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BIM – Basic Income Matters. Reddito di base e innovazione sociale

di Luigi Corvo

L’equilibrio da cui veniamo

Il Novecento è stato, fra le varie cose, il secolo che ha determinato un equilibrio fra i 3 grandi attori del sistema socio economico: le imprese for profit, lo Stato e le organizzazioni non profit.

Lo Stato moderno non nasce per un’esigenza meramente programmatica o pianificante. Esso nasce da una utopia ben più ampia che ha molto a che fare con la salvezza. L’istituzione pubblica si fa Stato in quanto incarnazione dello spirito moderno, universalistico, e apre concretamente la via verso la salvezza in quanto elemento di salute sociale, dimensione sintetica di un tutto che riesce ad essere più e meglio delle parti che lo compongono e che si differenzia dal “mucchio” di parti disorganiche, separate, disperse.

E non è casuale che la salvezza per lo spirito europeo venga incarnata dall’idea di Stato come evoluzione delle forme di lotta ai soprusi della forza: dapprima forza fisica feudale, poi forza produttiva del capitale.
Questa dunque è stata la grande salvezza del Novecento, un’integrità che si fa forza nei confronti di forze estrattive e che costruisce uno Stato di forza salvifica per chi, da solo, separato, non può avere forza.
Tale forza ha svolto un ruolo determinante in un mondo in cui il sistema socio economico era sostanzialmente tripartito: un mercato orientato al massimo profitto, uno stato riequilibratore e un settore definito terzo che miri a dare risposte a quella quota frizionale di società non inclusa né nei processi produttivi di mercato, né nei processi pubblici.

In questo quadro, dunque, hanno assunto un ruolo determinante le leve di riequilibrio disponibili da parte dello Stato: la tassazione e la moneta, su tutte, e la regolamentazione articolata in sfere civili, penali e amministrative.

L’oggetto del riequilibrio, tuttavia, era ben noto e certo: il profitto.
Grazie alla presenza del profitto, che orienta le scelte degli agenti verso la loro massima utilità e dunque verso quei comportamenti più in grado di soddisfare la capacità di espansione di potere e influenza, si giustifica e trova spazio la funzione di riequilibrio.
Tanto è vero che in ogni crisi vissuta lo Stato viene incitato a svolgere funzioni anticicliche, che altro non sono che politiche in grado di far ripartire le capacità di profitto in modo da poter ritornare, in questo caso con politiche cicliche, a svolgere il suo ruolo di riequilibratore.

In altri termini: la funzione pubblica ha senso se esiste il profitto, ed in caso di sua parziale assenza lo Stato stesso deve preoccuparsi di rianimarlo per riproporre la dialettica di profitto privato e riequilibrio pubblico.

Volendo sintetizzare (e banalizzare) al massimo il sistema di equilibri fra i 3 attori che ha contraddistinto il Novecento, diremmo:
le imprese, per generare valore aggiunto, impiegano cittadini e, quindi, contribuiscono al benessere sociale;
le imprese conseguono valore aggiunto e ne destinano una parte allo Stato sotto forma di tasse.
Lo Stato destina i suoi introiti al finanziamento di politiche pubbliche con l’obiettivo di redistribuire il valore generato.

 

I fattori di de-stabilizzazione

L’equilibrio a cui abbiamo appena accennato salta nel momento in cui intervengono cambiamenti dirompenti su due dimensioni chiave: lo spazio e il tempo.
Nel momento in cui lo spazio-stato non coincide con lo spazio-mercato, la tassazione diviene sempre meno efficace. A questo, infatti, si riferisce il dibattito attuale sulla web tax e in questo senso si producono numerosi tentativi di armonizzazione fiscale fra aree continentali omogenee.
Quando la capacità di prelievo fiscale diminuisce, dunque, avviene un disequilibrio fra capacità di profitto e capacità di redistribuzione del valore. Ciò rappresenta una prima significativa forbice di disuguaglianza che tende ad aprirsi e che, con il progressivo consolidarsi di questo fenomeno, potrà solo allargarsi.

A ciò aggiungiamo la variabile tempo: i processi, il ritmo delle decisioni è stato notevolmente incrementato dall’innovazione tecnologica. Tale innovazione, manco a dirlo, ha riguardato le imprese for profit molto più che le pubbliche amministrazioni e le organizzazioni non profit.

Gli agenti orientati al profitto, dunque, hanno potuto contare su tempi più rapidi e su spazi più ampi rispetto a chi agiva (e agisce) i fattori di riequilibrio. Le decisioni sul cambiamento della politica fiscale, ad esempio, richiedono tempi molto più lunghi e iter più complessi di una decisione di investimento condotta da un’impresa e quand’anche questa venisse assunta, l’impresa potrebbe sempre godere di uno spettro di possibilità più esteso in termini di spazio (spostare la localizzazione dell’investimento all’estero, ad esempio).
L’estensione di tempo e spazio, dunque, ha creato dei margini di profitto non riequilibrabili dall’attore pubblico, spiazzando di fatto la dinamica classica Stato-Mercato e mettendo le prime crepe anche nell’equilibrio sociale fondato sulla distribuzione di opportunità di occupazione.

Tuttavia l’innovazione tecnologica, oltre ad aver acuito un differenziale nei tempi di decisione-azione fra Stato e Mercato, ha creato ulteriori spiazzamenti intrinseci alla funzione di produzione e alla catena del valore.

 

La catena del valore

Michel Porter, economista statunitense e professore presso l’Harvard Business School, nel 1985 ha pubblicato il suo best-seller Competitive Advantage: Creating and Sustaining Superior Performance, teorizzando la Catena del Valore e dandogli una raffigurazione.
L’immagine mostra una freccia, che contiene elementi distinti ma connessi, tesi al raggiungimento di un risultato: il profitto.
Ma non sorvoliamo sull’elemento simbolico, la freccia, che indica una univocità di direzione, una predeterminazione del fine ultimo e un orientamento unificante per tutti i soggetti coinvolti: devono tendere al profitto, consapevolmente o meno.

Osservando attentamente si nota come lo Human Resource Management sia compreso fra le attività di supporto ed è proprio qui che avviene un primo importante cambiamento.
Chi sono, oggi, le human resources delle grandi imprese digitali?

Airbnb, ad esempio, conta circa 16 dipendenti in tutta Italia e, solo a Roma, si contano 9.900 host che grazie a quella piattaforma, generano reddito proponendo un nuovo modello di ricettività turistica. Questi 9.900 non sono dipendenti, eppure sono nella catena del valore di questa Corporation.

Allo stesso modo, tutti coloro che alimentano di upload la piattaforma Youtube non sono dipendenti di quell’impresa, ma grazie alla loro attività quell’impresa genera valore.
Svolgendo questa stessa analisi sulle più grandi imprese digitali del mondo, notiamo sempre un elemento: il ruolo centrale di una comunità estesa di nodi (talvolta imprese, talvolta persone fisiche) che, con la loro attività diffusa, ed integrati da piattaforme digitali, creano valore senza risultare dipendenti e, quindi, non venendo compresi fra le risorse umane.

Tale evoluzione ha non solo spiazzato le politiche fiscali, ma spiazzerà sempre più il ruolo dei corpi intermedi di rappresentanza ed advocacy del mondo del lavoro. I sindacati, ad esempio, non contemplano queste nuove forme di lavoro fra i propri cluster di iscritti e le politiche pubbliche appaiono sempre meno efficaci per cogliere i bisogni (e i diritti) di queste nuove tipologie di creazione di valore.
Il punto 1) dell’equilibrio Stato-Mercato, dunque, viene messo a rischio, e, considerando il differenziale di spazio-tempo fra impresa e PA, anche il punto 2) viene profondamente depotenziato (al crescere della quota di valore aggiunto generata dall’economia digitale il potenziale redistributivo della leva fiscale diminuirà).
La capacità redistributiva (punto 3) dello Stato è quindi molto inferiore e ciò acuisce il dislivello fra domanda di beni e servizi pubblici, in special modo in periodi di crisi, e la capacità di offerta da parte delle pubbliche amministrazioni (con maggior pressione sulle amministrazioni locali, dove la distanza fra bisogni ed Istituzioni è molto breve).

 

Il pensiero accelerazionista e l’innovazione sociale

Se il lavoro non è più un elemento direttamente riconducibile alla funzione di produzione interna all’impresa (configurandosi, come detto, secondo logiche di community based enterprises), e se gli strumenti fiscali non consentono di redistribuire il valore generato in modo efficace (la forbice di disuguaglianza cresce a ritmi più elevati rispetto alle attuali capacità di riequilibrio fiscale), come possiamo immaginarci forme di equilibrio contemporanee?

È in questa domanda, a mio avviso che si inserisce il dibattito sul reddito di base e sui suoi possibili impatti di sistema. Il nuovo equilibrio da ricercare non è un fattore di aggiustamento fra mercato e stato, o quantomeno non solo. È da ricercare, piuttosto, in un cambiamento profondo del ruolo dello stato e del suo modo di concepirsi rispetto ai nuovi bisogni sociali ed economici.

Uno Stato che punti a rincorrere le nuove forme di generazione di profitto, tentando di agire su di esso con la leva fiscale, giocherà su un campo che lo vede in netto svantaggio.
La via praticabile è quella proposta dalle tesi accelerazioniste: utilizzare il potenziale di queste nuove forme di economia e metterlo al servizio della generazione di valore sociale.

Una delle più interessanti opportunità degli ultimi venti anni riguarda le possibilità di accesso all’imprenditorialità. Grazie all’innovazione dirompente nelle tecnologie comunicative, in questa fase storica le informazioni per fare impresa, i dati sulle cui basi creare un modello di business, l’accesso agli input e l’affidabilità delle stime e delle previsioni sono molto più reperibili e possono essere utilizzate per creare forme di impresa collaborativa fondate sulla circolarità del valore generato.

Ciò sfida la classe dirigente a costruire una nuova politica pubblica: organizzare risorse, informazioni, dati, relazioni e asset patrimoniali per una diffusa chiamata all’innovazione.
Tale chiamata dovrebbe attraversare le Università, che necessiterebbero di una profonda rivisitazione della loro mission: se nel mondo in cui l’equilibrio fra stato e mercato era solido potevano concepirsi come luoghi della formazione per il lavoro, oggi ciò appare sempre meno scontato. Dovrebbero riproporsi come luoghi in cui nascono nuove idee e soluzioni in grado di dare risposte più intelligenti ai problemi sociali e, grazie all’ibridazione fra diversi campi della conoscenza, potrebbero trasformarsi da idee ad imprese. Dovrebbero fare, in sintesi, innovazione sociale.

Ma per fare ciò, per dare vita ad un grande programma di inclusione generativa dell’intelligenza collettiva, occorre portare le persone fuori dal bisogno di un reddito di base, occorrerebbe dar loro un tempo per sperimentarsi come attori del cambiamento ed integrare questa misura con la revisione degli strumenti di accompagnamento all’imprenditorialità già esistenti.

Il reddito di base è quindi un fattore determinante per raccogliere la sfida della società contemporanea: costruire nuove forme di generazione di valore a partire dai luoghi in cui si genera conoscenza e riconcependoli in modo sempre più ampio. In questa chiave troverebbero spazio le innovazioni più radicali, quelle che in Italia faticano fra l’accesso a bandi pubblici che parlano la lingua novecentesca delle procedure formali e delle barriere d’ingresso e un mondo che è proiettato sulla relazione peer to peer e sull’accesso open source.

L’utopia che si fa strada, dunque, riguarda l’accesso libero alle opportunità di questa epoca storica, con un ruolo pubblico fondato sull’equilibrio fra valore generato e impatto sociali ed ambientali, che, su vasta scala, altro non sono che un termometro del livello di uguaglianza della società.

 

Tratto da Quaderni per il Reddito n° 7 Reddito garantito e innovazione tecnologica, tra algoritmi e robotica

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