Probabilmente mai come negli anni che vanno dal 2012 al 2015, in Italia, si è avuta la sensazione che si potesse arrivare a discutere la possibilità di introdurre una (seppur iniziale) misura di reddito garantito, ovvero un beneficio economico capace di garantire che nessun essere umano ‘scivoli’ “al di sotto di una certa soglia economica”. Un principio di base che imporrebbe in uno dei paesi europei a maggior rischio esclusione sociale e disoccupazione giovanile, un concetto semplice per la garanzia della dignità della persona. Le condizioni sociali e l’aggravarsi del disagio economico di ampi strati della società italiana richiedevano e oggi, con ancora maggiore urgenza, richiedono una misura del genere. In quegli anni una molteplicità di connessioni ha portato a due importantissime esperienze, la prima campagna di raccolta firme nel 2012, e una seconda nel 2015.
Nella prima campagna per “una legge di iniziativa popolare per il reddito minimo garantito”[1], iniziata nel giugno 2012, ben oltre 60 mila firme furono consegnate nelle mani della Presidente della Camera Boldrini nell’aprile 2013. Estremamente interessante inoltre fu il fatto che la campagna attraversò per sei mesi l’intero Paese coinvolgendo centinaia di associazioni e realtà sociali in circa 250 iniziative pubbliche. La campagna fu allora sostenuta anche da alcuni partiti politici mentre la proposta di legge di iniziativa popolare (nel suo articolato) fu successivamente “fatta propria” dal partito di Sinistra Ecologia Libertà per “accorciare” le lungaggini burocratiche (che solitamente incontrano le proposte di iniziativa popolare) e così portata in discussione alla Commissione Lavoro del Senato per avviarsi al dibattito parlamentare.
A partire dall’esperienza di “Miseria Ladra” dell’Associazione Libera nella primavera del 2015 prese corpo una seconda campagna sociale ancora più ampia, con un’altra raccolta firme (oltre 80mila), definita: “100 giorni per un Reddito di Dignità”[2] a cui parteciparono altre centinaia di associazioni, enti locali, sindaci, giunte comunali sparse in tutto il Paese. Anche questa campagna raccoglieva non solo l’urgenza di un reddito minimo garantito per l’aggravarsi delle condizioni sociali, ma rappresentava la richiesta di un “tempo” certo verso le istituzioni politiche (100 giorni), per discutere ed arrivare ad approvare una misura simile a partire dai dieci punti espressi nella Piattaforma del reddito di dignità.
Anche a questa seconda campagna diedero sostegno alcune forze politiche (M5S, SEL, RC e alcuni deputati PD) e numerosi esponenti di queste forze furono chiamati a sostenere le ragioni contenute nella proposta.
Senza alcun dubbio, tanto la proposta di legge di iniziativa popolare quanto questa campagna, e anche la proposta di un così detto “reddito di cittadinanza” del Movimento 5 Stelle, hanno contribuito a diffondere il tema in maniera ancora più forte e trasversale nel nostro Paese, tanto da far dire a molti che vi era la necessità di una “larga intesa” tra diverse forze politiche in parlamento per avere una legge per il reddito minimo garantito.
C’è però dell’altro che può accadere intorno a questo tema nel prossimo periodo. Infatti è ormai palese che il governo Renzi, attraverso il ministro Poletti, andrà a definire una proposta di “reddito di inserimento” nel corso dei prossimi mesi. Una proposta di contrasto alla povertà, povera di risorse (600 milioni di euro per il primo anno, cifra di circa 26 volte inferiore a quanto stimato necessario dall’Istat per implementare una qualsiasi forma di reddito minimo) discutibile nei contenuti e nelle finalità, contraria per molti aspetti ai concetti di base del “reddito minimo garantito”. Ad esempio la condizionalità ad accettare “qualsiasi lavoro” da parte della persona, pena l’esclusione, sembra più un rifermento alle poor laws[3] Elisabettiane che finivano per mettere i poveri al lavoro nelle workhouses[4] , che non ad un adeguamento del nostro sistema di welfare alle virtuose prassi esistenti in Europa.
Oppure quel richiamare di continuo il legame tra beneficiario e “cittadinanza attiva”, somigliante a una sorta di nuovo “lavoro socialmente utile”, o quel “prendersi cura del territorio”, che ha tanto il sapore di una sostituzione coatta di quei servizi necessari che vanno garantiti si, ma dagli enti locali. Ed ancora, il riconoscimento del beneficio ai soli nuclei familiari e non agli individui (contrariamente a come funziona nei modelli di reddito minimo presenti in tutta Europa e così come proposto nelle due campagne sopra citate), ed infine l’accesso a tale beneficio solo per coloro che sono sotto i 3000 euro di ISEE (dunque molto al di sotto della soglia di povertà).
Si fa largo dunque una proposta che contiene un impianto fatto di principi e misure che portano indietro l’orologio del dibattito culturale sul reddito garantito, e neppure si avvicinano alle indicazioni sovranazionali o alle esperienze europee ne tantomeno alle proposte di legge avanzate negli anni (come la 4/2009 della Regione Lazio che per lungo tempo è stata una sorta di “legge guida” per molte altre proposte e che però non ha avuto più finanziamenti ne dalla giunta Polverini ne da quella Zingaretti).
Una proposta, quella di Poletti (anche se al momento non vi è un vero e proprio articolato), che nelle intenzioni somiglia molto a quella del Presidente della Regione Puglia Michele Emiliano in cui si prevede addirittura “il controllo delle forze di polizia sui beneficiari”, che introduce un meccanismo di turn over tra gli aventi diritto così da “aumentare la platea” (istituendo così un diritto alla dignità a tempo determinato); in cui si prevede l’obbligo ad accettare qualsiasi lavoro offerto perché, “si da un reddito minimo a patto che non continuino a stare con le mani in mano”. Come se coloro che necessitano di un reddito minimo garantito siano a prescindere, portatori dello stigma di nullafacenti. Probabilmente non si è voluto tenere conto delle indicazioni espresse nelle Risoluzioni europee quando ricordano che “la causa di un’apparente esclusione dal mondo del lavoro può risiedere nella mancanza di sufficienti opportunità occupazionali dignitose piuttosto che nella mancanza di sforzi individuali”[5] e che “l’integrazione nel mercato del lavoro non deve rappresentare un requisito necessario per avere diritto ad un reddito minimo garantito e a servizi sociali di qualità”[6].
Avanzano dunque una serie di proposte che dimostrano in parte anche perché, in fondo, l’Italia rimane ancora oggi uno dei pochi Paesi europei a non avere alcuna misura universalistica di garanzia e sostegno al reddito. Probabilmente frutto di questo ritardo può essere ascritto anche ai tic culturali delle classi dirigenti italiane, che hanno nel tempo sostenuto quasi esclusivamente politiche di workfare (sperando di dopare il mercato del lavoro) attraverso finanziamenti, decontribuzioni o progetti specifici per le imprese salvo poi essere smentiti ogni qual volta i dati Istat o Eurostat segnalano l’impressionante rilevanza del rischio esclusione sociale, il numero dei giovani NEET, la percentuale di disoccupazione, così come il sempre crescente divario tra pochi ricchi e tanti poveri. Purtroppo in questi anni si è passati dal sostenere le ragioni del pieno impiego al prendersela con i gufi di ogni sorta. Dalle ragioni politiche e dalle manovre economiche a quelle faunistico-scaramantiche.
Ma oggi siamo ad un punto nuovo, con una nuova domanda, e cioè se anche Poletti ed Emiliano (per certi versi addirittura Maroni in Lombardia con la sua proposta di legge) hanno capito che è arrivato il momento di introdurre un sostegno al reddito, la domanda è “che tipo di reddito minimo garantito ci vuole?”
A Cosmopolitica, l’incontro della nascente nuova Sinistra Italiana, tra i tanti temi presenti vi era anche quello del reddito garantito. Ma la questione che ci si pone ora è se effettivamente questo nuovo soggetto, o il suo embrione in parte rappresentato già attraverso i suoi esponenti in Parlamento, cosi come in alcune Regioni o in diversi Comuni, riuscirà a dare forza a questo tema partendo proprio dal sostenere le ragioni della proposta di un reddito garantito, di un nuovo diritto di cittadinanza. Ragioni che, nelle misure governative o della Regione Puglia, oggi sono in totale antitesi rispetto a quelle della proposta di iniziativa popolare o della campagna del “Reddito di dignità”. Certo, molti dei protagonisti che oggi propongono la nascita di un nuovo soggetto politico a sinistra hanno già espresso sostegno a tutte e due le campagne sociali con forza e vigore. Ma di fatto ad oggi il percorso istituzionale sembra essersi arenato tra le audizioni delle Commissioni parlamentari. Ora pare farsi largo una proposta governativa che però, come detto, rischia di imporre completamente un’altra visione, altri contenuti e soprattutto rischia di affossare tutto quel portato politico, sociale e culturale che a partire dalle campagne si era in qualche modo imposto. Di fatto oggi sostenere le ragioni profonde di un reddito garantito, significa non solo dire (come fatto fino a ieri) “ci vuole un reddito”, perché con la proposta Emiliano, Poletti e finanche Maroni in Lombardia, che un reddito ci vuole lo dicono un po’ tutti. Ora occorre che coloro che hanno sostenuto un generico “ci vuole un reddito” (spesso giustificato esclusivamente con l’avvento della crisi e come proposta quasi esclusivamente risarcitoria) aprano un nuovo dibattito, facciano un ulteriore passaggio, per definire quali sono le ragioni, che “tipo di diritto al reddito” si vuole introdurre. Ed ancora di più, per una nuova forza politica che intende affacciarsi sul panorama politico della sinistra in questo paese. Le indicazioni delle campagne popolari danno già dei contenuti ed esprimono dei principi di partenza (il minimo irrinunciabile) tesi ad evitare una concezione del reddito come misura “paternalistica” o esclusivamente risarcitoria; principi che hanno posto la questione della valorizzazione della persona, dell’autonomia, della libertà di scelta, anche del percorso professionale e lavorativo.
C’è forse già un primo appuntamento dunque per questa nuova compagine politica. Anche se non ancora definita formalmente, quello del reddito minimo garantito può essere il suo primo vero banco di prova. A partire dalle proposte di legge per il reddito garantito, i rappresentanti già presenti in Parlamento hanno l’opportunità di aprire un confronto sulle ragioni che le sostengono e in antitesi a quelle di Renzi, Poletti ed Emiliano. Ed allo stesso tempo vi è l’opportunità di riprendere a far vivere queste ragioni che vanno oltre la semplice remunerazione economica intesa solo come ammortizzatore sociale, verso una visione più ampia dei nuovi diritti sociali e riconoscere questo strumento di autonomia della persona e perno per una nuova politica redistributiva. Un banco di prova che dovrà necessariamente portare anche nelle Aule parlamentari queste ragioni e magari andare ad aprire un nuovo confronto con il Movimento 5 Stelle e le altre sensibilità presenti in parlamento per arrivare a sostenere una proposta unitaria ed alternativa a quella (al ribasso e per molti aspetti pericolosa) del ministro Poletti. D’altronde il 30 giugno 2015, giornata di chiusura della campagna “Reddito di dignità”, molti esponenti tanto del M5S che di SEL che alcuni del PD si erano detti pronti a partire da settembre (2015), a sostenere un proposta unica così da fare massa critica.
Questa fase dunque propone molti passaggi interessanti, sul piano sociale, culturale, politico ed istituzionale. Si tratterà, per coloro che credono nella necessità di questo nuovo soggetto politico, di sostenere tanto nelle Aule che nel Paese le ragioni più forti di una misura come il reddito garantito: dall’individualità della prestazione, alla libertà (e non l’obbligo) di scelta del lavoro (e dunque di strumenti di valorizzazione della persona) o del percorso di vita del beneficiario, di un ammontare economico che realmente consenta tali scelte, che sia destinato ai residenti e non solo a chi ha la cittadinanza e che esca dalla retorica del solo strumento risarcitorio di contrasto alla crisi e vada invece nella direzione di un nuovo diritto di cittadinanza a partire dal concetto di autodeterminazione della persona. Quello del reddito minimo garantito può essere un banco di prova non solo nelle aule parlamentari, ma anche nel paese perché riapre un dibattito sui diritti sociali e sulla libertà, sulle nuove forme di produzione, sul ruolo delle nuove tecnologie e sulle politiche redistributive, sulla possibilità di partecipazione e il contrasto alla ricattabilità. Un tema quello del reddito, che porta con se una ricchezza di approcci e di approdi che aprono a visioni nuove e forse utili per chi immagina una nuova idea di iniziativa politica. Ancora di più oggi visto il dibattito sulle nuove tecnologie robotiche o le diverse proposte internazionali come quelle in Olanda, Svizzera, Finlandia, nella regione dell’Aquitania in Francia ndia per un reddito minimo garantito e non condizionato o in Brasile con la Bolsa Familia o le sperimentazioni di un reddito di base incondizionato in India e in Namibia.
In uno degli interventi a Cosmopolitica, una relatrice dal palco centrale rilanciava l’idea di una nuova sinistra che abbia come obiettivo prima di tutto “il diritto alla felicità” anche attraverso il diritto ad un reddito garantito come strumento di autonomia e di libertà. Non sappiamo se una forza politica sarà in grado di mettere la felicità al primo posto della sua agenda, ma sicuramente oggi sostenere la rivendicazione di un reddito garantito può segnare un nuovo sentiero cosi da dare senso a quel desiderio.
Note
[1] Si può visitare il sito www.redditogarantito.it oppure il sito www.bin-italia.org in cui è possibile trovare sia l’elenco delle associazioni aderenti, sia le tante iniziative realizzate, sia l’articolato della proposta di legge.
[2] Per maggiori informazioni visitare il sito www.campagnareddito.eu oppure www.bin-italia.org oppure sul sito www.libera.it
[3] Un sistema assistenziale rivolto alle fasce più povere della popolazione, attuato nel Regno Unito a partire dal tardo medioevo, fino al XVI secolo. Rimase in funzione fino alla fine della II Guerra Mondiale, quando furono introdotte nuove forme di welfare state. L’avvio delle Poor Laws può essere datato a partire dal 1572, prendendo come riferimento impianti legislativi di epoca Tudor, in particolare destinati all’assistenza di mendicanti e vagabondi. Le Poor Laws in Inghilterra e Galles sono divise in due componenti definiti Old Poor Laws approvati durante il regno di Elisabetta I, e le New Poor Laws, approvate nel 1834, queste ultime ammodernate in particolare per la centralizzazione dell’assistenza e mirante alla creazione di workhouses. Le Poor Laws non furono abolite fino al 1948, con la promulgazione del National Assistance Act. Infatti il sistema di assistenza sociale delle Poor Laws era entrato in declino dopo l’introduzione delle riforme sul welfare state.
[4] Istituzioni concepite per fornire lavoro e assistenza ai poveri attive in Inghilterra, ma anche in Olanda e nelle colonie inglesi d’America, dal XVII al XIX secolo alle quali la Poor Law del 1601 assegnò il compito di occuparsi dei poveri. L’idea era che, attraverso il lavoro, i poveri avrebbe imparato le buone abitudini, cosi da essere “meno pigri” e “badare” a se stessi. Erano destinato alle workhouses anche orfani e bambini abbandonati o i figli di donne non sposate. Spesso coloro che erano nelle wokhouses erano destinati o obbligati a lavorare saltuariamente nelle fabbriche o nelle miniere o anche in lavori destinati alla comunità locale come domestici, braccianti agricoli ecc. Ai poveri veniva fatta indossare una uniforme cosi che tutti sapessero che era “ospite” delle workhouses. Furono abolite nel XX secolo con la definitiva affermazione del welfare state. Dal 1948 con l’introduzione nel Regno Unito del Servizio Sanitario Nazionale molti ex edifici delle workhouse furono trasformati in ospedali pubblici.
[5] Risoluzione per il coinvolgimento attivo delle persone escluse dal mercato del lavoro (2009)
[6] idem