di un’inchiesta del settimanale inglese The Economist che dava conto dell’avanzata del lavoro femminile in America e in Europa, prevedendo già nel titolo che il “secondo sesso” di domani sarebbero stati gli uomini. La stampa italiana, certamente non la più attenta ai temi femminili, aveva ripreso quasi in blocco l’articolo per dimostrare la tesi del declino del maschio. (…) In questo quadro, l’Italia non era mai nemmeno nominata, nonostante le sue varie anomalie, a cominciare dalla disoccupazione femminile, “crollata nei primi dieci paesi europei”, ci informava The Economist, e invece da noi addirittura doppia di quella maschile”.
[x] Vedi A.Rosso, A.Soru, “Le donne: lavoro autonomo e imprenditorialità”, Quick Report n. 19, Formaper, Milano, novembre 1997.
[xi] Vedi E.Degiarde, D. Gregorio, “Motivazioni e dinamiche dell’imprenditorialità femminile in Lombardia”, Irer della Lombardia, Milano, giugno 1997
[xii] Vedi L.Cigarini, M. Marangelli, “Pratiche politiche per creare libertà”, in “Via Dogana”, n, 37, maggio 1998, pag. 3.
[xiii] Rapporto Censis, 1995: “il sapere fatto di capacità professionali ma anche di radicamento nei valori personali più solidi, è un patrimonio e della risorsa femminile che sta diventando l’avanguardia del nuovo che si muove nel lavoro”.
[xiv] Vedi B. Caccia, “Quando il lavoro diventa donna”, in “Via Dogana”, n, 37, maggio 1998, pag. 9.
[xv] Vedi M. Faucault, “La volontà di sapere”, Feltrinelli, Milano, 1991, pag. 124.
[xvi] R. Ulargiu (a cura di), “Razza operaia. Intervista a Jann Moulier-Boutang”, Calusca Edizioni, Padova, 1992, pag. 33.
[xvii] Vedi L. Annunziata, R. Moscati, “Lavorare stanca”, Savelli, Roma, 1978.
[xviii] Vedi, G. Deleuze, “La società del controllo” in Derive&Approdi, Anno IV, numero 9/10, febbraio 1996, pagg. 59 e seg.