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Capitalisti e “reddito per tutti”

di Ugo Carlone

Un matrimonio di comodo?
Il “reddito per tutti” non è un’idea solo di chi ha a cuore la giustizia sociale e l’eguaglianza. A sostenerne le ragioni, oggi, sono anche numerosi ambiti di capitalismo puro, più o meno innovativo: dalla Silicon Valley al Forum di Davos. Perché? Per filantropia? O per convenienza?

Quant’è buona la Silicon Valley

Nella Silicon Valley, Y Combinator, celebre incubatore di start-up, ha voluto testare sul campo una misura di Reddito di Base Incondizionato (RBI – ne abbiamo già parlato, su Ribalta, quiqui  e qui), con un esperimento a Oakland. Una città con seri problemi sociali, dove è stato lanciato, da parte dell’azienda, un progetto per erogare a cento famiglie una somma mensile compresa tra i mille e i duemila dollari, proprio come fosse un “reddito per tutti”: senza condizioni e senza fare alcunché. Per studiare l’esperimento, è stato reclutato un ricercatore sociale, con l’obiettivo di vedere che effetto fa il RBI, come si comportano le persone che lo ricevono, se continuano a lavorare oppure no, se sono felici o, viceversa, annoiate e insoddisfatte, quali sono le ricadute più complessive sulla società. A prendere questa iniziativa, e a sostenerla economicamente, è stato il numero uno di Y Combinator, Sam Altman, che ha perentoriamente affermato: «Fra 50 anni, penso che sembrerà ridicolo che abbiamo usato la paura di non poter mangiare come un modo per motivare le persone». E ha aggiunto: «Penso anche che è impossibile avere realmente pari opportunità, senza una qualche forma di reddito di base garantito. E penso che, se combiniamo questo con l’innovazione che abbassa i costi e ci permette di vivere meglio, possiamo fare grandi progressi verso l’eliminazione della povertà». Altman riconosce che già esistono sistemi in grado di garantire risorse economiche alle persone, ma, a causa della burocrazia e dei requisiti richiesti, sono solo un’approssimazione molto imperfetta di un RBI. Il numero uno di Y Combinator si dice abbastanza sicuro del fatto che, ad un certo punto, nel futuro, visto che la tecnologia continua a rendere superflui molti posti di lavoro tradizionali e, al contempo, viene creata una massiccia nuova ricchezza, si andrà verso l’introduzione di una qualche versione di RBI. Cioè di un’erogazione di denaro data a tutti, indistintamente, senza condizioni di reddito, senza contropartite di nessun tipo da parte di chi la riceve, cumulabile con altre entrate e finanziata dallo Stato.

Come ha notato Massimo Gaggi, l’esperimento di Oakland è interessante già di per sé, ma lo è ancor di più l’identità di chi ha preso l’iniziativa: «Non un’agenzia del governo federale né un ente pubblico della California, ma Y Combinator, il più importante ‘acceleratore’ delle start up della Silicon Valley»: assistenza sociale, dice Gaggi, finanziata con capitale privato. E questo non sarebbe una novità, visto che di imprenditori illuminati, se non veri e propri rivoluzionari, ce ne sono stati, nella storia (e scomodiamo, come sempre si fa in questi casi, Adriano Olivetti). Ma perché proprio Sam Altman, cioè la quintessenza dell’imprenditore tecnologico californiano? La risposta, sempre secondo Gaggi, sta nella sua biografia: «Grande fan di Star Trek, Sam, 31 anni, è cresciuto in mezzo ai robot, ai processi di automazione. Così l’idea della riorganizzazione di una società nella quale gran parte del lavoro sarà sempre più automatizzato è diventata per lui un’ossessione. Mentre faceva crescere col suo turbocompressore start up come Airbnb e Reddit, Altman si è messo a studiare la fattibilità di un progetto di [RBI]: un salario minimo garantito a tutti i cittadini. In America, Paese nel quale negli scorsi anni ben 22 Stati hanno votato contro l’estensione dei sussidi per la sanità ai cittadini poveri, introdurre un’idea di questo tipo è politicamente difficilissimo. Così, latitanti governo e partiti, Altman si è messo in testa di provare a occuparsi in prima persona, oltre che del modo di lavorare delle società tecnologiche, anche delle tutele sociali per il mondo del lavoro». Bontà e filantropia? Curiosità? Delirio di onnipotenza? Forse tutte queste tre cose c’entrano. Ma c’è dell’altro.

In un articolo su Che Futuro!, Riccardo Luna ritiene che il RBI sia «il sogno più bello della Silicon Valley», «l’ultima utopia dei giovani miliardari che ormai controllano il mondo con le loro piattaforme tecnologiche. Eliminare la povertà per tutti e per sempre, ma senza impedire – è questa la novità – la ricchezza crescente di pochi, dei migliori in un certo senso». Secondo Luna, il fatto che l’idea di RBI prenda piede proprio nella Silicon Valley, con il progetto di Y Combinator, non è affatto un caso, perché è proprio lì, «in una comunità che non ha mai perso le proprie origini libertarie e utopistiche», che è nato e cresciuto il nuovo capitalismo digitale. L’importanza di questa radice anarchica alla base dell’interesse per il RBI è riconosciuta anche da Andrea Fumagalli, studioso e peroratore infaticabile del “reddito per tutti”, che non si dice affatto stupito di questa “mossa” dell’élite tecnologica statunitense: «Lo spirito della Silicon Valley incarna quella che è stata denominata ‘l’ideologia californiana’, ovvero ‘una strana alleanza’ fra scrittori, hacker, capitalisti e artisti della West Coast americana che ha dato vita a una eterogenea ortodossia dell’età dell’informazione». Fumagalli vi vede le radici nella controcultura hippie e nella musica psichedelica dei Grateful Dead; negli anni ’80, questo mondo «viene attraversato dalla controcultura cyber, all’interno di quello spirito libertarian che ha sempre contraddistinto i movimenti alternativi americani». E «lo spirito libertarian è profondamento intriso di anti-statalismo e individualismo ma anche di sperimentazione sovversiva e libertaria. I grandi guru della rivoluzione digitale (da Steve Jobs a Bill Gates) nascono da questo ibrido». Ecco allora che «una proposta come un reddito di base il più possibile incondizionato si colloca perfettamente in questo spirito se viene finalizzato alla promozione della creatività individuale e rappresenta una validità alternativa all’ingerenza statuale nel garantire forme di sicurezza sociale». Ma non basta questo: perché «remunerando stabilmente (e non saltuariamente, come avviene oggi in condizioni precarie) si favorisce un aumento della produttività e quindi anche dei profitti. Ed è ciò che la Silicon Valley vuole».

 

Una proposta strumentale?

Allora, si può ben dire che si sperimenta il RBI anche per aumentare i profitti. In effetti, anche Luna scrive che Y Combinator «è un posto dove ti insegnano a diventare ricco con la tua idea e a farlo in fretta» e si chiede il perché di questa «improvvisa passione per il reddito minimo» e dell’«occuparsi dei poveri se la tua ossessione sono i nuovi ricchi». In questa mossa, secondo lui, «c’è molto di più della beneficienza che le grandi multinazionali fanno da sempre per restituire le briciole dei loro guadagni. C’è la sensazione, fortissima, che il modello sociale attuale non regga più. Sono troppo ricchi i pochissimi ricchi». Quindi, una presunta consapevolezza dell’insonstenibilità delle disuguaglianze sociali. Ma anche un po’ di più. Sempre Luna: «L’approccio di Y Combinator non punta solo ad aiutare i più poveri, quanto è concentrato sul misurare la possibilità di creare in questo modo una società più creativa e quindi più felice (e dove i ricchi possono esserlo in santa pace, con meno proteste e reati per esempio)». E allora, è chiaro che la motivazione del RBI in ottica Silicon Valley non sarebbe propriamente il perseguimento della giustizia sociale. Nella Silicon Valley sono libertari, ma vogliono essere anche (più) ricchi e più tranquilli. E non vogliono sensi di colpa.

Tutto bene, quindi? Non molto. E non sono in pochi a dirlo. Prendiamo Evgeny Morozov, fervida mente, acuto osservatore e grande critico della Silicon Valley. Secondo lui, il fatto che l’élite tecnologica californiana sia diventata uno dei più forti sostenitori al mondo del RBI è semplicemente “sconcertante”. In un articolo pubblicato su The Guardian, Morozov afferma che alla base di tutto c’è senz’altro la radice libertaria della “santa alleanza” di cui parla anche Fumagalli, che però Morozov vede più orientata contro l’invadenza e l’inefficienza dello stato sociale. Un problema, questo, che il reddito di base, se combinato con lo smantellamento del welfare state, potrebbe facilmente risolvere. Morozov individua poi altri fattori. Visto che l’avvento dell’età dell’automazione potrebbe comportare una perdita generalizzata di posti di lavoro, la prospettiva di un reddito di base garantito e incondizionato ridurrebbe le probabilità di una rivolta luddista: «Meglio che tutti imparino a codificare, mentre ricevono un reddito di base e sperano di incontrare un venture capitalist onesto». La natura precaria del rapporto di lavoro nella gig-economy non apparirebbe più così terrificante, se si ricevesse un RBI: «Guidare per Uber, dopo tutto, potrebbe essere solo un hobby che produce occasionalmente alcuni benefici materiali. Pensate alla pésca, ma un po’ più sociale. E a chi non piace la pésca?». Insomma, il RBI sarebbe un cavallo di Troia che permetterebbe alle aziende tecnologiche della Silicon Valley di apparire come “progressiste” e “attente”, come “il poliziotto buono” rispetto al “poliziotto cattivo” di Wall Street. Il tutto, una volta introdotto il RBI, eliminando gli ostacoli che si frappongono verso un’ulteriore espansione dei profitti: «Addio a tutte quelle istituzioni ingombranti dello stato sociale, alla regolamentazione del lavoro che garantisce i diritti dei lavoratori o ai tentativi sovversivi di mettere in discussione lo status quo sulla proprietà dei dati e sulle infrastrutture che li producono». In realtà, secondo Morozov, le imprese della Silicon Valley e il loro modus operandi costituiscono il principale ostacolo proprio all’introduzione del RBI, di cui si fanno promotori. Perché queste aziende tecnologiche evitano di pagare le tasse e «parcheggiano il proprio denaro offshore», sottraendo risorse ad un suo potenziale finanziamento. Nel frattempo, continuano a trovare «nuovi modi per allontanare i dati dagli utenti che li producono», vogliono distruggere lo stato sociale, eliminandolo o sostituendolo con uno del tutto privatizzato, e, dulcis in fundo, colonizzano, usurpano e mercificano ogni nuova forma di «genuina cooperazione sociale». E c’è ancora di più: anche il fatto che l’esperimento di Y Combinator riguardi Oakland potrebbe essere del tutto strumentale ed avere come unico scopo quello di placare un certo tipo di rabbia sociale, come ricorda Andrea Daniele Signorelli su Rivista Studio: questa città ha subìto un pesante processo di gentrificazione, seguito al boom della Silicon Valley, che ha comportato un rincaro dei prezzi e degli affitti, divenuti esorbitanti, e una fuga non di lieve entità di molti abitanti. Il RBI, dunque, potrebbe essere una sorta di ricompensa per chi vive ad Oakland ed è caduto in povertà.

Poniamoci di nuovo la domanda, dopo quanto detto. Perché la Silicon Valley vuole il RBI? Beh, sicuramente non solo e non tanto per filantropia, ma anche per un certo fastidio contro lo stato sociale “assistenzialista” (che potrebbe essere così smantellato o quasi), per evitare rivolte dei suoi “dipendenti” ed esplosioni di rabbia sociale degli abitanti delle città dove opera, per dis-intermediare ancor di più il mercato del lavoro (leggi: deregolamentarlo ulteriormente), per apparire, solo strumentalmente e a fini di marketing, giusti e attenti alle esigenze dei più deboli, per non intaccare lo status quo sulla proprietà delle “materie prime” (i dati) su cui lavora. E aggiungiamo anche il discorso sulle tasse non pagate. Non è poco per diffidare, non c’è dubbio.

 

Reddito per tutti. Sì, ma per convenienza

Il discorso non riguarda solo la Silicon Valley, e va allargato. Lo ha fatto Simone Cosini: in un articolo pubblicato su wired.it, sostiene che chi, all’interno del mondo del capitalismo, in generale, è a favore del RBI, lo è più che altro per convenienza, piuttosto che per convinzione. Cioè: per garantire la pace, non per affermare la giustizia sociale. L’automazione, infatti, come sostengono ormai numerosissimi studi, abbatterà la domanda d’impiego e creerà un enorme surplus economico, e sempre più persone avranno bisogno di aiuto e sostegno. Senza di questi, afferma Cosini, ci sarebbe il rischio di una rivoluzione «o almeno di tensioni così intense da mettere in bilico la medesima stabilità sociale ed economica che ha partorito quell’immenso guadagno». Ecco allora che il RBI, in questa ottica, costituirebbe «una sorta di risarcimento rivolto a certe categorie di (ex) lavoratori irrimediabilmente tagliati fuori dallo spazio dell’impiego per via di robot, algoritmi, intelligenza artificiale, machine learning e ogni altro tassello che compone l’inquietante panorama dell’automazione industriale ma anche, sebbene in misura diversa, intellettuale e creativa». E non si tratterebbe di una misura concepita per l’emancipazione sociale degli individui o per la tutela dei diritti di cittadinanza: «Il paragone con i concetti di diritto al benessere delle rivoluzioni francese o americana […] è del tutto sballato. Mentre in quei casi l’obiettivo è la giustizia sociale, cioè un’organizzazione della società che conduca alla libertà dal lavoro o in termini meno ambiziosi alla riduzione degli squilibri fra fasce di popolazione in diverse condizioni, in questo caso la dinamica è opposta: si tratta dell’espulsione dal lavoro e di un compenso universale pensato per garantire la pace sociale. Non la giustizia, cioè l’eguaglianza fra i cittadini di opportunità e strumenti di crescita». Insomma, un qualcosa di veramente strumentale. Oltretutto, secondo Cosini (che, c’è da dire, vede l’introduzione di un RBI comunque come una “distopia”), questo passaggio sarà tutt’altro che automatico, visto chi deterrà questa enorme ricchezza: «A controllare quel gigantesco surplus di ricchezza non saranno (almeno non sempre e non ovunque) i governi ma le grandi corporations multinazionali. Che potranno dettare i tempi di questa redistribuzione e camuffare quei benefici economici e che comunque devono rispondere anzitutto ai propri azionisti. Non alla società».

Reddito per tutti per convenienza, potremmo dire. Ecco perché il capitale può vedere di buon occhio questa misura, la cui introduzione, dall’anti-capitale, viene vista (non sempre e non da tutti) come una specie di rivoluzione. Ed è ben possibile questa doppia, e antitetica, prospettiva, perché chi non si preoccupa della giustizia sociale, valuta il RBI utile anche solo per permettere la sopravvivenza dell’economia (e dei consumi) e il mantenimento di una certa pace sociale. Come ha scritto Ilaria Bertazzi su Il lavoro culturale: «Vi sono evidenze economiche, come ad esempio la previsione che i salari non crescono a sufficienza da sostenere l’attuale tenore di vita – si legga consumi – che ne fanno una proposta degna di interesse non solo da parte di chi ne coglie i benefici dal punto di vista della giustizia sociale e della redistribuzione delle risorse, ma anche dal punto di vista della sopravvivenza stessa delle economie avanzate occidentali, in perenne crisi di reddito e occupazionale. In un sistema di auto-imprenditorialità, e di precarietà reddituale (prima ancora che contrattuale), un trasferimento di questo tipo renderebbe la vita meno rischiosa».

 

Perfino a Davos

Non bisogna stupirsi, allora, che il World Economic Forum di Davos del 2017 si sia occupato del RBI, e non certo per criticarlo. Sì, proprio il Wef, quello sistematicamente contestato dai no-global negli anni novanta e duemila. Ebbene, in quel consesso, quest’anno, è stato previsto addirittura un panel sul “reddito per tutti”, guidato da uno dei guru del movimento che lo sostiene, cioè Guy Standing (e nell’edizione dello scorso anno, un altro panel era dedicato al tema “un mondo senza lavoro”, in cui il premio Nobel Christopher Pissarides ha espresso sostegno per un reddito garantito). E l’economista Klaus Schwab, fondatore e presidente esecutivo del World Economic Forum, si è espresso con favore sull’idea di introdurre il RBI. Ne ha dato notizia, il sito del BIN-Italia: in un’intervista con un quotidiano tedesco, Schwab definisce la proposta di RBI «sostanzialmente plausibile» e prevede, per i prossimi dieci anni, un crescente e più avanzato dibattito sul tema, visto l’estremo aumento della digitalizzazione nell’industria e il conseguente drastico calo di posti di lavoro. Il RBI, per l’economista, avrebbe poi il merito di riconoscere lavori utili ma attualmente non retribuiti o pagati con salari bassi, come quello di cura. Schwab aggiunge di non credere che le persone che riceveranno un reddito di base se ne starebbero con le mani in mano o sedute pigramente a casa. Del resto, dice, la digitalizzazione sta spazzando via molti lavori, per cui avremo bisogno di una maggiore «umanizzazione della società».

Ma la dimostrazione più palese del favore verso il RBI di Davos 2017 è stato il fatto che il sito del forum ha ospitato un pezzo totalmente a favore del “reddito per tutti“, titolato Why we should all have a basic income, evidenziando che era «parte del World Economic Forum Annual Meeting 2017». Lo ha scritto Scott Santens, che nell’articolo riassume tutti i vantaggi dell’introduzione del RBI messi in luce dalla letteratura e dalle mobilitazioni dei movimenti e cerca di smontare le consuete criticità avanzate da chi è contrario. Vediamo cosa dice Santens, e teniamo presente che il suo pensiero ha costituito parte integrante di una delle liturgie più spinte del capitalismo mondiale, il Forum di Davos, appunto. Il ricercatore parla di una somma di denaro garantita a tutti per tutta la vita, indipendente da ogni altra forma di reddito e in grado di mantenere gli individui sopra la soglia di povertà. Una misura necessaria viste le crescenti disuguaglianze, i salari stagnanti, la fine del posto fisso e la robotizzazione esponenziale che spinge verso una crescente disoccupazione in molti settori. Si tratta di una «promessa di pari opportunità» di partenza, non di un tentativo di intervenire sulla cosiddetta «eguaglianza degli esiti». Senza incidere negativamente sulla propensione degli individui a lavorare, anzi: invece di non fare nulla, le persone cercherebbero di fare lavori gratificanti e uscirebbero dalla necessità di accettare un “lavoro qualsiasi” o di non poter lasciare un’occupazione che li rende infelici. Il poter rifiutare un lavoro che non soddisfa, contare su un maggiore potere contrattuale e passare più facilmente da un lavoro all’altro renderebbe i lavoratori più motivati, e quindi più produttivi, con un evidente beneficio per l’intera economia. Altri effetti positivi: il riconoscimento economico dei lavori socialmente utili e di attività di volontariato e la fine della necessità del salario minimo. Tutto ciò a costi non esorbitanti: Santens, com’è del resto giusto, capovolge la prospettiva e si concentra su quanto sia costoso, per la collettività, il fatto che non esista un RBI. La povertà ha effetti nefasti sul sistema sanitario, sulla giustizia penale, sull’istruzione pubblica, sulle possibilità di diventare imprenditori, sulla produttività e sul potere d’acquisto degli individui che stanno peggio. Il ricercatore sostiene che, negli Usa, il costo della povertà è stimato in 1 trilione di dollari all’anno, per cui, afferma, «le risorse per il RBI si ripagherebbero da sole». Queste somme sarebbero da reperire sostituendo molte delle attuali misure sociali assistenziali, tassando di più i ricchi, aumentando l’imposizione sul capitale, sul consumo (negli Stati Uniti non c’è l’Iva) e sulle esternalità negative (per esempio quelle ambientali) e intervenendo sulle spese per la difesa (che negli Stati Uniti sono enormi). Santens, poi, cerca di rispondere ad una delle domande che nascono spontanee in chi non è convinto del RBI: ha senso garantire una somma a tutti, anche ai ricchi, per poi, se il reddito di chi la percepisce supera la soglia di povertà, tassarla come una normale altra entrata? Non si potrebbe evitare questa “partita di giro”? Il ricercatore americano porta l’esempio della cintura di sicurezza obbligatoria quando si guida: «È uno spreco mettere le cinture di sicurezza in ogni auto anziché soltanto nelle auto di coloro che hanno avuti incidenti e che dimostrano, in questo modo, di averne bisogno? I buoni piloti non hanno mai incidenti, giusto? Effettivamente, potrebbe sembrare uno spreco. Ma non lo è, perché individuare chi ha bisogno delle cinture di sicurezza e chi no, con la possibilità di sbagliare scelta, avrebbe costi assurdi. Gli incidenti non capitano solo ai cattivi guidatori. Possono capitare a chiunque, in qualsiasi momento, semplicemente per casualità. Perciò, le cinture di sicurezza sono previste per tutti». Gli esseri umani, conclude Santens, «hanno bisogno di sicurezza per prosperare, e il RBI è una base economica sicura – la nuova base su cui trasformare l’attuale precarietà e costruire un futuro più solido. Non si tratta di una ricetta magica. I nostri problemi non sono impossibili da risolvere. La povertà non è un nemico soprannaturale, non lo è l’estrema disuguaglianza né la minaccia della perdita di reddito di massa a causa dell’automazione. Si tratta solo di scelte. E in qualsiasi momento, possiamo decidere di farne di nuove». Beh, a parte alcuni passaggi, in cui risulta chiaro l’approccio, diciamo così, liberale al RBI (la preoccupazione per l’eguaglianza delle opportunità e non degli esiti, la possibilità di sopprimere il salario minimo, l’interesse, quasi prioritario, per la produttività dell’economia), le parole di Santens potrebbero essere fatte proprie da qualunque post-operaista preoccupato della vita-messa-al-lavoro o dai più assidui sostenitori di misure di welfare efficaci per uscire dalla povertà. Ma c’è anche chi lo ha scritto in libri importanti, che il RBI serve a migliorare l’economia.

Salvare il soldato Ryan

Ad esempio, Robert Reich, economista ed ex ministro del lavoro statunitense sotto la presidenza Clinton, ha recentemente pubblicato un libro significativamente titolato Come salvare il capitalismo, in cui espone una serie di proposte finalizzate, nelle sue intenzioni, a restituire potere ai cittadini, togliendone ai super ricchi. Reich non pensa che il capitalismo, nella fase attuale che sta vivendo (in special modo negli Stati Uniti), sia un sistema veramente meritocratico, né che i poveri siano responsabili della loro condizione, né, tantomeno, che la razionalità del mercato abbia sfornato il migliore dei mondi possibili. Anzi, egli ritiene che le disuguaglianze sociali odierne siano ormai insopportabili e che occorra fare assolutamente qualcosa perché il conseguente indebolimento della società (americana) non oltrepassi una soglia troppo critica. Insomma, occorre salvare il capitalismo, appunto, dai danni che esso stesso ha creato, visto che è «così squilibrato da non poter reggere a lungo». Del resto, sostiene Reich, il mercato può e deve essere regolato dall’uomo, cioè dalla politica, che può prendere delle opportune contro-misure: tra queste, l’ex ministro individua, come “contrappeso”, la fornitura, a tutti gli americani con più di 18 anni di età, di un reddito minimo di base, erogato mensilmente e in grado di garantire a ciascuno indipendenza e autosufficienza. In realtà, Reich pensa ad una somma che si limiterebbe ad assicurare «un tenore di vita appena decente», ma che sarebbe in grado di eliminare il bisogno dell’assistenza sociale di base, insieme alla stigmatizzazione e all’umiliazione dei più poveri e alla propensione ad indicare loro come spendere i sussidi ricevuti; di ridurre la dipendenza dai datori di lavoro e rendere più liberi i lavoratori; di consentire alle persone di coltivare passioni e interessi che diano un senso alla vita, non inducendo, con tutta probabilità, all’ozio e all’inattività; di permettere un ritorno al lavoro come vocazione e non solo come mezzo di sostentamento. «Un tempo», scrive Reich, «era possibile che un T.S. Eliot facesse l’impiegato quando non scriveva poesia, o che un Walt Whitman si guadagnasse da vivere come copista in un ufficio contabile dell’esercito, o che il giovane Albert Einstein sviluppasse la sua teoria della relatività mentre faceva l’esaminatore in un ufficio brevetti. Ma negli ultimi decenni il lavoro retribuito è diventato per la maggior parte delle persone più invadente, occupando più ore di veglia e sovvertendo anche il sonno. Quanti aspiranti poeti, artisti o scienziati teorici non possono portare avanti la loro passione perché di fatto devono lavorare il più possibile per guadagnarsi da vivere? Un reddito minimo di base gliene darebbe l’opportunità». Oltretutto, i robot faranno perdere una grande quantità di posti di lavoro: preoccupato dell’inevitabile (ulteriore) erosione del ceto medio che ne consegue, Reich sostiene allora come basilare definire nuove regole di mercato in grado di far «tornare la ricchezza nel dominio pubblico, utilizzandola per finanziare un reddito minimo garantito per tutti i cittadini», le cui risorse andrebbero recuperate attraverso una riduzione dei diritti di proprietà per gli eredi dei proprietari di tecnologie innovative (Reich cita, a questo proposito, l’esempio di WhatsApp). In effetti, l’ex ministro clintoniano pensa che sia più sensato un approccio in cui venga condivisa in modo più ampio la ricchezza futura, piuttosto che la tassazione diretta di quella attuale. In ogni caso, «qualunque sia la soluzione scelta, bisognerà adattare le regole in modo da creare un’economia più inclusiva. In mancanza di un modo di condividere i guadagni sempre più cospicui che andranno a pochissime persone e ai loro eredi sufficientemente fortunati da possedere i diritti di proprietà [sui robot] e sulle tecnologie collegate, il ceto medio scomparirà e il capitalismo come noi lo conosciamo non sopravviverà». Da quanto scritto da Reich, emerge allora che chi, «dalla parte del capitale», è a favore del “reddito per tutti”, oltre che per evitare rivolte e assicurare la pace sociale, per contrastare lo stato “assistenzialista”, per deregolamentare ulteriormente il mercato del lavoro, per aumentare la produttività, per motivi di marketing di stampo filantropico, per non intaccare il sistema e lasciarlo sostanzialmente così com’è, lo è anche proprio solo per salvarlo, questo sistema, perché altri sistemi migliori non ce ne sono. Ma c’è ancora di più. E lo possiamo vedere dal recente esperimento finlandese.

 

Maneggiare a piacere la forza lavoro

«Quando un governo di centro-destra propone di sperimentare forme di reddito di cittadinanza è segno che il conflitto sociale si sta spostando su un terreno nuovo e sconosciuto, ricco di possibilità e di rischi». Così inizia un interessante articolo di Anton Monti sulla sperimentazione del RBI in Finlandia, salutata da molti fautori della misura come una grandissima novità. L’esperimento lo è senz’altro, nuovo: il governo di Juha Sipilä, di centro-destra, ha deciso di erogare a 2.000 disoccupati un sussidio economico di 560 euro al mese, in un progetto pilota partito a gennaio e della durata di due anni. Si tratta di un vero e proprio RBI, perché la somma verrà percepita automaticamente, senza condizioni, si aggiungerà ad eventuali altre entrate e non dovrà essere oggetto di nessun tipo di rendicontazione. Certo, i beneficiari sono cittadini estratti a sorte tra i 25 e i 58 anni e senza lavoro, quindi la sperimentazione sarà, per forza, limitata. Monti vive in Finlandia e ne conosce bene i meccanismi socio-economici. Nell’articolo citato, dapprima definisce a brevi linee il quadro della sicurezza sociale, che, in quel paese, è un diritto costituzionale. Ogni cittadino finlandese non occupato riceve un sussidio minimo garantito di circa 837 euro al mese, più una sovvenzione abitativa, che varia a seconda della regione di residenza e che mediamente è di circa 330 euro. In totale fanno circa 1.167 euro. In più, ci sono gli assegni per i figli a carico e la possibilità, in casi di emergenza, di accedere agli uffici comunali per ricevere aiuti (ad esempio, per spese sanitarie o per l’istruzione dei figli). Attenzione, però: da questi sussidi sono esclusi coloro che non sono «a disposizione del mercato del lavoro», e cioè: studenti (che però ricevono circa 669 euro più una sovvenzione abitativa), pensionati, imprenditori (anche “free-lancer e micro-imprenditori”) e coloro che rifiutano ogni lavoro proposto, che, comunque, deve essere parametrato al titolo di studio e al percorso professionale del disoccupato. Inoltre, i disoccupati che hanno lavorato per almeno sei mesi possono godere di un sussidio di disoccupazione maggiore di quello minimo, pari a circa il 60-70% del salario precedentemente percepito (mediamente, nota Monti, è di circa 1.450 euro). Insomma, la protezione sembra esserci, ed infatti, secondo Monti, esistono motivi «ben più profondi ed interessanti» di quelli meramente monetari e legati ai cambiamenti socio-economici, che spingono il governo di centro-destra all’introduzione del RBI. Innanzitutto, «le forme di sicurezza sociale attuali sono talmente rigide che non permettono di impiegare in modo flessibile la forza lavoro a disposizione. Paradossalmente, accettare contratti di lavoro a brevissimo termine, può produrre un calo degli introiti totali e non un loro aumento, e quindi un disinteresse ad accettare forme di lavoro flessibile». Poi, gli strumenti attuali di protezione sociale escludono i microimprenditori, base elettorale dei partiti di centro-destra, e quindi, dice Monti, «riducono le possibilità di creare processi di esternalizzazione dei processi produttivi». In questo quadro, il governo vede nel RBI la «possibilità di flessibilizzare ulteriormente il mercato del lavoro, a spese della società intera, e di dare una sicurezza sociale, che oggi non esiste, alla propria base elettorale». In più, con il RBI (e questa motivazione si inserisce nel pensiero classico liberista) è possibile tagliare una fetta consistente della spesa sociale, perché erogando automaticamente, a tutti, una somma fissa, viene meno la necessità dell’apparato pubblico che valuta (in modo discrezionale, come avviene oggi in Finlandia) i singoli casi individuali. Con il RBI si potrebbe ridurre in modo drastico il numero dei dipendenti pubblici che si occupano di assistenza sociale, che, tra l’altro, spiega Monti, è un’importante base elettorale del centro-sinistra.
Così, si spiega anche il fatto che l’importo previsto nella sperimentazione sia decisamente basso, cioè 550 euro, meno addirittura, nota Monti, dei 669 euro erogati agli studenti. Per il governo finlandese, il RBI «deve garantire la mera sopravvivenza tra un rapporto di lavoro pagato male e di durata incerta e l’altro». Siamo molto lontani dall’individuazione di una misura finalizzata alla «creazione di una società basata sul riconoscimento e la condivisione della ricchezza sociale prodotta in comune», e molto vicini ad «un semplice strumento per un management snello della forza lavoro, che paradossalmente può addirittura nel complesso rendere più debole economicamente la situazione dei nuovi soggetti produttivi». Ecco perché, secondo Monti, «la questione non è reddito di cittadinanza sì o reddito di cittadinanza no. La questione è quanto reddito di cittadinanza».

“Quanto” reddito? Prima chiediamoci “perché il reddito”

Quanto reddito? Messa in questo modo, alla fine sembra una mera questione di assegni mensili più o meno elevati. In parte, non può che essere così, essendo, il RBI, una misura che prevede puramente un’erogazione monetaria (qualcuno sostiene anche di servizi, ma cambia poco). È quindi normale che un ragionamento decisivo debba vertere sulla questione “quanti soldi si danno”: per l’Italia, se non si lavora, un conto sono 200 euro al mese (con i quali al massimo forse ci si sfama), un conto 400 (ci si sfama e si pagano le bollette), un conto 600 (ci si sfama, si pagano le bollette e non si è in ritardo con un affitto, basso), un conto sono 800 (le tre cose di prima, più una quota che può essere destinata più o meno in libertà). Per non parlare di 1.000 euro, che permetterebbero di vivere senza lavorare, pur con un livello di consumi non certo elevato. Il tutto senza tenere conto di fattori decisivi come la composizione del nucleo familiare e il costo della vita della zona in cui si risiede. Ecco perché è cruciale la domanda “quanto reddito per tutti”. Ma dietro a questa domanda ce n’è un’altra, ancora più importante: “perché il reddito per tutti”. Dalla risposta a tale quesito dipende il tipo di misura che si propone; e la stessa risposta dipende da come si pensa debbano “girare” la società e l’economia. Se si vuole semplicemente fare una mossa elettorale, si possono dare anche solo 200 euro ai più poveri dei poveri (leggi: Reddito di inclusione appena approvato); se si vuole che non si scenda in piazza, tra qualche anno, a chiedere il pane e non si contesti massicciamente il datore di lavoro che sfrutta i dipendenti e li tratta come un numerino, se ne possono dare 400; se si vuole un vero welfare per tutti, se ne possono dare 600; se si vuole l’emancipazione concreta, la real freedom for all, come la chiama Philippe Van Parijs, se ne possono dare 800; e se proprio si vuole chiudere con la società del lavoro per forza e con l’ideologia che se non si lavora, non si è nessuno, se ne possono dare 1.000. Sono differenze di un numero, sì; ma che rimandano a divergenze enormi sul modo in cui si intende il mondo che c’è già (e non solo quello che verrà).

Tratto da Ribalta

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