La forza politica e alternativa di questa misura, della legge regionale per il reddito minimo garantito nel Lazio, stava proprio nella possibilità di avviare una sperimentazione su come sottrarre tempo al ricatto del lavoro precario o purché sia, e contestualmente verificare se il tempo stesso poteva avere un significato e un utilizzo diversi (quindi tempo diverso, diverso concetto di produzione, diversa società). L’idea di fondo dunque, a partire proprio dal «minimo garantito», dalla definizione di una soglia economica minima per una vita dignitosa, poteva comunque essere accolta come base reale, misura economica e legislativa anche nel nostro paese, una via nuova verso una ridefinizione del welfare e dei diritti, e allo stesso tempo, fondando sulla possibilità di scelta una nuova idea di partecipazione e dinamicità sociale.
Parole e concetti
Affrontare l’esperienza della legge laziale per chi come me ha collaborato alla sua definizione non è semplice perché potrebbe portarmi a narrare una esperienza personale che poco interessa il lettore e anche chi scrive; dunque forse uno dei modi per analizzare l’esperienza della legge laziale e i suoi possibili significati è quello di partire dal nome.
L’idea del «reddito minimo garantito» viene partorita dopo alcuni anni in cui la base del ragionamento portava all’idea di un «reddito sociale», cioè un intervento in grado di contrastare le difficoltà economiche dentro un quadro forse più consono alla tipica lotta alla disoccupazione e alle politiche sociali. La volontà di chiamare la legge «reddito minimo garantito» nasceva invece da quelle analisi che riportano ai temi dell’opportunità, dell’autonomia e della scelta; percorsi possibili e praticabili nel momento in cui una base economica, un minimo, è appunto garantito. L’idea di fondo, che avrebbe dovuto essere il pilastro di questa legge, era proprio che avere un reddito garantito potesse aumentare le possibilità soggettive di scelta, di gestione del proprio tempo (ancor di più in tempi di precarietà di vita): reddito garantito come strumento di sottrazione dal ricatto della precarietà del lavoro e dal rischio povertà.
Non si può sottacere che le riflessioni intorno alla necessità di aumentare le possibilità di scelta e la libertà dei soggetti sociali in verità non ha mai fatto realmente breccia nei decisori politici regionali e nella politica in generale e che invece per tutti, consiglieri, giunta, dirigenti e forse anche alcuni tra quelli che hanno partecipato al percorso di costruzione della legge, questa misura è stata concepita dentro la sfera welfaristica e come una misura per dare un «risarcimento» a chi era colpito dalla crisi.
Eppure la forza politica e alternativa di questa misura stava proprio nella possibilità di avviare una sperimentazione su come sottrarre tempo al ricatto del lavoro precario o purché sia, e contestualmente verificare se il tempo stesso poteva avere un significato e un utilizzo diversi (quindi tempo diverso, diverso concetto di produzione, diversa società). L’idea di fondo dunque, a partire proprio dal «minimo garantito», dalla definizione di una soglia economica minima per una vita dignitosa, poteva comunque essere accolta come base reale, misura economica e legislativa anche nel nostro paese, una via nuova verso una ridefinizione del welfare e dei diritti, e allo stesso tempo, fondando sulla possibilità di scelta una nuova idea di partecipazione e dinamicità sociale.
Quando nel 2005 iniziò il percorso che portava alla legge, lo sguardo era fortemente rivolto alle trasformazioni del sistema lavoro. Un sistema che, negli ultimi decenni del secolo XX, aveva subito profonde modificazioni: nuove modalità di regolazione dei rapporti fra impresa e lavoro, decentralizzazione della produzione, flessibilità della prestazione. Il lavoro fisso cominciava a essere sempre meno una possibilità reale e sempre più un’eccezione, soprattutto per i cittadini più giovani, e si cominciava a parlare di precarietà del lavoro e della vita quale risvolto negativo della flessibilità. Il lavoratore flessibile, o meglio precario, era, ed è ancor più oggi con la seconda generazione di soggettività precarie1, di fronte alle esigenze della propria esistenza privo della pur minima protezione sociale con tutti gli squilibri che ne derivano nella gestione del presente e nella progettazione del futuro.
Da questi primi passaggi, sinteticamente ripercorsi, si è posta la necessità e l’urgenza che il decisore politico e il legislatore esaminassero l’ordine delle questioni in gioco e provassero ad affrontare queste anomalie e squilibri sociali. L’introduzione di un provvedimento legislativo che definisca il diritto individuale al reddito costituisce dunque un tema politico di particolare rilevanza.Accanto alla necessità di intervenire in maniera forte per contrastare le nuove forme di diseguaglianza, si poneva allo stesso tempo una questione proprio sul piano del diritto e delle garanzie sociali. Si partiva da due assunti: da un lato la necessità di rompere quel meccanismo di ricattabilità al quale è sottoposto il lavoratore disoccupato e precario, che in assenza di garanzie economiche è costretto ad accettare qualsiasi lavoro; dall’altro la volontà non di costruire uno strumento di sola assistenza alle persone in difficoltà lavorativa, cioè un reddito di ultima istanza o solo legato alla crisi, ma di inserire l’idea di un diritto incondizionato, un nuovo diritto economico, una base reddituale come ampliamento delle opportunità, in grado di ridefinire i contorni dell’autonomia dei soggetti sociali.
Per iniziare, un percorso aperto
La legge per l’istituzione del reddito minimo garantito è stata votata dal Consiglio regionale del Lazio il 4 marzo 2009 quasi a ridosso della fine legislatura, malgrado il percorso di costruzione fosse iniziato nel settembre del 2005 attraverso forme di partecipazione sociale, sindacale e politica2. In quell’anno infatti prese le mosse un cammino lungo e stimolante, con un’interessante quanto proficua e partecipata discussione nelle diverse sedi istituzionali e sociali. L’approccio all’idea di un diritto come la garanzia di un reddito partiva da lidi differenti, a seconda della lettura delle trasformazioni contemporanee del lavoro e del diritto, dall’idea di partecipazione a una società, dal confronto con altre esperienze europee, o dalle necessità materiali di soggetti sociali colpiti dalle limitatezze del welfare italiano e dai ritardi in merito al sostegno al reddito. Un viaggio dunque lungo ma pieno di spunti che ha mostrato tutta la ricchezza di un dibattito che in Italia aveva visto già negli anni precedenti esprimere posizioni e proposte3. Esperienze necessarie per affrontare al meglio la discussione intorno a una proposta che avviasse una sperimentazione di un nuovo diritto sociale, di cittadinanza, garantito. Una ricerca sui modelli europei4, promossa dall’Assessorato al Lavoro, fu un passaggio fondamentale per realizzare la legge, perché prendeva per esempio tutte le misure di reddito garantito vigenti in Europa, evidenziando anche agli scettici che il tema non era peregrino e che l’Italia era (ed è) uno dei pochi paesi a non avere una misura simile5.
A fronte anche di un percorso lungo e articolato la legge avrebbe forse potuto vivere ancor più incisivamente nel piano sociale e politico, contaminandosi con concetti più forti e strategici, come liberazione del tempo, autonomia, scelta, rottura del ricatto. Malgrado ritardi o strategie che fanno parte della sfera politica, il numero delle domande presentate per accedere al beneficio è stato così alto che si pone la questione del reddito garantito come un tema, per usare vecchi termini, di massa. Questi numeri danno una spinta tale da superare il piano locale o welfaristico, rientrando a pieno titolo ed empiricamente tra i temi strategici, politici, sociali, che riecheggiano nella scena nazionale o continentale, in grado di ridefinire una nuova idea di rapporti sociali e di società.
Sulla legge
La legge della Regione Lazio, in quanto articolato, e definizione giuridica di un diritto come il reddito, può essere annoverata sicuramente come una delle più avanzate e innovative relativamente alle forme di sostegno al reddito, almeno nel nostro paese. Non solo perché sorpassa i limiti della legge campana che rimanda esplicitamente alla povertà familiare, ma perché definisce un beneficio di carattere individuale. Malgrado vi si possano riscontrare limiti oggettivi (vedi il means test) rimane però una misura, forse l’unica in Italia, con un carattere universalistico. In essa non viene posto un limite di età per presentare domanda e quindi accedere al beneficio; non vi è la questione della cittadinanza bensì della residenza dando così la possibilità a tutti i cittadini che vivono nel territorio regionale di poter fare richiesta; non vi è alcun obbligo al lavoro e laddove il legame tra diritto al reddito e lavoro è presente si determina con la formula della «congruità». Questo ultimo passaggio è particolarmente interessante per due motivi. Il primo è che rimanda comunque al beneficiario la possibilità di discriminare il proprio reimpiego in linea, congruamente, rispetto alla formazione, alle competenze, alle capacità, riconoscendo così valore all’investimento che non solo la persona ma tutta la comunità ha fatto fino a quel momento. La congruità evita quindi di alimentare il meccanismo del continuo ribasso nei diritti, nei compensi, nella soddisfazione e questo semplice passaggio (per altro mutuato da molte misure europee) fortifica una società nel suo complesso, perché contrasta la perdita di competenze personali e quindi l’impoverimento delle società nel loro complesso. La legge sul reddito minimo nel Lazio prevede anche un altro passaggio interessante che, se messo a sistema, potrebbe rappresentare un inizio possibile e immediato per ridefinire alcuni diritti di base: il cosiddetto «reddito indiretto» che nella legge laziale viene definito da alcune misure (in trasporti, cultura, casa, sanità etc.) anche se queste vengono demandate agli enti locali. Queste misure, se accompagnate da una forma di reddito diretto monetario, possono effettivamente disegnare un modello di interventi ad ampio raggio. Bisognerebbe inserirle, come detto, all’interno di un sistema integrato, una sorta di «sportello» per cui sia possibile accedervi, in maniera semplice, ogni qualvolta le persone entrino nella soglia minima. Queste misure di sostegno indiretto al reddito possono quindi essere la base su cui muovere da subito in ogni regione i primi passi verso interventi concreti per la trasformazione di un welfare ormai evidentemente incapace di rispondere alle esigenze delle persone, attivando le molte competenze regionali che riguardano diversi aspetti della vita quotidiana (dai trasporti alla sanità, alla cultura all’abitare).
Certo, evidentemente la legge ha anche diversi limiti, probabilmente e in parte perché la politica non ha saputo o forse non ha voluto scommettere fino in fondo su questa partita. La questione delle graduatorie, come vedremo più avanti, ha avuto, per esempio, un effetto pesantemente negativo escludendo un numero elevato di persone, oltre a determinare un allungamento dei tempi organizzativi. Inoltre il costo di queste procedure ovviamente è a carico del finanziamento totale e dunque va ad indebolire la cassa destinata all’erogazione di reddito (facendoci di nuovo recuperare quegli studi sulla sostenibilità economica del basic income, cioè il reddito garantito a tutti i cittadini a prescindere dal means test, che affermano quanto il basic income sia meno costoso delle misure di welfare e ancor meno delle politiche di workfare proprio perché non necessita delle macchinosità organizzative tecnico-burocratiche), a rimarcare anche l’enorme distanza dagli altri paesi europei proprio in relazione ai meccanismi di applicazione ed erogazione del reddito.
In alcuni casi però la macchina amministrativa ha saputo – voluto – agire in sinergia con questa legge. È il caso della Provincia di Roma che, organizzando momenti di formazione per gli operatori dei Centri per l’impiego sul tema del reddito, è andata nella direzione di fare sistema avvicinando i «tecnici» a strumenti nuovi, o ancora, introducendo misure come il «reddito del cittadino in formazione» – un sostegno economico a coloro che partecipano a corsi di formazione – capace di aumentare l’impatto e sostenere la
produzione anche di cultura sociale. Enti locali come le province possono quindi intervenire, in attesa di una misura nazionale se non addirittura continentale, sulle forme di sostegno al reddito e sulla ridefinizione di strumenti consoni a rispondere alle trasformazioni avvenute.
I numeri la sostengono. La politica meno?
Oltre le parole, che sottendono sempre un approccio contenutistico, la legge del Lazio la si può leggere anche dal punto di vista dei numeri. Almeno di quelli pubblici che è stato possibile mettere insieme nella fase di avvio. Per sopperire, evidentemente, alla esiguità dei finanziamenti regionali in rapporto al numero reale degli aventi diritto, la Regione ha inteso stabilire una graduatoria a punteggio in cui sono attribuiti punteggi ulteriori per i carichi familiari, per le donne, per i soggetti in emergenza abitativa e per i disoccupati di lungo periodo. La domanda poteva essere presentata presso gli 800 uffici postali della regione. Il risultato sono state otre 115.000 domande presentate di cui circa 70.000 nella sola Provincia di Roma6.
Pur nell’assenza di adeguate forme di comunicazione pubblica da parte della Regione Lazio, il numero di persone che hanno fatto richiesta è stato nei fatti decisamente significativo. La Regione si era attrezzata – attraverso l’emanazione del regolamento attuativo – con due strumenti: il primo di definizione di un target «generazionale», ovvero potevano farne richiesta solo le persone con una età compresa tra i 30 ed i 44 anni; il secondo di preferenza per la popolazione femminile. Nonostante l’introduzione del limite d’età che ha in sostanza mozzato il principio universalistico contenuto nell’articolato, la quantità di domande ha scoperchiato una realtà sottaciuta seppure evidente, ossia il numero enorme di aventi diritto, ma ancor prima, di persone, in particolare donne, che non arrivano a 8.000 euro annui, che hanno difficoltà economiche, che sono precariamente occupati, disoccupati, etc.
Ma c’è di più. La Regione, tenendo conto dei dati in suo possesso sul target definito dei 30-44enni ipotizzava di ricevere non più di 50/60mila domande. Le domande effettivamente presentate hanno fatto emergere altre 40/50mila persone prima praticamente «invisibili» agli occhi non solo della politica. Persone non solo fuori dal mercato del lavoro regolare, ma sconosciute alle statistiche, ai diritti. Proviamo ad immaginare se il limite di età non fosse stato introdotto, se al beneficio di legge avessero effettivamente potuto accedere i cittadini di ogni età in possesso dei requisiti di reddito. Il numero sarebbe stato ancora più alto e il tasso di disoccupazione e degli iscritti ai Centri per l’impiego avrebbe segnalato una realtà molto più drammatica. Eppure davanti all’alto numero di richieste e di bisogni sociali il finanziamento alla legge non è aumentato. Il governo nazionale si è negato e le elezioni regionali7 hanno mostrato tutto il peso del ritardo con cui questa legge è arrivata ad approvazione.
Ma andiamo per punti. Innanzitutto la questione delle graduatorie che rappresenta un aspetto limitante perché sceglie alcuni tra la totalità degli aventi diritto. La legge prevede le graduatorie come strumento con cui dare priorità a gruppi sociali maggiormente in difficoltà. Dove si determina allora l’esclusione? Sulla capacità economica, ovvero sulla quota di risorse economiche che il governo regionale è riuscito a destinare per questo nuovo diritto, e la graduatoria è diventata il modo più semplice per «limitare» il numero di domande. Questo meccanismo ha portato a scegliere coloro che versavano in una condizione di emergenza, un elemento depotenziante dell’intenzione contenuta nella legge, e cioè di funzionare da strumento anticipatorio del rischio povertà. Questa scelta la porta invece a intervenire quasi come strumento di ultima istanza, perdendo incisività proprio sul fattore autonomia, scelta, rottura del ricatto che la legge voleva avere come sfondo ed obiettivo. Dove sono le responsabilità? Come sempre nella volontà politica. I ritardi accumulati nell’iter di approvazione, per esempio, hanno evidenziato la disattenzione politica con cui si è affrontato questo nuovo strumento ancor più nel momento delle scelte di carattere economico. A fronte di ingenti risorse destinate al workfare, a stabilizzazioni raramente realizzate, a sostegni alle imprese, all’enorme macchina della formazione etc., la giunta regionale ha deciso che le risorse economiche destinate alla legge per il reddito dovessero essere in fondo una parte minore. Non si possono sottacere nemmeno i buchi economici che hanno le regioni, e in particolare il Lazio (vedi sanità) ma uno strumento come questo avrebbe dovuto richiedere forse un maggiore coraggio politico, un maggiore lavoro culturale e promozionale e soprattutto il coinvolgimento anche economico del piano nazionale, dando così a questa legge il valore di una sperimentazione utile alla costruzione di una misura nazionale. Quindi, l’investimento economico è stato il vero limite: 130 milioni di euro (su carta) complessivi
per tre anni, sono, nonostante gli sforzi di alcuni fatti per arrivare a questa cifra, un segnale poco coraggioso e insufficiente per rispondere ai numeri reali. Mentre scriviamo poi, la nuova giunta di destra sembra aver seppellito i finanziamenti a questa legge che, in questo modo, ancora prima di spiccare il volo, come diritto rischia già di morire. Così le necessità sociali anche questa volta hanno superato di gran lunga e a tutti i livelli il macchinoso dibattito politico, dando un segnale, che solo se colto, potrebbe aprire scenari molto interessanti. I dati del primo anno hanno dimostrato infatti tutta la necessità di una misura strutturale e urgente, superando velocemente il concetto di sperimentazione e rivendicando la necessità di una seria politica di reddito minimo e non più solo sul piano regionale (che potrebbe adoperarsi per garantire le misure di reddito indiretto) ma nazionale, se non direttamente europeo.
Oggi possiamo dire senza ombra di dubbio, anzi con maggiore enfasi di prima, che il dibattito politico sui «perché sì» o i «perché no» al reddito, sia esso in seno alle istituzioni o ai movimenti sociali, tra i sindacati o gli accademici, è superato dalla necessità delle persone che i numeri raccontano e che avere una misura come il reddito garantito è non solo utile, se inserita in un diverso approccio politico e culturale, ma, nei fatti, necessaria.
Oltrepassare i confini
Il numero delle richieste al beneficio però non può essere considerato solo all’interno dell’emergenza o della crisi economica, ma anche dal punto di vista della possibilità, cioè delle reali opportunità diverse che si potrebbero venire a creare, ovvero di quegli elementi fondativi di società, rafforzativi della democrazia, in grado anche di riaprire il dibattito sulla distribuzione delle ricchezze. Il riconoscimento della dignità della persona (il minimo garantito), la possibilità di avere uno strumento di rottura del ricatto (in particolare della
precarietà) in grado di poter utilizzare il rifiuto del ricatto «del lavoro purché sia», dimostrano che una misura come il reddito garantito apre scenari ancora sconosciuti proporzionalmente all’aumento del grado di scelta soggettiva che offre.
La legge regionale laziale, come quella campana o altre misure locali, hanno avuto senso dentro la mancanza di una risposta nazionale e allo stesso tempo all’interno di una congiuntura che vedeva oltre dieci regioni governate da quella che viene definita compagine progressista e che avrebbe dovuto o potuto tentare una via più europeista a partire dalla questione dei diritti sociali e del reddito. L’esperienza laziale, forte proprio dei numeri messi in campo (pochi soldi, molti richiedenti) dimostra forse il senso più compiuto
di riportare le competenze regionali su un piano del reddito indiretto lasciando al panorama continentale o nazionale una misura di reddito diretto. Può inoltre aver determinato, in Italia, quel precedente necessario affinché il tema continui a vivere e possibilmente a essere sperimentato, facendola funzionare e aumentandone il finanziamento, verso una legge nazionale. In questo senso quindi, anche nella direzione
della chiarezza e universalità, non auspichiamo 20 leggi regionali ma piuttosto un reddito garantito per tutti arricchito da misure di reddito indiretto, regionale e locale. Passare i confini, della propria regione o del territorio nazionale, sembra quindi necessario anche per definire, proprio a partire dai diritti, quell’alleanza sociale in grado di porre al centro dell’agenda politica la questione del reddito garantito, non solo come risposta alle modificazioni avvenute o alla crisi finanziaria e del lavoro, ma proprio da questi fattori ormai epocali, ridefinire anche attraverso il reddito garantito una nuova idea di società, di rapporti sociali, di distribuzione delle ricchezze, a partire da quegli stessi termini che nella legge del Lazio hanno timidamente fatto capolino: autonomia, opportunità, libertà di scelta.
note
* Socio fondatore del Bin Italia. Dal 2005 al 2010 collaboratore dell’Assessorato al lavoro della Regione Lazio per lo studio e la ricerca sul reddito garantito.
1 Vedi S.Gobetti, L.Santini, «La necessità dell’alternativa. Il precario della crisi e il reddito garantito» in Bin Italia (a cura di), Reddito per tutti un’utopia concreta nell’era globale, Manifestolibri, Roma 2009.
2 Dopo una manifestazione promossa dai movimenti sociali e dal sindacalismo di base al Consiglio regionale si definì un tavolo di lavoro aperto a realtà sociali e ai sindacati di base mentre in giunta si aprì un tavolo di lavoro con i sindacati confederali che richiedevano anch’essi una misura di reddito minimo. I tavoli portarono suggerimenti e proposte accolti nella stesura della legge.
3 Si vedano, solo come primo suggerimento, in particolare gli articoli comparsi sulla rivista Infoxoa; le pubblicazioni di libri come: A.Mantegna, A.Tiddi, Reddito di cittadinanza, verso la società del non lavoro, Infoxoatools, Roma 1999; E.Grazzi «Reddito di cittadinanza e diritto al reddito nel dibattito italiano» in Addio società del lavoro, Prokopp & Hechensteiner Bolzano 2008; A.Fumagalli, Dieci tesi per un reddito di cittadinanza, scaricabile su www.bin-italia.org.
4 S.Gobetti, L.Santini, A.Tiddi e autori vari (a cura di), Reddito garantito, le misure di sostegno al reddito in Europa per una legge nella Regione Lazio, promosso dall’Assessorato al lavoro della Regione Lazio prima edizione 2005; si veda anche il docufilm (a cura di F.Bria, S.Gobetti), Reinventare il Welfare – Belgio e Olanda parte prima.
5 I risultati ed i materiali della ricerca furono lo spunto per numerose iniziative di dibattito e confronto per aumentare la conoscenza dei modelli europei e rendere più familiare lo strumento reddito. Si veda anche www.portalavoro.regione.lazio.it.
6 Nel mese di settembre 2010 è stata resa nota la prima graduatoria di questa provincia che ha sancito l’accesso al beneficio per circa 4.000 persone che percepiranno un massimo di 7.000 euro annui.
7 Ci si riferisce alle elezioni amministrative di marzo 2010.
Pubblicato su: Quaderni per il reddito 1