Anche nei Centri Sociali, spesso l’aver liberato lo spazio non implica aver liberato il tempo. E’ con l’avvento del capitalismo che il tempo viene costantemente battuto. E non è un caso che l’antagonismo al capitalismo ha sempre cercato di ridurre il tempo di lavoro. Al posto del tempo liberato si sostituisce lo spazio liberato, come condizione per governare e “parlare” con il tempo.
“Mi alzo tra le 7.30 e le 8.00. Per svegliarmi, devo buttarmi sotto la doccia. Preparo la colazione: un caffè e il tè per la bimba, che poi vado a svegliare, grattandole la schiena per cinque minuti buoni, così si sveglia bene. Ha il suo immaginario, lei. E io?”
“Dopo il lavoro, verso le 7.00 di sera vado al Centro Sociale. C’è ancora poca gente, quasi nessuno. Si fanno due chiacchiere. Bisogna organizzare la serata. C’è da spostare il mixer. Sistemare il bar. Io mi occupo dei libri dell’Infoshop. Metto i libri sul tavolo seguendo un ordine più casuale che voluto. Mi accorgo che è sempre lo stesso. E’ come se andassi in automatico. E il tempo non esiste. Ma che cosa è il Tempo?”
“Spesso quando mi vedo con i compagni/e, si parla di lavoro, si tessono relazioni, qualche volta salta fuori un lavoretto: il soldo è sempre lì a ricordarti che ti devi muovere”.
Lo spazio liberato, il Centro Sociale, è qualcosa di concreto. Vi è tutto un immaginario racchiuso in quattro mura. Ma è più un immaginario esteriore che interno e visto dal di fuori può anche far paura. I giornali ci chiamano “autonomi”, oramai un parolaccia nel senso comune, quasi a significare un’alterità. Personalmente sono contento di essere un “autonomo”. Il significato vero indica libertà/liberazione, vale a dire non dipendenza. Oggi che l’attività lavorativa ha rotto i cancelli della fabbrica e si è parcellizzata sul territorio, è praticamente impossibile che esista un territorio/spazio liberato.
I Centri Sociali ambiscono ad essere spazi liberati, spazi di autonomia. Ma per essere tali, dovrebbero essere “autonomi” dalle relazioni economiche e sociali fondati sullo scambio capitalistico, cioè produzione e consumo di valore di scambio.
Qualsiasi atto della nostra vita ha oggi un valore e produce valore di scambio, è quindi interno alla sfera della produzione capitalistica, anche quello più neutro o più privato. Cambia sicuramente l’intensità del rapporto con la produzione capitalistica. Nel momento stesso in cui si compie un atto di lavoro, alle dipendenze, oppure eterodiretto, oppure libero da gerarchie ma finalizzato a produrre ricchezza socialmente riconosciuta, il rapporto con la sfera capitalistica è immediato e quindi ancor più traumatico. Ma pure quando si compie un qualsiasi atto di consumo, tale rapporto è forte. Anche comportamenti o atteggiamenti che a prima vista sembrano neutri o all’interno della sfera privata (come guardare la televisione, sentire un disco, o fare l’amore), oggi sono in modo diverso sussunti all’interno della valorizzazione capitalistica.
Quando si afferma che non c’è più tanta differenza tra tempo di vita e tempo di lavoro, oppure che non c’è più separazione tra mente e corpo, tra il “fare e il pensare”, implicitamente diciamo che non è più possibile nessuna forma di “autovalorizzazione”, vale a dire una valorizzazione della propria esistenza che si distingua da quella capitalistica.
Si parla spesso di “cooperazione sociale”, di “autoreddito”. Con queste espressioni si intende la capacità di generare spazi di comunicazione e di attività essenzialmente basati sul concetto di autorganizzazione o autoproduzione. Il termine autoproduzione è l’opposto di “eteroproduzione”, implica il controllo totale della propria attività e operosità al di fuori dei circuiti mercantili capitalistici. Parte dalla seconda idea di “lavoro”, quella che ha a che fare con l'”opera” e, contemporaneamente con l'”ozio”, nel senso latino di coltivazione delle proprie inclinazioni. La prima idea di lavoro (prima, perché dominante) è invece “dolore”, “fatica”, “tortura”, “sacrificio” assunta a necessità ineliminabile se si vuole raggiungere il regno dei cieli (leggasi un reddito per vivere dignitosamente, oggi non sempre garantito). E’ il lavoro produttivo, su cui il controllo psicologico dettato dal comando socio-economico, ieri disciplinare oggi sociale, si mantiene più ferreo che mai. E’ la sottrazione del tempo, che da ambito potenziale di liberazione, si trasforma in dannazione e prigionia dell’uomo.
Leggete cosa ha scritto Lewis Carrol, in “Alice nel paese delle meraviglie”.
Alice ebbe un sospiro di conforto: “Mi pare che dovreste spendere meglio il vostro tempo, invece di starvene a proporre indovinelli che non hanno risposta.”
“Se tu conoscessi il Tempo come me,” rispose il Cappellaio (Matto) “non parleresti di perderlo. E’ lui che fa così.”
“Non capisco”, disse Alice.
“Lo so che non capisci!”, disse il Cappellaio, scuotendo la testa con aria sprezzante. “Scommetto che non hai mai parlato con il Tempo!”
“Non mi pare” rispose Alice prudentemente. “Ma so che quando studio musica debbo batterlo”
“Adesso capisco!” disse il Cappellaio. “Ma tu lo sai, almeno che lui non ama essere battuto? Se tu riuscissi a restare in buon accordo con lui, ti farebbe con l’orologio tutto quello che desideri tu. Per esempio, supponi che siano le nove del mattino, l’ora in cui devi cominciare le lezioni (o il lavoro, ndr.). Ecco basterebbe che tu mormorassi una parolina al Tempo e in un attimo sarebbero già le dodici e mezzo, l’ora del pranzo!”.
E’ con l’avvento del capitalismo che il tempo viene costantemente battuto. E non è un caso che l’antagonismo al capitalismo ha sempre cercato (anche con successo) di ridurre il tempo di lavoro. Oggi che la produzione capitalistica ingloba anche la vita, non è più possibile. Al posto del tempo liberato si sostituisce lo spazio liberato, come condizione per governare e “parlare” con il tempo. E all’interno di queste TAZ (zone temporaneamente autonome) più o meno riuscite, si cerca l’autovalorizzazione, “la calce che diventa crema”, come cantano gli Assalti Frontali, ricordando la costruzione dello studio di registrazione al CSOA Forte Prenestino qualche tempo fa, per indicare che la stessa attività lavorativa capitalistica muta di significato se volta all’autoproduzione e quindi sotto il proprio controllo in termini di spazio e tempo..,
Ma se guardiamo a queste esperienze di liberazione, passati alcuni anni, vediamo che esse si trovano ad un bivio: o continuare a rimanere forme marginali di autovalorizzazione (autoproduzione o quant’altro) oppure crescere e svilupparsi, entrare in conflittualità con le istituzioni e le gerarchie di mercato dominanti e quindi farsi fagocitare (o farsi “sussumere”), fornendo, indirettamente, (se hanno successo) per di più, idee, creatività per perpetuare il dominio del comando capitalistico. Questo seconda possibilità è necessariamente implicita nella pervasività che la produzione capitalistica ha all’interno della nostra vita. Ne consegue che solo piccole isole di liberazione sono possibili, tanto piccole da risultare ininfluenti sul generale e quindi destinate ad essere “impolitiche” (sul modello delle comuni e/o autogestioni agricole su molte colline dell’Appennino).
Oggi la sussunzione o la fagocitazione passa soprattutto per due motivi tra loro strettamente correlati: da un lato, la precarizzazione porta a carenza di reddito e a divenire ricattabili dal lato del bisogno (spesso si scambia reddito con lavoro o reddito con tempo), dall’altro l’individualizzazione dei rapporti di lavoro impedisce il formarsi di una massa critica che sia in grado di rompere il cerchio vizioso: solitudine individuale, soluzione individuale, sopportata (e supportata) dalla speranza (immaginario) di riuscire a farcela e a diventare “competitivo” nel mondo mercantile (fare i soldi). L’incertezza di vita, oggi dominante, se è indicatore dello stato di precarietà, è comunque sintomo di transitorietà, e quindi, della possibilità di cambiare in meglio. Ciò porta a “battere il Tempo”, a divenirne schiavo.
Anche nei Centri Sociali, dopo il primo periodo di effervescenza, spesso l’aver liberato lo spazio non implica aver liberato il tempo, e dinamiche gerarchiche prettamente capitalistiche prendono il sopravvento. Ed ecco che la “cooperazione sociale” non è altro che cooperazione mercantile, una delle poliforme facce dello sfruttamento capitalista.
Se oggi è sufficiente vivere per creare ricchezza, vuol dire che siamo tutti autovalorizzati e non solo per scelta di coscienza. Se un tempo – penso all’esperienza di Potere Operaio e dell’Autonomia – si parlava di autovalorizzazione operaia (nell’ambito del lavoro), oggi si deve necessariamente parlare di autovalorizzazione sociale, che effettivamente si esplica nel “fare società” – come dice Bonomi – o nella figura del “volontario” come dice Revelli: un’autovalorizzazione sociale che è tutta, però, capitalistica, eterodiretta e controllata socialmente, e non alternativa come in modo ingenuo troppo spesso si pensa o ci si illude (all’interno di immaginari ricostruiti ad hoc).
Perché tale autovalorizzazione diventi forma di contropotere, e si liberi del controllo sociale, deve sfuggire alle maglie della legalità dominante e del conformismo sociale. Ed in primo luogo, deve essere frutto di riappropriazione del reddito che ci viene quotidianamente espropriato. Come favorire tale riappropriazione? Al riguardo, credo che occorra partire da alcuni punti fermi:
– La valorizzazione capitalistica ingloba l’autovalorizzazione perché la ricchezza (valore di scambio) è prodotta socialmente nel territorio ed è il territorio il luogo della riappropriazione di reddito. E’ importante quindi liberare “spazio” sul territorio, come ambito non per produrre autoreddito (altrimenti si innesca un circolo vizioso) ma come luogo da cui partire per organizzare incursione finalizzate a riappropriarsi di reddito esterno;
– Tali incursioni potrebbero essere finalizzate a valorizzare tutte le attività di vita che oggi non sono remunerate. Alcuni rozzi esempio, al riguardo. Mi si chiede di fornire informazioni gratuite sulle mie preferenze di consumo tutte le volte che entro in un supermercato? Bene, invece di rifiutare la tessera, chiedo di avere come minimo il 50% gratis della merce che acquisto, come ricompensa delle mie informazioni. Sono costretto a subire messaggi promozionali e pubblicitari? Bene, allora ho diritto ad un rimborso/indennizzo. Oppure, se ho un televisore, invece di pagare un canone, dovrei ricevere un indennizzo mensile, in quanto terminale volontario o involontario di messaggi che condizionano il mio operato. Devo seguire corsi di formazione per migliorare le mie competenze che verranno poi messe a valore nella struttura d’impresa per cui presterò la prossima collaborazione? Ebbene, che tale tempo sia più che remunerato (e non solo con il gettone di presenza, ma come attività lavorative vera e propria). Ecc., ecc.
– Indagare, inchiestare la struttura e le forme di creazione di ricchezza nel territorio di appartenenza, per avere gli elementi necessari per intervenire e incidere sulla distribuzione che ne consegue.
Riappropriarsi nel nostro reddito è una condizione necessaria (anche se non sufficiente) perché gli spazi liberati consentano di liberare tempo e attività sociale creativa.
Tratto da Infoxoa 14 Roma, 2002