Di seguito un articolo del BIN – Basic Income Network Italia, associazione che fa parte della Rete dei Numeri Pari e che ha contribuito alla definizione della piattaforma del Reddito di dignità.
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A circa due mesi dall’introduzione della legge sul Reddito di Cittadinanza, si può iniziare a tirare qualche preliminare e provvisorio bilancio.
Il primo dato che emerge è che, al momento attuale, il numero delle domande risulta inferiore a quello atteso. Secondo i dati del governo e dell’Inps, al 1 maggio 2019, sono 1.016.000 i cittadini che hanno presentato la richiesta del cosiddetto Reddito di Cittadinanza (RdC), tra quelle compilate on line, sul sito governativo dedicato, e quelle presentate alle Poste o ai Caf. Ricordiamo che il Governo ha previsto stanziamenti per un totale di 1.300.000 domande. Secondo le stime dei tecnici le domande accolte saranno attorno al 70%, quindi 700 mila (poco più della metà, dunque) il che prevedrebbe un esborso complessivo minore di circa due miliardi di euro rispetto a quanto stanziato dal Governo.
Il secondo dato riguarda il livello medio del reddito erogato. Secondo le parole del neo presidente Inps, Pasquale Tridico, si dovrebbe attestare in media sui 520 euro a famiglia (non a persona). Una cifra che lascia scontenta buona parte dei percipienti che a livello individuale difficilmente riescono a uscire dalla trappola della povertà e se tale livello di reddito è spiegato da una qualche attività lavorativa difficilmente riusciranno a uscire dalla trappola della precarietà.
Questi due dati già indicano alcuni limiti del provvedimento: la definizione di un bacino di potenziali beneficiari con caratteristiche troppo restrittive e l’insufficienza delle risorse messe a disposizione. Per questo è necessario continuare la battaglia per un diritto al reddito che allarghi la platea dei beneficiari, aumenti le risorse e dunque l’ammontare del beneficio.
Nella conversione del decreto legge n. 4/2019 in legge 26/2019, 28 marzo 2019 sono stati aggiunti nuovi vincoli che hanno disincentivato la presentazione delle domande, riducendone il numero rispetto a quelle attese. Vi sono infatti obblighi che non favoriscono l’accessibilità: dal dover accettare un lavoro che comporti lo spostamento sull’intero territorio nazionale, fino alle formulazioni di accesso (vedi calcoli ISEE), che riducono di fatto la platea degli eventuali beneficiari, a fronte di un riconoscimento economico di poche decine di euro. Inoltre vi è il tema che riguarda in particolar modo, gli stranieri. Gli immigrati che vorranno accedere al RdC avranno ancora più ostacoli di quanto già previsto in sede di approvazione del Decreto-Legge. Costoro, infatti, dovranno certificare tramite la competente autorità dello Stato estero, il requisito reddituale e patrimoniale e la composizione del proprio nucleo familiare. La certificazione inoltre dovrà essere tradotta in lingua italiana e legalizzata dall’autorità consolare italiana (che ne attesta la conformità all’originale). Sono esclusi da questo adempimento esclusivamente i soggetti aventi lo status di rifugiato politico (in fase di drastica riduzione dopo i provvedimenti presi dal ministro Salvini con il decreto sicurezza).
Se si vuole veramente combattere il fenomeno della povertà, crediamo sia necessario estendere il bacino di utenza a tutti coloro che si trovano al di sotto della soglia di povertà relativa e a tal fine cercare di reperire nuove risorse. Inoltre tra i beneficiari andrebbero identificate tutte quelle figure sociali, che sono dentro e fuori il mercato del lavoro (i precari) o che sono comunque al lavoro ma che non raggiungono un ammontare economico tale da fuoriuscire dalla povertà (working poor). Insomma, un reddito di cittadinanza non dovrebbe intervenire solo esclusivamente per coloro che versano in povertà assoluta, ma anticipare il rischio povertà. Per questo l’allargamento della platea dei beneficiari è necessaria. In questo senso i circa 2 miliardi di euro, che si stima si possano risparmiare, invece di essere stornati altrove dovrebbero essere reinvestiti nell’ampliare il bacino degli aventi diritti, per garantire una adeguata misura di reddito minimo garantito. Si tratta di un nodo – quello delle risorse – che può essere risolto se si interviene in maniera drastica sull’iniquità del sistema fiscale italiano. I dati ci dicono che in Italia nel 2017, fra imposte dirette e indirette, le entrate tributarie sono ammontate a 513 miliardi euro (al netto dei contributi sociali, pari a circa il 30% del Pil), ma solo 36 di essi, ossia il 7%, sono riconducibili ad imposte sul patrimonio. Considerato che in Italia il patrimonio privato, sia di tipo mobiliare che immobiliare, ammonta a 8.000 miliardi di euro, si può dire che il livello di tassazione del patrimonio è pari allo 0,45%!
Qui sta lo scandalo delle mancate risorse! Basterebbe, in modo ragionato, portare tale quota dallo 0,45 allo 0,55% per recuperare 80 miliardi, colpendo in particolare le fasce di reddito più elevate e invertendo il processo di polarizzazione dei redditi oramai in atto da troppo tempo.
Un altro ambito di intervento è poi quello relativo alla necessaria riforma degli ammortizzatori sociali e quindi dei contributi sociali. Essi definiscono il cuneo fiscale, sulla base del principio, oggi non più sostenibile, che la sicurezza sociale debba essere finanziata non dalla fiscalità generale, ma solo dai lavoratori e dai produttori. Se si procede verso un unico ammortizzatore sociale (un reddito minimo di base superiore alla soglia di povertà relativa e su base individuale, il più possibile scevro da condizionamenti nelle scelte di lavoro e di consumo), l’esito può essere una riduzione dei contributi sociali che potrebbe consentire in misura maggiore un aumento del salario netto in busta paga, ma anche una riduzione degli oneri contributivi a carico dei datori di lavoro. Dunque un maggior impegno della fiscalità generale con una tassazione progressiva.
Infine, last but not least, diventa necessario in un mondo del lavoro caratterizzato da precarietà generalizzata e strutturale (favorita dal Jobs Act) l’introduzione di un salario minimo per tutti coloro (sempre più) che non sono coperti da un contratto collettivo di lavoro. In molti settori – logistica, terziario avanzato, nuovi lavori digitali e non – i minimi tabellari in fatto di salario non sono applicabili, favorendo in tal modo un dumping salariale che peggiora il reddito da lavoro.
Al riguardo, valutiamo positivamente l’emendamento recepito dalla legge sul RdC che vincola l’accettazione di una offerta lavorativa ad una retribuzione non inferiore ai 780 euro (l’ammontare massimo del RdC) accresciuta del 10%, per un totale di 858 euro. Allo stato attuale, secondo i dati Inps e Istat ben 4,2 milioni di persone ricevono salari più bassi. È la dimostrazione che esiste una questione salariale, che non può più essere disattesa. Da questo punto di vista, la misura del RdC può essere utile per una battaglia per l’aumento salariale.
Riteniamo infatti che il problema non sia il livello troppo alto del RdC, quanto il livello scandalosamente troppo basso dei salari.
Su questo tema, occorre cominciare una battaglia di verità e rendere il RdC una misura davvero efficace ed accessibile non può che supportare l’innalzamento delle retribuzioni.
Da ultimo, crediamo che anche in Italia sia importante promuovere in parallelo delle sperimentazioni di forme di reddito incondizionato, per riuscire a entrare davvero nel merito di politiche che promuovono l’autonomia e favoriscono l’attivazione perché oramai da più parti si evidenzia come la condizionalità rappresenti un aggravio di burocrazia e di costi non proporzionati ai risultati raggiunti. Esistono già oggi numerose sperimentazioni di un reddito di base incondizionato in alcuni Paesi europei ed in molti Paesi nel mondo, dal Kenya all’India, dall’Ontario alla Finlandia. Questo nuovo step per la battaglia per un diritto al redditopotrebbe portare a nuovi scenari, così come suggeriscono proprio i dati che emergono dalle sperimentazioni in corso, in cui si evince una maggiore garanzia della dignità umana ed una più forte spinta all’autonomia ed all’investimento esistenziale dei beneficiari anche in campo professionale: aspetti favoriti dalla libertà di scelta che un reddito di cittadinanza dovrebbe garantire.
Consiglio direttivo BIN Italia – Rete per il Reddito – Basic Income Network Italia