La situazione di emergenza sanitaria rischia di perdurare nel tempo. Già si paventa la terza ondata (nonostante le misure prese), una volta che la seconda ondata volgerà verso un parziale declino. Si millanta la distribuzione del vaccino per la primavera 2021 ma se si ripete la kafkiana situazione del vaccino anti-influenzale, allora è probabile che la situazione andrà per le lunghe. Si struttura così una situazione di recessione economica che fa comodo a molti, in primo luogo al capitale. Stiamo infatti assistendo a un processo di ristrutturazione interna al mondo capitalistico che accelera tendenze già in atto: da un lato, l’ulteriore dematerializzazione e concentrazione dei processi di valorizzazione e, dall’altro, l’individualizzazione (domestication) delle condizioni lavorative (con l’annesso corollario di precarietà esistenziale) e il crescente peso del ricatto dal bisogno.
È in questo contesto che crediamo sia necessario sviluppare una nuova concezione di welfare, adeguato alla situazione presente, come prima risposta non solo difensiva ma anche offensiva. Al riguardo, possiamo rimandare alla proposta di Commonfare (Welfare del Comune), come modello antitetico al Workfare e in grado di rinnovare il concetto di welfare keynesiano.
A tal fine, occorre pensare ad un intervento strutturale, che vada oltre la logica, oggi dominante, dell’emergenza e del tampone provvisorio, in grado di far partire un processo virtuoso di riforma potente del sistema degli ammortizzatori sociali e dei sussidi al reddito, come primo strumento, tra altri, per favore l’auto-determinazione individuale e l’emancipazione dallo stesso ricatto dal bisogno.
In tema di garanzia di reddito, un primo obiettivo intermedio potrebbe essere lottare per l’ampliamento dell’attuale dispositivo disciplinare e work-farista rappresentato dalla Legge 26/2019, definita “Reddito e pensione di cittadinanza” sino a trasformarla radicalmente nella direzione di un reddito di base incondizionato (anche se non universale).
In Italia tra aprile 2019 e ottobre 2020 sono state avanzate, in totale, 2,56 milioni di domande per il Reddito di Cittadinanza (RdC) o per la Pensione di Cittadinanza (PdC), di cui 1,46 milioni al Sud, 685 mila al Nord e 416 mila al Centro. Di queste, quelle accolte sono state 1,54 milioni (il 60%), quelle respinte 575 mila e quelle ancora in lavorazione 447 mila. Delle domande accolte, poi, 188 mila sono decadute o sono state revocate e 381 mila sono giunte a completamento, essendo terminato il primo ciclo di erogazione pari a 18 mensilità. Al riguardo, ricordiamo che, passati i primi 18 mesi, occorre rinnovare la domanda e aspettare che venga accolta (con la conseguenza di non ricevere reddito almeno per un mese). Il rinnovo è possibile solo una volta. Il che significa che la durata massima di erogazione del reddito, sic rebus stantibus, è pari a tre anni (36 mesi).
Ne consegue che a fine ottobre 2020, a beneficiare del RdC sono 832 mila nuclei familiari, per un totale di 2,1 milioni di persone coinvolte, mentre la PdC coinvolge 138 mila nuclei familiari, corrispondenti a 157 mila persone.
In totale per il mese di ottobre le due misure sono costate 460 milioni, in netto calo rispetto ai 675 milioni di settembre, quando è stato registrato il picco massimo di beneficiari.
Il costo complessivo è finora di circa 6,5 miliardi.
L’obiettivo di tale provvedimento è duplice: da un lato, dotare l’Italia di un dispositivo che contrastasse il forte incremento di povertà che si è verificato all’indomani della crisi finanziaria del 2008 e dell’adozione delle politiche di austerity (sino ad abolirla, nelle parole di Di Maio), dall’altro, incentivare l’ingresso nel mercato del lavoro.
Ci soffermiamo sul primo aspetto (incentivare l’ingresso sul mercato del lavoro ci interessa meno: più che il diritto al lavoro, infatti, auspichiamo il diritto alla scelta del lavoro).
Lo stato della povertà in Italia, fotografato dall’Istat, quindi prima ancora che si scatenasse l’attuale emergenza sanitaria e sociale, è il seguente:
- Sono quasi 1,7 milioni le famiglie in condizione di povertà assoluta con una incidenza pari al 6,4% (7,0% nel 2018), per un numero complessivo di quasi 4,6 milioni di individui (7,7% del totale, 8,4% nel 2018).
- Dopo quattro anni di aumento, si riducono per la prima volta il numero e la quota di famiglie in povertà assoluta pur rimanendo su livelli molto superiori a quelli precedenti la crisi del 2008-2009. È l’effetto positivo dell’introduzione del reddito di cittadinanza, che risulta comunque ancora troppo limitato rispetto agli obiettivi dichiarati, soprattutto di fronte al fatto che sia probabile un aumento nel numero di poveri assoluti nel 2020 e nel 2021 (quando scadrà il blocco dei licenziamenti).
- Rimane, invece, stabile il numero di famiglie in condizioni di povertà relativa: nel 2019 sono poco meno di 3 milioni (11,4%) cui corrispondono 8,8milioni di persone (14,7%del totale), a riprova che il RdC non riduce la povertà relativa.. Anche questo dato è destinato a crescere nel contesto di emergenza socio-economica che stiamo vivendo e come già rilevato dal rapporto Caritas, pubblicato il 17 ottobre scorso.
Si può quindi convergere su un primo punto: occorre ampliare la platea dei possibili beneficiari del RdC: il numero è esiguo. I requisiti di accesso sono oggi troppo stringenti perché tale provvedimento possa avere un impatto significativo sulla riduzione della povertà.
Su circa 9 milioni di persone in povertà relativa, solo il 14% lo riceve. E i poveri assoluti (chi non può comprare nemmeno i beni essenziali) lo scorso anno sono diminuiti solo di 447mila, nonostante circa 2,3 milioni di persone avessero il sussidio. È comunque un risultato che inverte la tendenza di un costante aumento negli scorsi 10 anni, ma assolutamente insoddisfacente.
Inoltre, punto non secondario e fortemente discriminatorio, a fronte di 1 milione e 400mila stranieri in povertà assoluta (tra loro l’incidenza è quattro volte più alta che tra i cittadini italiani), solo 260mila cittadini extracomunitari prendono il sussidio.
A tal fine proponiamo che il RdC sia dato all’individuo, sulla base di un reddito calcolato non sull’Isee (che oggi, paradossalmente, si riferisce ad una situazione patrimoniale vecchia di due anni) ma sul livello di reddito dichiarato, finché non si provveda una riforma nel calcolo Isee. E soprattutto chiediamo che la soglia di accesso sia come minimo portata a 12.000 euro l’anno per individuo (corrispondente + 20% della soglia di povertà relativa) per scala di equivalenza sulla base del numero dei componenti della famiglia per chi ha la casa in proprietà (oggi 6000 euro) e a 18.000 euro per chi si trova in affitto (oggi 9360 euro)
Inoltre pretendiamo che il reddito venga erogato a tutti coloro che abitano nel territorio di domicilio (ovvero siano residenti), a prescindere dalla nazionalità. Il requisito di 10 anni di permanenza continua in Italia per consentire ad uno straniero di accedere al reddito, oltre a essere discriminatorio, razzista e odioso, è probabilmente anche anti-costituzionale.
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In Italia, la spesa assistenziale ha visto crescere il suo peso relativo solo negli ultimi dieci anni. Nel 2014 ha superato per la prima volta la soglia del 9% delle prestazioni erogate (dal 7,1% degli anni ’90) per giungere all’11% nel 2019.
L’assistenza sociale viene fornita in prevalenza in denaro (83%) ma anche in natura, sotto forma di servizi erogati direttamente da strutture pubbliche o in convenzione col privato (17%), per un totale di 52,9 miliardi (2019) Nel 2019, per la prima volta dal 1995, non sono più le prestazioni a invalidi civili, ciechi e sordomuti ad assorbire la quota maggiore di spesa (35,2%, 16,5 miliardi) ma la categoria degli altri assegni e sussidi (37,8%, 19,9 miliardi). Quest’ultima ha avuto un peso residuale fino al 2013 ma, a partire dal 2014, con l’introduzione del c.d. bonus 80 euro, è fortemente cresciuta contribuendo a portare l’intero ammontare speso per assistenza sociale per la prima volta sopra la soglia del 9%; la crescita è proseguita fino al 2019, anno in cui ha raggiunto il massimo peso dell’intero periodo (11%) per l’effetto aggiuntivo dell’introduzione del RdC. Tra le altre prestazioni assistenziali figurano poi, con il 17% della spesa (9 miliardi), quelle erogate sotto forma di servizi (asili nido, case di riposo per gli anziani, supporto alle persone non autosufficienti e molto altro), le pensioni e assegni sociali, cui è destinato il 9,8% (5,2 miliardi), e le pensioni di guerra (0,8%, 42 milioni).
Questi dati ci dicono che la spesa per il sostegno diretto al reddito è oggi pari a 15,7 miliardi; a 9, 2 miliardi se non consideriamo la spesa per il RdC.
La stima dei costi necessari per portare tutti i poveri relativi al di sopra dell’attuale soglia relativa è compresa in una forbice tra i 19 miliardi e i 30 miliardi, a seconda se si considera la prima casa all’interno del calcolo del reddito Isee (anno di riferimento, 2018). Tale cifra deve essere rivista al rialzo, se teniamo dell’attuale fase economica. Possiamo dire che una cifra di 35-40 miliardi potrebbe essere sufficiente. Come abbiamo visto, ogni anno vengono trasferite alle famiglie circa 9 miliardi di euro, sotto forma di sussidi per l’inoccupazione (Aspi, Naspi, mobilità, indennità di disoccupazione, varie forme di cassa integrazione, ecc.), al netto dei trasferimenti previdenziali e del RdC.
Proponiamo che l’ampliamento dell’attuale legge sul RdC abbia come obiettivo anche l’inclusione all’interno di tale dispositivo degli attuali strumenti di ammortizzazione sociale. Si tratta di pensare a una sorta di road map per trasformare l’attuale RdC in un reddito di base libero da obblighi comportamentali (quindi incondizionato) in grado di sostituire progressivamente e illimitatamente l’80% di tali trasferimenti, come esito di una ristrutturazione e semplificazione del sistema degli ammortizzatori sociali oggi tra i più iniqui e distorti a livello europeo, a favore di un’unica misura, ne consegue che il costo netto si aggira in una forbice tra 25-30 miliardi di euro. Si tratta di una cifra impegnativa ma abbordabile, anche alla luce della maggior disponibilità finanziaria su cui l’Italia può contare e tendendo conto che il governo ha già stanziato finora quasi 30 miliardi di misure a sostegno del reddito (la cui quota maggioritaria è costituita dal pagamento della casa integrazione).
In conclusione si tratta di rovesciare la doppia logica che oggi sta alla base dei provvedimenti in materia di sicurezza sociale.
La prima logica è quella che prevede, in un primo momento, la definizione della cifra che è possibile stanziare e, in un secondo momento, sulla base di tale cifra, si definiscono i paletti di accesso, così da stimare un numero di beneficiari in linea con i vincoli di spesa. Per il RdC si è arrivati addirittura al paradosso che la cifra stanziata è stata superiore all’effettivo costo della misura.
La seconda logica è quella classica della politica italiana di protezione sociale. Si tratta di intervenire ogni volta con un nuovo strumento quando si aprono nuove falle nel sistema a causa dell’emergere di qualche nuova figura precaria e non protetta, sulla base delle trasformazioni del mercato del lavoro. Così se negli anni del boom economico era in funzione il sussidio di disoccupazione, con riferimento alla figura del lavoratore dipendente e stabile, con l’inizio della crisi fordista, comincia a prendere piede il dispositivo della cassa integrazione (che oggi assume tre forme: ordinaria, straordinaria, in deroga), a tutela dei lavorator* che smettono di lavorare ma formalmente non perdono il posto di lavoro, in presenza di temporanee ristrutturazioni aziendali. Negli anni Novanta, a seguito della prima fase della liberalizzazione dei licenziamenti collettivi, viene istituita l’indennità di mobilità, a cui seguono con l’esplosione della precarietà, l’Aspi e la Naspi e oggi il RdC per i cd “poveri”. Si tratta di un inseguimento (con ritardo) delle nuove forme del lavoro, partendo sempre dal principio che è la condizione lavorativa che deve essere tutelata, non la persona. Con l’emergenza sanitaria, si è continuato pervicacemente su questa strada, sino ad arrivare a inventarsi il Reddito di Emergenza e vari interventi una tantum alle varie attività professionali. Il risultato è una giunga di provvedimenti, dove è inevitabile che qualche categoria finisca per essere esclusa.
Occorre rovesciare questa perversa logica. Garantire un reddito minimo a prescindere dall’appartenenza a qualche segmento di lavoro, in modo strutturale e non temporaneo. In questa trappola hanno corso il rischio di finire anche movimenti, perorando la causa di un reddito di quarantena (temporaneo) e/o di cura (settoriale).
Un simile risultato è possibile se partiamo dall’esistente per stravolgerlo. Certo, siamo su un piano istituzionale e proprio per questo è necessario che un obiettivo di medio termine venga sostenuto dalla più ampia mobilitazione sociale possibile, Covid o non Covid. Perché il modo migliore per fronteggiare l’emergenza sanitaria è risolvere l’emergenza socio-economica.
PS: in questa situazione è più che mai importante firmare per la campagna dei cittadini europei per la raccolta di un milione di firme da presentare alla Commissione europea entro il 24 settembre dell’anno 2021. La Commissione europea ha deciso di autorizzare il nuovo ECI-UBI 2020, l’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE) per l’introduzione di un reddito di base incondizionato negli Stati membri dell’Europa. Il titolo dell’iniziativa dei cittadini europei è: “Start Unconditional Basic Incomes throughout the EU” (Avviare redditi di base incondizionati in tutta l’ UE).
Per dettagli e per firmare: BIN Italia Network