L’evoluzione delle trasformazioni del mercato del lavoro : il nesso delle evoluzioni del diritto del lavoro e del declino dei diritti di cittadinanza
1. Premessa: breve e succinto excursus storico sul processo di deregulation del mercato del lavoro in Italia.
Il processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro in Italia è iniziato a “long, long time ago”, esattamente nel 1984, diciassette anni fa (1). Tutto ebbe inizio con la legge n. 863, promulgata il 19 dicembre di quell’anno, il primo di una serie di regali di Natale, esito del cosiddetto Protocollo Scotti sul costo del lavoro (1983), il prototipo (inconsapevole?) della futura nefasta concertazione sindacale. In quella legge, furono allargati i criteri per il part-time, introdotti i contratti di solidarietà e i contratti di formazione-lavoro. Seguì poi nel 1987, la legge 56 che diede la possibilità di estendere il contratto a termine a tutti i settori.
Sul lato del salario e dei diritti sindacali, dopo il fallimento del referendum abrogativo relativo al decreto di San Valentino del 14 febbraio 1984 emesso al Governo Craxi che riduceva l’incidenza della scala mobile, ovvero il meccanismo automatico che difendeva il potere d’acquisto dei salari dagli incrementi del tasso d’inflazione, ha inizio in quegli anni il processo di revisione della stessa scala mobile che sfocerà poi nell’accordo del 31 luglio 1992, che sanciva l’abolizione degli scatti di contingenza. Al riguardo, ricordiamo che alla base di quel (nefasto) accordo, accettato con tribolazione da Trentin, allora segreterio generale della Cgil, in nome dell’unità sindacale e della supina accettazione del Trattato di Maastricht, vi era la garanzia che la Banca Centrale mai avrebbe provveduto ad una svalutazione della lira, per evitare un incremento dell’inflazione, ora che i salari non sarebbero sarebbero stati più protetti dal rincaro del costo della vita. La storia ci racconta che poco più di un mese dopo, il 9 settembre 1992, il Sistema Monetario Europeo (Sme) collassa e la lira comincia la più grande svalutazione del dopoguerra (superiore anche a quella della seconda metà degli anni Settanta: – 30% in un anno). La forte instabilità valutaria e i vincoli posti dallo stesso Trattato di Maastricht portano il governo, guidato da un altro socialista Giuliano Amato a decretare una manovra finanziaria lacrime e sangue dell’ammontare di 90.000 miliardi, la prima di una lunga serie di Leggi finanziarie tese a smantellare lo Stato sociale per consentire il rispetto dei parametri di Maastricht in materia di deficit pubblico e inflazione. Ha inizio così il processo di convergenza verso l’armonizzazione monetaria europea, il cui costo verrà esclusivamente addebitato ai ceti del lavoro dipendente e precario, sia in termine di organizzazione che di salario. (2)
L’accordo sul costo del lavoro del 23 luglio 1993 (si conferma l’abitudine di siglare accordi di concertazione prima che comincino le sudate e attese ferie estive) espropria la determinazione del salario nominale dal novero delle variabili contrattuali. A partire da quella data a tutt’oggi, la dinamica del salario monetario viene infatti predeterminata e vincolata al tasso d’inflazione programmato e quindi non è più oggetto di contrattazione sindacale, almeno a livello nazionale. Poiché, il tasso d’inflazione programmato è costantemente inferiore al tasso d’inflazione effettivo, per tutti gli anni ’90 si assiste ad una rincorsa del salario per mantenere inalterato il suo potere d’acquisto che non sempre ha esiti positivi.
Anche nel caso, in cui l’obiettivo viene raggiunto, grazie alla contrattazione integrativa (sempre meno diffusa (3)), il risultato complessivo è che tutti gli incrementi di produttività e del Pil non vengono distribuiti al reddito da lavoro ma sono ad esclusivo appannaggio dei profitti e delle rendite. Insomma, se anche la torta si allarga, se tutto va bene, al lavoro va la stessa fetta, e nella maggior parte dei casi, anche meno. Ciò spiega perché il salario relativo (vale a dire, in rapporto alla ricchezza complessivamente prodotta), che è l’unica misura corretta della distribuzione del reddito, abbia visto una costante diminuzione negli ultimi dieci anni per un ammontare superiore ai dieci punti percentuali. (4)
Con l’accordo del luglio 1993 si conclude così il processo di deregolamentazione e flessibilizzazione del salario monetario, iniziato con il decreto Craxi nel 1984. Tutto sommato, è stato sufficiente un breve lasso di tempo (meno dieci anni) per ottenere, con la complicità dei sindacati confederali, l’agognato obiettivo confindustriale di far sì che la variabile salariale venga completamente assoggettata alle esigenze di profittabilità delle imprese. Non è ancora completato, seppur ci si trovi a buon punto, il processo di espropriazione completo del salario differito (ovvero di quella quota di reddito da lavoro, accantonata mensilmente, sottoforma di liquidazione e contributi previdenziali e sanitari).
Ma l’attuale diffusione dei fondi pensioni privati, la privatizzazione dei servizi sanitari e la discussione in corso sull’utilizzazione del trattamento di fine rapporto (Tfr) per finanziare gli stressi fondi pensionistici privati lascia ben poche speranze per il futuro, soprattutto se si considera che nella gestione di tali fondi sono implicati anche i sindacati confederali. Se oggi il salario mensile è alla merce dei profitti industriali, domani il salario differito sarà terra di conquista per le rendite finanziarie.
Maggior tempo ha invece impiegato il processo di flessibilizzazione della prestazione lavorativa e la deregolamentazione del mercato del lavoro.
In primo luogo, è necessario ricordare la legge 146 del 12 giugno del 1990 sulla limitazione del diritto di sciopero, che sancisce l’obbligatorietà del preavviso due settimane prima della dichiarazione di sciopero e la garanzia del mantenimento dell’attività lavorativa per i lavori di pubblica necessità, condizione preliminare per bloccare sul nascere qualsiasi azione sindacale spontanea che non avvenga all’interno dei parametri di concertazione sindacale. La legge 236 del 19 settembre 1994 ha aggiunto la possibilità di assumere lavoratori con contratto di stage in apprendistato, la legge 299 del 16 maggio 1994 ha esteso l’uso della mobilità e dei contratti di formazione-lavoro e disciplinato i contratti di solidarietà (secondo i quali, i lavoratori, in parte, si fanno carico, a loro spese, delle difficoltà economiche dell’impresa di appartenenza). Nel frattempo, l’ennesimo accordo concertativi tra le parti sociali (sempre sotto il cappello governativo del Centro-sinistra), quello del 24 settembre 1996, denominato eufemisticamente “accordo per il lavoro”, consente, l’anno seguente, l’approvazione della legge che più di tutte sancisce in modo definitivo e irreversibile il via libera alla flessibilità totale della domanda di lavoro da parte delle imprese, la legge 196 del 24 giugno 1997, denominata “pacchetto Treu”, dal nome del ministro del lavoro allora in carica. In essa, si introduce il “lavoro interinale” (art. 1-11), si estende l’uso dei contratti a termine (art. 12), dei contratti a tempo parziale (anche per i titolari di laurea, con possibilità di distacco dal pubblico al privato a costo zero per l’impresa privata, art. 14 (5)), l’allungamento della durata dei contratti di formazione-lavoro nelle aree depresse, art. 15), lo sviluppo dei contratti di apprendistato, ecc., ecc.
Lo scopo dichiarato della Legge Treu è di flessibilizzare i parametri di entrata nel mercato del lavoro, favorendo in tal modo l’occupazione. Di fatto, invece favorisce un costante e crescente processo di sostituzione del lavoro a tempo indeterminato con lavoro precario (6). Ed è infatti questo l’obiettivo non dichiarato ma effettivo di questa legge, in seguito alla quale si assiste al boom della contrattazione atipica, soprattutto nella fase di entrata nel mercato del lavoro. Il completamento della flessibilizzazione e deregolamentazione dei meccanismi di assunzione arriva a totale compimento con la legge 469 del 23 dicembre 1997, che impone il decentramento e la privatizzazione del collocamento e il predominio della chiamata individuale su quella numerica.
Tale processo si innesta su un tessuto produttivo strutturalmente flessibile (7), caratterizzato da elevato decentramento, fondato su una dimensione d’impresa molto limitata (più della metà della media europea), con scarsa presenza pervasiva delle organizzazioni sindacali. Ne consegue che in Italia, la quota di lavoro autonomo è più che doppia rispetto all’Europa o agli Stati Uniti e che il numero dei lavoratori a cui può essere applicato lo Statuto dei lavoratori è inferiore al 30% dell’intera forza-lavoro. Se consideriamo i lavoratori parasubordinati (ovvero, i co.co.co., collaboratori coordinati e continuativi, formula lavorativa che resiste solo in Italia (8)), i lavoratori autonomi eterodiretti, le partite Iva, ecc., ecc., , il mercato del lavoro in Italia si presenta come quello più flessibile d’Europa e, in tema di tassi di mobilità, non ha nulla da invidiare a quello statunitense. Questo triste primato è essenzialmente da imputare alle forze politiche del centro-sinistra e alla concertazione sindacale, proseguita, dopo la legge Treu, con il Patto di Natale del 1998 e lo sviluppo dei patti territoriali e d’area (9).
Tuttavia, alle soglie del 2000, pare che tutto ciò non sia ancora sufficiente. Una volta flessibilizzato il salario, deregolamentata il meccanismo delle assunzione, occorre intervenire sui licenziamenti e sulle stesse modalità concertative delle relazioni sindacali.
Su queste materie, è ancora il governo di Centro-sinistra, prima presieduto da D’Alema, poi da Amato (sempre lui), a dare il là. Sarà poi il neonato governo Berlusconi a continuare l’opera, con la presentazione il 3 ottobre 2001 del libro bianco sul mercato del lavoro in Italia, nel quale si tratteggiano le linee guida dell’intervento governativo vecchio e nuovo.
Il gruppo di lavoro che redige il Libro Bianco è coordinato da Maurizio Sacconi, attuale sottosegretario del Ministro del Lavoro Maroni, ma con un passato da centro-sinistrista, e da Marco Biagi, docente dell’ Università di Modena, dell’area dei Ds, ed è composto da Carlo Dell’Aringa, docente dell’Università Cattolica e segretario dell’Aran (la Confindustria delle imprese pubbliche e dello Stato), di ispirazione cattolica-popolare, Paolo Reboani, ricercatore Isae, da Paolo Sestito, dell’Osservatorio del Ministero del Lavoro, già consulente per i problemi del Mezzogiorno del fu governo D’Alema e da Natale Forlani, ora amministratore delegato di Italia Lavoro (di proprietà pubblica, agenzia statale per lo sviluppo occupazionale) ma ex segretario confederale della Cisl. La composizione del gruppo di lavoro la dice lunga sul rapporto di continuità che esiste tra il Libro Bianco di Maroni e il passarto governo. Nel testo, oltre ad una dettagliata analisi del mercato del lavoro in Italia, vengono proposte una serie di misure di intervento che vertono su tre punti principali:
· Incrementare la flessibilità di assunzione tramite l’introduzione di nuova tipologia contrattuale di lavoro: il lavoro a progetto:
· Sviluppare la flessibilità in uscita, tramite una revisione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300 del 20 maggio 1970): argomento poi che diviene centrale nella delega interna alla Legge Finanziaria per il 2002 in materia di riforma del mercato del lavoro;
· Ridurre la contrattazione collettiva a vantaggio della contrattazione individuale.
2. Dall’individualismo economico all’individualismo contrattuale: il Libro Bianco di Maroni
Le premesse:
“In Italia, i dipendenti si sentono estranei ad un coinvolgimento dell’impresa in cui sono occupati. …. Il lavoratore non un semplice titolare di un ‘rapporto di lavoro’, ma un ‘collaboratore’. …. Esiste un problema di ‘deficit culturale’ che va sanato al più presto” (p. 17)
“Un mercato del lavoro flessibile, al contrario di quanto spesso temuto, può migliorare la qualità oltre che la quantità dei posti di lavoro, rendendo più fluido l’incontro tra obiettivi e desideri delle imprese e dei lavoratori in tema di caratteristiche della prestazione lavorativa, consentendo ai singoli individui di cogliere le opportunità lavorative più proficue ed evitando che gli stessi rimangano intrappolati in ambiti ristretti e segmentati. I lavoratori necessitano, in tale contesto, adeguate forme di tutela, ma queste devono agire innanzitutto nel mercato, non operare contro il mercato” (p. 22).
“In questi anni, …, maggiore flessibilità e moderazione salariale non sembrano aver portato ad uno spostamento a favore dei profitti lordi nella distribuzione funzionale del reddito” (p. 23).
“Il sistema di contrattazione collettiva ha mantenuto, …, caratteristiche di centralizzazione che si sono rilevate eccessive e inadeguate ad assicurare quella flessibilità della struttura salariale capace di adeguarsi ai differenziali di produttività e di rispondere ai disequilibri di mercato. … Essa produce norme che escludono la libera pattuizione individuale e non lascia alcuna flessibilità alle parti” (p. 24).
Il principi di fondo su cui si sviluppa il Libro Bianco e tutto il processo di flessibilizzazione degli ultimi 15 anni si base sul primato del libero mercato. Il mercato del lavoro è un mercato come tutti gli altri, dove l’equilibrio è garantito dal libero incontro tra domanda e offerta. Perché ciò avvenga occorre che vi sia piena flessibilità nella domanda e nell’offerta di lavoro, in modo tale da consentire il raggiungimento di un livello di salario in grado di garantire la piena occupazione (flessibilità del salario).
La filosofia di questo approccio sta nell’individualismo metodologico, ovvero quell’insieme di postulati che descrivono lo scambio economico come un atto che avviene solo tra individui e non su basi aggregate o collettive. L’individualismo economico è condizione necessaria e sufficiente per garantire l’equilibrio economico generale e il massimo benessere per tutti. Ne consegue che il principio regolatore del mercato del lavoro deve essere l’individualismo contrattuale. Per raggiungere ciò, occorre innanzitutto colmare il deficit culturale, di natura ideologica, che ancora attanaglia buona parte dei lavoratori, che non si rendono conto, che lavoro e capitale sono elementi paritari costituenti il processo produttivo. Condizione propedeutica, infatti, perché domanda e offerta di lavoro si esplichino in modo individuale, come una qualsiasi attività di scambio tra agenti economici, è che lavoratore/trice e impresa/imprenditore si muovino in ambiti di assoluta parità, senza nessuna discriminazione aprioristica. Pertanto, qualunque sia la forma contrattuale e giuridica che regola lo scambio paritario di lavoro, essa deve svolgersi all’interno delle regola del libero mercato. L’ambito giuridico di riferimento diventa così quello del diritto privato e del diritto commerciale. Il diritto del lavoro e il diritto pubblico o sono superflui o non devono avere nessuna voce in capitolo (10).
La contrattazione individuale è l’unico ambito che può regolamentare lo scambio economico che avviene sul mercato del lavoro. Qualunque intervento ad un livello sovra-individuale diventa distorsivo e quindi, capitalisticamente, inefficiente.
Il processo di individualizzazione del rapporto di lavoro è in atto da molto tempo nel nuovo paradigma dell’accumulazione flessibile, soprattutto in seguito alla crescente presenza di lavoro cognitivo, relazione, fondato sulle tecnologie di linguaggio (e non c’è nulla di più individuale del linguaggio). Tale processo, non solo è implicito nelle forme di lavoro autonomo, dove la contrattazione tra lavoratore e committente è per definizione diretta e senza intermediari, non essendoci formalmente un comando sul lavoro (rapporto di lavoro indipendente), ma comincia sempre più a diffondersi anche all’interno del lavoro subordinato (rapporto di lavoro dipendente). La contrattazione integrativa aziendale, con la collaborazione (inconsapevole?) dei sindacati confederali, ha favorito questa tendenza, soprattutto laddove (ed è la maggioranza dei casi) essa si traduce in forme di incentivi individuali che aumenta la disparità di trattamento economico, di orario e di condizione tra lavoratori/trici con le stesse qualifiche e gli stessi obblighi prescrittivi.
Il trasferimento dei diritti del lavoro e della cittadinanza dal piano pubblico – costituzionale alla sfera privata diventa eclatante nel caso del processo di regolazione in atto per quel particolare segmento del mercato del lavoro costituito dalla forza-lavoro migrante.
Nella legge Bossi-Fini, la permanenza legale del migrante sul territorio nazionale è subordinata all’esistenza di un “contratto di lavoro”. L’esistenza di un rapporto di lavoro è la condizione principale per ottenere il “contratto di soggiorno”, ovvero essere riconosciuto soggetto di diritti civili (anche se non politici). In tal modo, il permesso di soggiorno, ciò che Hannah Arendt definiva il “diritto dei diritti” in quanto passaporto per la visibilità sociale e civile, è vincolato dal contratto privato che si stipula sul mercato del lavoro: contratto privato, in quanto il contratto di soggiorno, non essendo illimitato, prevede la titolarità individuale di un rapporto di lavoro temporaneo. E’ facile immaginare quanto tale situazione renda ricattabile il migrante e come il datore di lavoro possa disporre non soltanto della forza-lavoro migrante ma anche della sua condizione di civis.
Ciò che viene oggi proposto per i migranti, non tarderà ad essere esteso a tutti i lavoratori /trici italiani. Il principio della contrattazione individuale sul mercato del lavoro non solo consente la massima flessibilità di assunzione e licenziamento, non solo favorisce il dispiegarsi di ventagli retribuiti differenziati, non solo mina alla radice qualsiasi possibilità di conflitto collettivo (11), ma soprattutto sancisce il primato del rapporto economico su quello giuridico, erodendo quello che è stato uno dei principi della rivoluzione francese: la libertà della prestazione lavorativa, magari solo “virtuale” (in quanto non sempre effettiva) comunque garantita dalla sfera del diritto pubblico e costituzionale,. Se il lavoro è libero, se non esiste obbligo al lavoro, allora il lavoro deve essere remunerato e il diritto all’astensione dal lavoro (diritto di sciopero, ecc.), diventa diritto costituzionale. Il lavoro schiavista e/o la servitù della gleba giuridicamente non esistono più (12). I diritti civili sono garantiti indipendentemente dall’attività lavorativa o non lavorativa dell’individuo. Con riferimento alla Legge Bossi-Fini, tale distinzione tende a non essere più valida.
3. Nuovi movimenti e nuove contraddizioni
Con il Libro Bianco di Maroni arriva a compimento l’intero processo di deregulation del mercato del lavoro: un processo su cui si sono mostrati concordi tutti i governi che si sono succeduti dai primi anni ’80 in poi, indipendentemente dall’appartenenza politica.
Si dipana così sotto i nostri occhi un disegno omogeneo e totalizzante che tende a regolare la prestazione lavorativa unicamente sulla base del rapporto di forza contrattuale tra singolo individuo e datore di lavoro.
Siamo all’essenza del rapporto di sfruttamento capitale-lavoro, nella sua immediatezza, senza intermediazioni politiche, sociali e giuridiche, così come si era sviluppato nelle fasi prefordiste.
Tale situazione si verifica, però, all’interno di un paradigma di accumulazione che vede in modo sempre più massiccio il coinvolgimento dell’attività cerebrale nel processo di valorizzazione della produzione e sociale. Sempre più nel varie prestazioni lavorative, anche in quelle che sembrano più distanti e diverse fra loro, più manuali o più cognitive, con diverso grado di prescrizione delle mansioni, in contesti cooperativi o gerarchici, ecc., ecc., gli aspetti comunicativi, relazionali, linguistici, esperienziali, formativi e di sapere, sono compresenti (13).
Apparentemente, tale cambiamento verso una maggior individualità (soggettività) della prestazione lavorativa favorisce parimenti un’individualizzazione del rapporto di lavoro: dal savoir faire al laissez faire. E ciò era sicuramente vero nella fase pre-fordista della produzione artigianale e dell’operaio di mestiere di fine ‘800 e prima decade del ‘900, quando la produzione era essenzialmente materiale, basata sulla divisione del lavoro manuale e dove la cooperazione produttiva era inesistente (14) .
Oggi, le tecnologie di comunicazione e linguaggio sono tanto più produttive quanto più sono in grado di creare reti di produzione e comunicazione, network e sistemi reticolari, cioè quanto più creano cooperazione sociale. Ma la cooperazione che si attua è il più delle volte cooperazione sfruttata o fondata su basi di comando gerarchico. Solo chi è dotato di saperi esclusivi (quindi una stretta minoranza) è in grado di sviluppare cooperazione linguistica paritaria e quindi essere dotato di un potere contrattuale in grado di reggere la contrattazione individuale. La stragrande maggioranza dei lavoratori/trici, pur se a diversi livelli e con diversi gradi di intensità, subisce, invece, l’individualizzazione del rapporto di lavoro e la conseguente precarizzazione, pur all’interno di un processo di valorizzazione sociale.
La contraddizione dell’accumulazione flessibile è dunque interna alla coppia: produzione socializzata – contrattazione individuale che rimanda, per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, all’ulteriore contraddizione: cooperazione orizzontale della produzione – verticalizzazione gerarchica delle decisioni e del comando (15).
E’ all’interno di questi due poli che si dà forma la moltitudine del lavoro, una moltitudine disomogenea, ma di classe, vale a dire accomunata dall’essere soggetta più o meno direttamente o al comando gerarchico o all’autoregolazione indotta dal controllo sociale.
E va in questa direzione, la recentissima tendenza nei mercati locali del lavoro delle aree a più alta densità di produzione immateriale di trasformare i contratti di lavoro parasubordinata e/o autonomo in contratti atipici di subordinazione, al fine di meglio controllare, sotto un esplicito comando diretto, la prestazione di lavoro cognitivo .
La questione della ricomposizione sociale passa attraverso la presa di coscienza di questi elementi contradditori, tanto più difficile quanto più le attività cerebrali umane, ovvero la vita stessa, sono inesorabilmente inserito nel contesto produttivo. E passa anche attraverso il riconoscimento, la ricerca, l’analisi dei diversi segmenti del lavoro che animano il rapporto di sfruttamento flessibile.
Paradossalmente, ma non troppo, in tempi in cui la struttura del comando economico si mondializza, viene meno la classica e fordistica ripartizione tra primo mondo e terzo mondo, per il semplice fatto che in ogni angolo del mondo, dal Nord al Sud, con intensità diverse e modalità ancora tutte da indagare, queste due realtà, questi due mondi sono contemporaneamente omnipresenti con tutto il carico di conflittualità che ne deriva.
Tratto da Derive Approdi – Aprile 2002
(1) Sui numerosi accordi sindacali e sul fiorire delle recenti leggi in materia di de/regolazione dei rapporti di lavoro, si consiglia il testo F.Spazzali – G.Tedesco, Mi fletto ma non mi piego, Collana Map, DeriveApprodi, Roma, 2000.
(2) Per un’analisi più dettagliata di quella fase storica, si rimanda a A.Fumagalli, “L’economia italiana sotto il gioco di Maastricht”, in L.Berti-A.Fumagalli, L’Antieuropa delle monete, Manifestolibri, Roma, 1993, specialmente le pagg. 110-119.
(3) Una ricerca dell’Istat di due anni fa evidenziava come il II° livello di contrattazione, quello aziendale, avvenga solo in un terzo delle imprese con più di 200 addetti, e spesso dà esito a forme di incentivazioni individuali, aumentando le sperequazioni di trattamento economico tra dipendenti di pari livello.
(4) E’ da notare al riguardo, l’elevato livello di ipocrisia e/o di ignoranza manifestato da molti sindacalisti (tra i quali anche Cofferati) e economisti di centro-sinistra, che continuano a ribadire l’efficacia dell’accordo del 23 luglio 1993, sulla base che in molti settori il potere d’acquisto dei salari non è poi così tanto diminuito!
(5) E’ in base a tale articolo, che nelle università italiane di fatto è in atto un processo di sostituzione tra la qualifica di ricercatore a tempo indeterminato e titolare di assegno di ricerca per la durata di due-quattro anni.
(6) Tale tendenza ha interessato in modo particolare le fasce giovanili: oggi, in media in Italia, due giovani su tre entrano nel mercato del lavoro con contratto atipico, percentuale che in alcune regioni, come Lombardia e Piemonte, supera il 75%. La flessibilità in entrata ha consentito, solo negli ultimi due anni, in presenza di una lieve crescita economica (peraltro già terminata) di aumentare il numero dei posti di lavoro, ma non le unità standard di lavoro. Con quest’ultimo termine, si definisce il posto di lavoro standard di 40 ore lavorative settimanali, che, grazie all’esplosione della contrattazione atipica, può essere occupato da più persone (ad esempio, con contratto part-time o a tempo determinato).
(7) Il modello taylorista della grande impresa ha preso piede in Italia solo nelle regioni del Nord-Ovest. Nel resto della penisola, la produzione manifatturiera e terziaria è sempre stata caratterizzata da elevata frammentazione. Si tratta di un aspetto che raramente viene preso in considerazione quando si fanno comparazioni a livello europeo.
(8) I co.co.co, secondo i dati Inps, hanno superato nel 2001, il tetto dei 2 milioni, vale a dire quasi il 10% della forza-lavoro italiana)
(9) Per un approfondimento su questi aspetti, si rimanda a T.Spazzali, G.Tedesco, Mi fletto ma non mi piego, …, cit.
(10) Per un approfondimento di queste tematiche, rimando a A.Fumagalli, “Flessibilità e gerarchie nel mercato del lavoro: il potere dell’economia sul diritto”, in Rivista giuridica del Lavoro, anno LII – 2001 – n. 3, pagg. 219-240.
(11) E di fatti, nel Libro Bianco di Maroni si propongono ulteriori limitazioni al diritto di sciopero.
(12) Il che non significa, ovviamente, che non esista nella realtà.
(13) Su questo tema, numerosa è la bibliografia
(14) Al punto tale che la cooperazione produttiva era antitetica e alternativa alla produzione capitalistica.
(15) Su questi aspetti, vedi A.Tiddi, Precari. Lavoro e non lavoro nel post-fordismo, di prossima pubblicazione, collana Map, DeriveApprodi, Roma, 2002.