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Basic income, una proposta per l’Europa in crisi

di Giuseppe Bronzini

Solo rilanciando una diversa idea di Europa fondata sul rispetto dei diritti sociali fondamentali e sulla solidarietà, l’Unione potrà uscire dal guado. A partire dal reddito di base.                                                

Per basic income si intende un reddito versato da una comunità politica a tutti i suoi membri, su base individuale, senza controllo di risorse né esigenza di contropartite. Questa proposta costituisce un programma politico radicale mirato a implementare la giustizia sociale. Pur implicando trasformazioni assai profonde, non solo nelle modalità produttive oggi egemoni ma anche negli stili di vita contemporanei, si presenta tuttavia come una “utopia concreta”, se non altro perché, almeno in una zona del pianeta. Si è già realizzata, come dimostra lo Stato dell’Alaska dove ad ogni cittadino è attribuito un reddito di 2.000 dollari mensili, senza alcuna condizione  o obbligo.

La traduzione in italiano di questa nozione è alla base di alcune incomprensioni; in genere si usano come sinonimi i termini di ” reddito di cittadinanza” o “reddito minimo universale”.   Queste formule dovrebbero sottolineare l’incondizionatezza e l’universalità dell’attribuzione patrimoniale. Si potrebbe discutere sull’aggettivo “minimo” o meglio “adeguato”, in quanto una somma concessa per il solo fatto di essere un cittadino costituisce un diritto di base, richiedendosi piuttosto che essa sia idonea a raggiungere i fini richiesti, e cioè garantire la dignità essenziale umana.

Tuttavia il dibattito contemporaneo in materia e le stesse istituzioni di moltissimi paesi conoscono numerose altre definizioni come “reddito sociale minimo”, reddito minimo di inserimento”, “salario di cittadinanza”, “reddito minimo garantito”, bolsa social, con le quali si intende in genere l’attribuzione solo a chi ne ha effettivamente bisogno di una prestazione in denaro per  combattere la povertà, il rischio dell’esclusione sociale e proteggere la dignità del soggetto in difficoltà, subordinata quasi sempre non solo al test del bisogno, ma anche all’accettazione di un’offerta di lavoro o  all’inserimento del soggetto in  programmi di studio, formazione o più generale di attivazione delle capacità produttive individuali.  Si tratta di una misura che ha acquisito in questi ultimi anni, un ruolo di cruciale importanza all’interno delle politiche europee sulla active inclusion, varate nel quadro della Strategia europea dell’occupazione e della cosiddetta  Lisbon Agenda, ma che è presente oltre che nei paesi occidentali più sviluppati anche in altre zone del pianeta come il Sud-america, dove circa trenta milioni di brasiliani vivono di bolsa social, o l’Africa meridionale.

L’idea di un diritto  ai “mezzi vitali” non è di certo nuova. Fu già avanzata da Bertrand Russel e altri ed argomenti a suo sostegno possiamo trovarli persino in Hegel o in Kant. Si può, anzi, osservare che questo nesso tra comunità politica e soddisfazione dei bisogni primari è, sin dal sorgere della civiltà occidentale, attestato dall’uso dei pranzi in comune nelle antiche Sparta o Atene. Ma è indubbio che la vera fortuna di questo concetto si è avuto solo nella seconda metà del ventesimo secolo, investendo in modo penetrante non solo il dibattito teorico, ma la realtà profonda delle istituzioni sociali.  Dalla fine degli anni 70 i più autorevoli studiosi di questioni sociali delle più varie tendenze hanno declinato, nel contesto di visioni del mondo molto differenti, la tesi del riconoscimento dello ius existentiae.

La vera premessa di questa esplosione del tema risiede nella vittoria sulle forze nazifasciste. Con essa  il tema della dignità dell’uomo ha trovato, nel secondo dopoguerra, una nuova energia costituzionale, tanto da aver fatto parlare di un ritorno al giusnaturalismo.  Ne sono conferma sul piano nazionale la Costituzione di Bonn che poggia su questo valore e su quello internazionale la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Sul piano sociale gli artt. 22 e 25 della Dichiarazione  richiamano la necessità della garanzia di risorse sufficienti per condurre una vita decorosa, così come il Patto ONU del 1966 sui diritti socio-economici, benché mai accettato però da USA e G.B.

Il tema del basic income conosce un più deciso decollo solo all’interno della discussione che si dipana con gli anni 70 sulle condizioni istituzionali di sfondo di una società giusta, promossa con il capolavoro del filosofo di Harvard John Rawls “Una teoria della giustizia”, con il quale il mondo accademico fu immesso prepotentemente nelle tematiche del cosiddetto neo-contrattualismo e recentemente Luigi Ferrajoli ha ricordato le ragioni di teoria del diritto che militano a favore della garanzia di un reddito svincolato dal ” test del bisogno” in forma universale e generalizzata.

Su questa scia di pensiero  è nata l’Associazione mondiale per il basic income (BIEN), con al suo cuore la pubblicazione in USA dei ” basic income studies“, e progressivamente si sono formate numerose ramificazioni in Europa, e recentemente anche l’associazione nazionale BIN – Basic Incombe Network – Italia (www.bin-italia.org).

Non solo in Europa la prima fase  di penetrazione dell’idea del basic income corre lungo le linee del diritto costituzionale e della teoria politica democratica. Tuttavia è solo con la contaminazione tra il tema del “reddito di base” e le trasformazioni radicali intervenute nei processi produttivi che si è soliti racchiudere nell’espressione di “passaggio al post-fordismo” con ciò che ne consegue che la prospettiva del basic income entra prepotentemente in agenda.

Verso la fine degli anni 80 l’attenzione degli studiosi di politiche sociali è catturata dall’emergere di una disoccupazione di massa e dal progressivo indebolimento del sistema di garanzie costruito attorno alla figura del lavoratore subordinato a tempo pieno e indeterminato e in grande aziende, destinato nella stragrande maggioranza dei casi a svolgere mansioni similari nel corso della propria “carriera”, spesso per il medesimo datore di lavoro.  Un fortunatissimo volume di Jeremy Rifkin poi volgarizzerà l’inedita situazione con la formula della “fine del lavoro”. In questo contesto l’introduzione di un basic income sganciato dalla prestazione lavorativa o anche di un reddito sociale minimo per disoccupati di lungo periodo diventa una delle opzioni in campo per fronteggiare le patologie di una società che sembra ormai dover perdere le certezze del pieno impiego, insieme alla riduzione generalizzata dell’orario di lavoro e alla politica dei cosiddetti lavori socialmente utili.

Molto più promettente è invece la seconda ondata di interesse per il basic income, nella quale prevalgono considerazioni pragmatiche e istanze garantistiche, che mirano a rendere più efficienti e al tempo stesso più inclusive le politiche sociali nel vecchio continente. Si ritorna a parlare di una tutela del  reddito di base” nell’ambito dell’implementazione della Lisbon agenda e della Strategia Europea per l’Occupazione, nonché all’interno dei processi di confronto multilivello connessi al cosiddetto metodo aperto di coordinamento. A partire dal 2000 i documenti comunitari pongono l’accento sul lavoro “di qualità”, sulla flessibilità in ascesa e quindi su iniziativa del lavoratore, sulle politiche di sostegno  nel mercato alla forza lavoro attraverso la formazione permanente e continua seguendo le indicazioni del premio Nobel per l’economia Amarthya Sen, l’opera di indirizzo dei servizi pubblici per l’impiego, la protezione generalizzata dal rischio di disoccupazione e il mantenimento dei livelli di reddito nelle transazione lavorative.

La Lisbon agenda  è riuscita, nonostante i suoi evidenti limiti di obbligatorietà, ad organizzare quantomeno un comune terreno di discussione e di confronto tra le diverse esperienze europee, privileggiando nelle sue procedure quelle esperienze, soprattutto scandinave, che hanno compiuto il salto in un sistema di flexicurity nel quale la garanzia di un basic income è uno dei pilastri del rinnovamento e dell’universalizzazione del welfare state.

Questo lento e non sempre lineare processo ha subito una improvvisa e drastica accelerazione dopo l’elaborazione del tanto discusso Green paper del 2006 sulla modernizzazione del diritto del lavoro che ha provocato una straordinaria partecipazione della società civile europea che da un lato è riuscita a mettere la sordina alle proposte più discutibili dell’originario testo e dall’altro ha portato finalmente nel Dicembre  del 2007 all’approvazione unanime  da parte del Consiglio Europeo di alcuni principi comuni di flexicurity che contemplano il ricorso al basic income. Da quella data le politiche dell’occupazione dei singoli stati, che vengono solo coordinate a livello europeo, dovranno indicare in che modo rispettano i principi comuni e comunque quali siano i percorsi che stanno seguendo per valorizzarli. Inoltre vi è stata una sorta  di ” costituzionalizzazione” europea della pretesa: qui il reddito viene in considerazione come diritto sociale fondamentale, direttamente protetto e riconosciuto dall’Unione.

Con le due Carte sociali europee il diritto è esplicitamente formulato e come tale è ripreso dalla Carta di Nizza al suo art. 34. Con questo articolo il basic income  è divenuto incontestabilmente un diritto sociale fondamentale  di rango europeo, con tutte le conseguenze che questo status comporta: ad esempio per proteggere un diritto sociale fondamentale gli Stati possono derogare a norme comunitarie in materia di libera concorrenza e mercato unico, possono compiere operazioni di tassazione particolari, possono privilegiare settori di cittadini in situazione di bisogno, mentre non possono abrogare le disposizioni attuative dei diritti della Carta.                                            

Già agli inizi degli anni 90 alcuni Autori impegnati a prefigurare una dimensione sociale della cittadinanza europea come  Philippe Schmitter e Michael Bauer si erano cimentati in studi di fattibilità per la copertura dei minimi vitali per i più bisognosi in Europa, in gran parte attraverso le risorse allora impiegate nella politica agricola comune. Per questa ipotesi lanciarono l’immagine di un euro-stipendium.  Nella attuale crisi internazionale  questa idea sembra destinata ad essere rilanciata: per combattere il social dumping e per realizzare la coesione sociale a livello dell’U.E. (obiettivi che già rientrano nei Trattati) l’U.E. potrebbe assumere la responsabilità diretta attraverso risorse proprie di un basic income europeo (con gli unionbonds,  l’utilizzazione dei fondi che oggi vanno all’irrazionale ed iniqua politica agricola comune, l’introduzione di una Tobin tax continentale, etc.).Va ricordato che esiste una base giuridica per questo intervento. Il Fondo per le vittime della globalizzazione economica, che aiuta i disoccupati, ha come premessa l’art. 159 del Trattato UE  sulla coesione sociale è la base giuridica che potrebbe essere utilizzata anche per misure del genere.

Anche se oggi mancano ancora strumenti di governance europea cruciali per questa materia (un governo dell’economia, un sistema fiscale omogeneo, una responsabilità della BCE anche per gli effetti sociali delle  sue scelte etc.) si realizzerebbe oggettivamente un salto verso una situazione più avanzata, un accenno importante verso la comunitarizzazione del settore della “solidarietà”. e al tempo stesso una premessa per una revisione dei Trattati per la promozione di ” cooperazioni rafforzate”, rese ora più facili dal nuovo Trattato.

Un passaggio del genere potrebbe essere anche sollecitato attraverso il nuovo strumento di partecipazione dell’iniziativa legislativa dei cittadini europei, introdotta nel Trattato di Lisbona, che prevede che almeno un milione di cittadini possano attivare l’intervento della Commissione su temi di interesse europeo, attraverso iniziative legislative ad hoc.

Su di un piano più generale, i documenti dell’OIL, del Fondo monetario internazionali e della Banca mondiale elaborati durante i giorni caldi della crisi hanno insistito sulla copertura dei minimi vitali in funzione anticiclica. Sembra così nascere da questa fase di straordinaria difficoltà per l’economia mondiale una nuova consapevolezza dello ius existentiae  come diritto umano emergente. Così come la dinamica sregolata della  globalizzazione economica ha messo a rischio la dignità essenziale di milioni di persone, riteniamo che l’auspicata  ri-regolazione, anche a fini di equità sociale degli scambi globali ad opera delle istituzioni internazionali, non potrà ignorare la salvaguardia di tale diritto.

 

Pubblicato su: Rivista Aprile, aprile 2010

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