La situazione emergenziale che si è venuta a creare con l’epidemia Covid-19 ha scoperchiato tutta una serie di nodi che fino ad ora erano rimasti nascosti. Ha messo a nudo due aspetti fondamentali e fra loro interconnessi. Il primo è la necessità di disporre di un welfare di natura pubblica, per quanto riguarda alcuni servizi di carattere essenziale, in particolare la sanità e l’istruzione. Quello che è successo in Italia all’indomani dello scoppio della pandemia ha evidenziato come, nelle regioni maggiormente colpite, il processo di privatizzazione della sanità abbia portato a una riduzione dei finanziamenti per la sanità pubblica, dei posti letto, e soprattutto dei posti letto in terapia intensiva. Posti letto che oggi sono particolarmente necessari e che hanno bisogno di maggiori costi fissi, e che a livello di sanità privata non vengono predisposti, in quanto costosi e non profittevoli. La Lombardia è la regione che maggiormente si è mossa lungo questa strada della privatizzazione della sanità, ed è quella che oggi ne soffre maggiormente le conseguenze per la situazione ormai nota di carenze ospedaliere. La rivincita del welfare è un punto interessante, che può far finalmente capire come sia importante il ruolo della collettività, o delle forme di organizzazione collettiva, le quali devono essere messe in condizioni di operare, perché se si lascia tutto alla dinamica di mercato gli esiti sono abbastanza disastrosi.
La seconda questione di cui voglio parlare, che è esattamente legata alla tematica del welfare, è quella del reddito e delle misure di sostegno dirette al reddito – mentre la sanità, l’istruzione, la mobilità e altri servizi di pubblica utilità sono misure di sostegno indirette al reddito. È chiaro che la situazione ha obbligato a fare un intervento in questa direzione, dopo molti tentennamenti, e anche i partiti conservatori – di destra, populisti e neofascisti – hanno rilasciato dichiarazioni in tal senso. Ovviamente, qui bisogna distinguere che cosa si intende. Da un lato i partiti di governo e quelli di opposizione premono per un intervento emergenziale: un reddito di quarantena, un reddito di emergenza. Quando parlo di reddito di quarantena non faccio riferimento allo slogan che è stato usato dai movimenti in questi giorni, ma all’idea di un reddito che duri il tanto necessario finché la situazione di emergenza non è terminata. E questo è il concetto di reddito di emergenza che è stato proposto dal Movimento 5 stelle: un intervento una tantum, eccezionale, per poi ritornare alla normalità. Se interpretiamo in questo modo l’intervento di sostegno al reddito siamo in una logica assolutamente perdente, inefficiente e soprattutto inutile.
Credo invece che il ragionamento debba essere completamente rovesciato. Bisogna cogliere questa opportunità nella tragedia per iniziare a fare un serio discorso e una serie di sperimentazioni per una riforma strutturale del welfare, a partire dalle misure di sostegno al reddito. Partendo da quello che c’è già: in Italia è la legge sul reddito di cittadinanza, legge n.4 2019, approvata a gennaio di un anno fa. È ormai in vigore da un anno e un trimestre, più o meno, e quindi siamo in grado di analizzare i risultati che sono stati ottenuti. Sono intorno ai 2 milioni e 600 mila le persone, circa un milione di famiglie, che possono usufruire del reddito di cittadinanza. Numero abbastanza limitato, perché secondo i dati Istat i poveri assoluti in Italia sono circa 5 milioni e i poveri relativi arrivano alla soglia dei 13 milioni.
Quindi è chiaro che questa misura non va a coprire la platea dei poveri assoluti e dei poveri relativi, senza tener conto della quota di persone a rischio di povertà che attualmente non vengono considerate povere. In totale abbiamo una platea che rappresenta circa il 30% della popolazione italiana, quindi non stiamo parlando di numeri ristretti. Il costo che era stato preventivato a consuntivo si è rivelato inferiore: erano stati preventivati 3 miliardi e mezzo, se ricordo bene, e ne sono stati spesi 2 miliardi e mezzo. Questo perché ci sono due vincoli, in particolar modo uno, che limitano la possibilità di usufruire di questa misura. Il primo sono le condizioni di accessibilità, che sono molto stringenti, e ovviamente eccessive rispetto a quelle che sono le condizioni effettive di povertà o precarietà di reddito delle persone.
E il secondo è l’elevata condizionalità, che obbliga le persone o a fare un certo numero di ore di lavori socialmente utili, o a firmare dei patti contrattuali per l’inserimento nel mondo del lavoro tramite l’adozione di politiche attive del lavoro. Inoltre ci sono degli obblighi anche di tipo comportamentale per quanto riguarda la natura dei beni che possono essere acquistati con il reddito di cittadinanza. Pare che comprare una buona bottiglia di vino rosso, magari un po’ costosa, non sia contemplato, perché altrimenti si perde il cliché del povero. Il povero dev’essere un disperato, non può permettersi di bere un buon bicchiere di vino rosso. Se partiamo da questa situazione è chiaro che una misura del genere al momento attuale di emergenza è assolutamente insufficiente.
Da qui, l’associazione Basic Income Network, ha fatto una petizione che ha raggiunto più di cinquemila firme – un centinaio di associazioni, di collettivi di movimento, nonché alcuni esponenti del mondo della cultura e della ricerca ecc. – per chiedere alle autorità politiche di estendere il reddito di cittadinanza. Molto banalmente, si tratta di togliere i limiti di accesso, o almeno ridurli, ed eliminare ogni forma di condizionalità, in modo che si possa ottenere un reddito di base incondizionato.
Questa è una manovra che richiede un intervento di carattere finanziario. Dovrebbe arrivare a una platea intorno ai 7-8 milioni di persone, come minimo, quindi tre volte superiore a quella attuale, ai quali si aggiungeranno probabilmente tutte quelle persone le quali possono usufruire di un sostegno al reddito di natura diversa, che è la cassa integrazione. Ma qui facciamo riferimento a una platea di lavoratrici e lavoratori che hanno già un contratto di lavoro abbastanza stabile, che lavorano in determinate industrie e che quindi, da questo punto di vista, sulla base di una logica di tipo fordista, sono coperti. E magari riuscirebbero a prendere come cassa integrazione una somma superiore a quella che può essere erogata sotto forma di reddito di cittadinanza. La cifra dovrebbe essere di €750, perché questo è il livello fissato dall’Istat come cifra minima per la sopravvivenza media mensile in Italia. Se consideriamo anche le lavoratrici e i lavoratori che potrebbero ottenere un reddito sotto forma di cassa integrazione, i dati del ministero del lavoro parlano di circa 5 milioni di persone, abbiamo una platea complessiva di circa 13-14 milioni di persone che potrebbe arrivare ad avere un reddito garantito. Probabilmente non è ancora sufficiente, ma è già un primo passo.
La logica del governo è quella di intervenire sulla base delle condizioni lavorative a seconda della tipologia contrattuale esistente. Quindi abbiamo dei soldi che sono stati messi a disposizione per le partite Iva, per i professionisti e i lavoratori autonomi di un certo tipo – e abbiamo visto che appena si è aperta la possibilità di fare la domanda c’è stato il caos all’Inps tanto che, al momento attuale, dopo due giorni dall’apertura degli sportelli virtuali, sono arrivate quasi 4 milioni di domande, il che ci dà un’idea della sete di reddito e della situazione emergenziale che c’è in questo paese. Poi abbiamo un ulteriore fondo per altre forme di lavoro autonomo iscritte alle casse previdenziali, o quella del 19 per la ritenuta d’acconto dell’Inps, o quella che riguarda i commercianti e gli artigiani. Insomma tutta una serie di dispositivi per cui prima si individua la categoria e poi si fa l’intervento di sostegno: una logica assolutamente inefficiente. Logica che è stata seguita per l’evoluzione degli ammortizzatori sociali in Italia: si parte dalla figura di riferimento che è il lavoratore subordinato a tempo indeterminato e poi se si creano nuove figure professionali viene messa una toppa al buco, così al sussidio di disoccupazione viene aggiunta la Dis-coll, poi viene introdotta l’ASpI, poi la NASpI e via dicendo, creando un sistema completamente distorto, iniquo, farraginoso, burocratico e inefficiente.
La logica che proponiamo è invece quella di provvedere a una convergenza verso un paio di misure: cassa integrazione da un lato, per chi ha già un lavoro stabile, che tenderanno poi a diminuire nel corso del tempo futuro, e intervento di reddito di base incondizionato per tutti gli altri, a prescindere dal tipo di contratto, partendo dalle situazioni di maggior necessità. Con una possibilità sempre crescente di ampliare questo tipo di interventi e renderli universali. Noi crediamo che questa sia la strada più semplice, e più snella da un punto di vista burocratico, se per accedere a forme di questo tipo potesse essere sufficiente solo un’autocertificazione che verrebbe poi verificata in seguito. Ovviamente poi, e siamo all’ultimo punto, a questo sarebbe necessario introdurre una legge per il salario minimo, per evitare effetti di dumping tra la misura del reddito e la misura del salario. Il salario dev’essere garantito in un certo livello perché altrimenti sarebbe tutto inutile e si potrebbero incentivare forme di lavoro nero. Oggi abbiamo questa opportunità: la situazione emergenziale che stiamo vivendo, seppur tragica, può darci quel coraggio e quella spinta per fare scelte coraggiose che guardano in avanti.