Il governo si appresta ad approvare nuove norme per il contrasto alla povertà. Norme necessarie, anche se si continua a tralasciare il tema dell’aumento delle disuguaglianze e quindi l’analisi delle vere cause alla base della povertà
Lo schema di disegno di legge si pone in continuità con la Legge di Stabilità, all’interno della quale, come già analizzato, è previsto un Fondo di 600 milioni di euro per l’anno 2016 e 1 miliardo per il 2017.In realtà, però, il modello proposto da questo disegno di legge affonda le proprie radici in una misura proposta da un precedente esecutivo, ossia il Sostegno all’Inclusione Attiva(S.I.A.) approvato durante il Governo Letta, scomparso dal dibattito pubblico e sostituito, con un errore del tutto
consapevole, da diciture che rievocano direttamente il reddito minimo. Il SIA, lo ricordiamo è una misura caratterizzata da principi di “universalismo selettivo”[1], da scarsità di risorse per singolo beneficiario, da un impianto familista. Pur essendo una misura differente dal reddito minimo, si configura come il modello normativo di riferimento di tutte le successive proposte nazionali e regionali chiamate con il nome di reddito minimo, anche l’ultima appena approvata dallo scorso Consiglio dei Ministri.
Nello specifico il Ministro Poletti, nella sua intervista a Repubblica di questi giorni, ha dichiarato che “La misura si rivolgerà a un milione di poveri del nostro paese”. Un’affermazione che cela un tranello poiché, dato il corrispettivo (anticipato dallo stesso Poletti) pari a 320 euro mensili per nucleo familiare, la misura interesserà appena 280 mila famiglie, non singoli. Il calcolo di Poletti pertanto è sbagliato: 1 milione di persone sono solo i soggetti che indirettamente verranno sfiorati dalla misura la cui quota monetaria erogata ad ogni beneficiario appare, specie in alcune aree del Paese, così esigua da non consentire di far fronte a tutti i propri bisogni della famiglia. La stessaAlleanza contro la povertà ha sollevato critiche rispetto a all’insufficienza della misura.
Proprio l’impianto familistico del nuovo Ddl Povertà, inoltre, risulta uno degli aspetti più contestabili: da una parte viene reiterata la scelta politica di non tutelare l’autonomia individuale, subordinando le necessità di migliaia persone, in particolare di tanti giovani, a quelle del proprio nucleo familiare di appartenenza e dall’altra la condizione “prioritaria” di avere almeno un figlio minore, esclude automaticamente tutte le famiglie senza figli, o con figli maggiorenni (magari disoccupati o NEET), nonché di tutte le coppie di fatto anche se stabili.
Un elemento molto problematico riguarda la condizionalità della misura legata ad “una progettazione personalizzata da parte dei servizi competenti dei comuni e degli ambienti territoriali che assicuri la piena partecipazione dei beneficiari”.
Sempre il Ministro Poletti ha affermato che, in quanto sostenuta economicamente dai “cittadini italiani”, coloro che ne beneficeranno dovranno dimostrare la massima disponibilità, svolgendo determinate mansioni lavorative o impegnandosi a mandare i proprio figli a scuola.
Vi sono poche indicazioni sulle modalità con cui verranno garantite “l’attivazione e l’inclusione sociale e lavorativa” in particolare quando si fa riferimento alla “progettazione personalizzata da parte di servizi competenti di Comuni e Ambiti territoriali con piena partecipazione dei beneficiari”.
Sembra, a primo impatto, che si tratti ancora una volta di un’ occasione per gli enti locali di poter usufruire di manodopera gratuita, mascherata da presunte politiche di inclusione attiva, senza alcun indice di congruità relativo al percorso formativo o lavorativo del beneficiario.
Rispetto a questo tema si sottolineano i tratti comuni con il Ddl ReD [2] presentato in Puglia dalla Giunta Emiliano. La proposta, infatti, è caratterizzata da un “obbligo per adesione”, per tutti i componenti della famiglia beneficiaria. Quest’obbligo consiste in un impegno in attività di tirocinio o di formazione. Tali tirocini dovrebbero essere svolti presso imprese o privato sociale e la loro indennità concorrerebbe alla determinazione della misura (per una quota pari a 450 euro) [3]. Di fatto la Regione Puglia si impegnerebbe a sottrarre il corrispettivo dell’indennità dal ReD erogando, in forma di sostegno al reddito una cifra del tutto irrisoria, in quanto la restante parte diventerebbe indennità per le prestazioni lavorative erogate.
È evidente che questo dato della condizionalità non è da sottovalutare poiché da un alto ci aiuta ad immaginare quale evoluzione dei modelli di welfare si stia prospettando, dall’altra la dice lunga su cosa resta del dibattito sul reddito minimo nel nostro paese, dopo questi ultimi mesi di discussione intorno alle misure di lotta alla povertà. I sistemi di welfare basati sul reddito minimo (ancor più per quelli di reddito di cittadinanza) hanno sempre avuto alla base l’idea che l’erogazione monetaria diretta ed indiretta dovesse essere uno strumento contro il ricatto dell’accettazione di qualunque impiego (non congruo con la formazione, o addirittura gratuito), uno strumento che restituisse autodeterminazione e capacità di scelta all’individuo (non ad un nucleo familiare) che ne beneficiasse senza l’assurda costrizione ad accettare un’occupazione imposta (spesso di fatto gratuita o mascherata da tirocini per nulla formativi), solo per evitare l’insensata critica di “assistenzialismo”.
Quello che ci preme sottolineare, in conclusione, non è una critica tout court a misure contro la povertà, certamente necessarie, ma piuttosto sollevare una preoccupazione per un dibattito italiano totalmente appiattito su un’ontologia della povertà, che sembra da un lato tralasciare il tema dell’aumento delle disuguaglianze, quindi l’analisi delle vere cause alla base della povertà, dall’altra utilizzando la condizionalità come scusa, per razionalizzare le risorse pubbliche destinate al welfare ed i servizi pubblici essenziali. Nella costruzione di questo dibattito viene perciò elusa ed ignorata la necessità di misure di politica economica volte ad una reale redistribuzione di reddito e di ricchezza nel nostro paese.
Per queste motivazioni il nostro timore è che il disegno governativo, in combinato disposto con la Legge di Stabilità, con le recenti misure regionali approvate o in fase di approvazione, possa restringere lo spazio per l’approvazione di una vera misura di sostegno al reddito, realmente universale e incondizionata, rivolta anche a disoccupati, inoccupati, precari e neet.
Viene a questo punto da chiedersi: che fine hanno fatto le proposte di legge presentate dalle forze di opposizione Sel e M5S? È ancora possibile riaprire una discussione nel nostro paese sul reddito minimo?
[1] Il termine “Universalismo selettivo” è utilizzato in letteratura per indicare delle politiche pubbliche volte all’assegnazione di servizi socio-sanitari sulla base di alcuni criteri, in particolare in base alla condizione reddituale dei singoli e delle famiglie. “Le poche risorse che ci sono devono essere meglio spese.” Sono queste le parole d’ordine dell’universalismo selettivo. A seguito delle politiche di austerità di questi ultimi anni, questo criterio è sempre più utilizzato in tema di politiche di welfare.
[2]La proposta pugliese ReD è chiamata impropriamente Reddito di Dignità con l’obiettivo di rievocare l’omonima campagna promossa da Libera e BIN Italia e Cilap Italia.
[3] In Italia la normativa che regola l’indennità dei tirocinanti si ricava dal combinato disposto tra l’art.1 co.34, lettera d) della legge 28 giugno 2012 n.92 (c.d. Legge Fornero) e l’art. 6 co. 2 dell’Accordo Stipulato dalla Conferenza Stato Regioni il 22 gennaio 2015 sul documento recante “Linee Guida per i tirocini di orientamento – formazione inserimento – reinserimento finalizzati all’inclusione sociale, all’autonomia delle persone ed alla riabilitazione”. Secondo tale disciplina la corresponsione dell’indennità di partecipazione al tirocinante avviene da parte dell’ente che lo ha preso in carico. In Puglia l’indennità è pari a 450 euro ai sensi L.R. 23/13 e il Reg. Regionale 4/14.