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Capitalismo cognitivo e inchiesta neo-operaista

di Andrea Fumagalli

Il testo di Mario Tronti, “Operai e Capitale”, ci invita a interrogarci sul significato dell’inchiesta “neo-operaista” oggi. Aggiungerei: all’interno del capitalismo cognitivo. “Capitalismo”, “cognitivo”: due termini che spesso fanno rizzare i capelli sia ad alcuni  teorici del marxismo che agli apologeti della società post-industriale.

Il bell’inserto “All’ombra della fabbrica” pubblicato domenica da Il Manifesto in occasione della riedizione del testo di Mario Tronti, “Operai e Capitale”, ci invita a interrogarci sul significato dell’inchiesta “neo-operaista” oggi. Aggiungerei: all’interno del capitalismo cognitivo. “Capitalismo”, “cognitivo”: due termini che spesso fanno rizzare i capelli sia ad alcuni  teorici del marxismo che agli apologeti della società post-industriale. Eppure è proprio così: “capitalismo”, ovvero la (banale?) riproposizione dell’idea che viviamo in un sistema di produzione, fondato su un rapporto di sfruttamento in cui il lavoro è comandato dal capitale e non sull’esistenza di un rapporto di lavoro tra agenti economici dotati di pari opportunità. “Cognitivo”, poiché il comando del capitale sul lavoro tende a utilizzare la conoscenza (nelle sue molteplici accezioni) come leva dell’accumulazione sino a coinvolgere e innervare in modo crescente gli elementi di soggettività del lavoro stesso.

L’inchiesta, oggi, è necessariamente racconto, non può essere racchiusa in un semplice questionario da riempire con delle crocette. La descrizione nuda e cruda delle condizioni di lavoro (orario, tipologia contrattuale, salario, ecc.) non è sufficiente a dar conto dell’alienazione del lavoro contemporaneo. Poteva bastare, se mai così è stato, forse quarant’anni fa, quando la prestazione lavorativa era descrivibile dalla definizione di mansioni, gesti del corpo, grado di subalternità, qualifica, tutti elementi oggettivati dall’organizzazione tayloristica del lavoro, ovvero dall’esistenza di un rapporto tangibile con l’elemento macchinico (capitale fisico), con il quale l’uomo si rapportava in qualità di mera appendice.

Oggi le nuove tecnologie  di comunicazione e di linguaggio hanno ridefinito il rapporto tra forza -lavoro e macchina, sia nelle modalità d’uso della macchina (si “comunica” con la macchina, si interviene su di essa, come nei sistemi Cad-Cam-Cae) che nella stessa configurazione fisica e spaziale della macchina. Spesso, la macchina è dentro di noi, si pretende di “incunearla” all’interno del nostro stesso cervello e, in modo spesso incosciente, è dentro di noi come forma moderna di eterodirezione (controllo sociale). E’ in questo contesto, che diventa emergente in tutte le realtà produttive la forma del “lavoro cognitivo”. Con tale espressione si indica una modalità di lavoro, che vuole cogliere la diversa relazione, causata dall’evoluzione delle forme capitalistiche di produzione, tra l’utilizzo delle capacità di lavoro umano (unità di azione e di pensiero, come diceva Marx) e l’organizzazione del lavoro stesso, non più necessariamente mediata dall’esistenza di un capitale e uno spazio fisico, che tende piuttosto a smaterializzarsi.

A tale modalità di lavoro si possono collegare una pluralità di soggetti del lavoro e non uno solo, a seconda di come si definisce il rapporto tra lavoro astratto e lavoro concreto, lavoro vivo e lavoro morto, tempo di lavoro e tempo di non lavoro.

Sono tali soggetti plurali che l’inchiesta racconta. E numerosi sono oggi i racconti “soggettivi” che descrivono i vari contesti in cui l’attività lavorativa, sempre più fatta di relazioni, comunicazione, sentimento, pervade i modo eccessivo la vita stessa degli individui.

Si badi bene: pur nella diversità, da tali inchieste (si vedano i risultati pubblicati su riviste come Posse, Bollettino Inchiesta, si vedano i libri della collana Map, editi a DeriveApprodi, solo per citare esempi) emerge la centralità del comando sul lavoro e la pervasività del lavoro sulla vita, con buona pace degli apologeti della “fine del lavoro”.

Proprio per questo non si può che concordare con Vittorio Rieser, i Chainworkers e Loa Acrobax, quando scrivono “è più che mai attuale una prospettiva di inchiesta che ponga di nuovo al centro il comando capitalistico sul lavoro (…) e indaghi i problemi non solo dal lato del capitale” – magari, aspettando la sua irreversibile crisi…, ndr – “ma anche e soprattutto dal lato del lavoro, cogliendo le differenze oggettive e soggettive”.

E’ infatti questo il problema del presente. Se l’operaismo degli anni ’60 aveva analizzato le trasformazioni del lavoro di quegli anni, ed era stato in grado di definire la figura dell’operaio massa come il principale soggetto in grado di incarnare tali trasformazioni, oggi non è più così. L’emergere del lavoro cognitivo produce una pluralità di soggetti del lavoro ed è a tale compito di individuazione plurale che l’inchiesta neo-operaista tende, adesso. La ricerca del soggetto rivoluzionario, su cui investire un’azione politica di avanguardia,  oggi è del tutto impossibile. Intestardirsi sulla figura dell’operaio massa o parlare esclusivamente del lavoro dipendente a tempo indeterminato non consente di cogliere quello che sono “i rapporti sociali fondamentali della società capitalistica” contemporanea (Rieser). E’ questa, insieme all’idea di irriducibilità del lavoro, comunque esso si presenti, al capitale, la lezione di metodo che il pensiero operaista ci ha tramandato.

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